Capitolo 13 - Conoscersi meglio

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Ocean

Oggi, con mio immenso piacere ma, probabilmente, con dispiacere di Kayla, passeremo del tempo insieme.

Tanner è malato e mi ha chiesto di sostituirlo nel comitato di accoglienza. Non ci ha pensato a guardare l'agenda, prima di chiedermelo, ma caso ha voluto che dovesse fare tutoraggio a Kayla per una lezione tra pari.

Siamo nell'aula magna di finanza e io le ho illustrato i punti salienti di una lezione sulla borsa di Wall Street. Una noia mortale, per me che seguo questo corso solo perché me l'hanno chiesto i miei tutori, ma questa bambolina dai capelli rossi che sembra più bella che intelligente, a primo acchito, ha dimostrato quanto le prime impressioni siano sempre le più sbagliate.

Mi ha seguito con passione, intervenendo qua e là con riflessioni e domande.

Adesso siamo in pausa e tra circa dieci minuti riprenderemo per finire la prima parte della lezione e poi andare a pranzare in mensa prima di spostarci nell'aula Steve Jobs per parlare della storia del marchio Apple e discutere di marketing.

«Sei un ragazzo pieno di sorprese, Ocean Emerson» commenta, dopo che ci siamo entrambi seduti per riposarci un po'.

«Perché?» chiedo. «Ti aspettavi che fossi uno stupido senza cervello che riesce a mantenersi a galla alla The U grazie ai suoi tutori stra ricchi?» domando, perché so che è questo ciò che pensa la maggior parte della gente su di me.

Non sono uno sciocco e quando prendo brutti voti lo faccio a posta. È stupido, lo so, ma è l'unico modo che ho per dare dei grattacapi alla mia famiglia.

Odio che mi abbiano dato tutto, odio che mi abbiano adottato e odio che sembri, nonostante io non lo meriti, che mi vogliano bene.

«Sei un ragazzo intelligente e preparato. Non che prima pensassi che tu fossi uno stupido, però... non credevo avessi così tante conoscenze. Insomma, sei uno da primo della classe, eppure, da quanto mi hanno detto, ti capita di prendere brutti voti e dover ripetere alcuni esami. Perché?»

«Nessuno è perfetto» invento, facendo spallucce.

Kayla sorride e scuote il capo.

«Lo fai a posta, vero? Lo fai perché andare male all'università fa più figo e molto più pecora nera, è così? Sei... una specie di ragazzaccio ribelle che non vede l'ora di far incazzare i propri genitori.»

«Tutori» la correggo. «Loro sono i miei tutori, non i miei genitori.»

«Scusami. È molto importante, per te, rimarcare la differenza?»

Gioco con uno degli anelli che porto sulle dita e annuisco, fissando il banco dietro al quale sono seduto.

«Sì. Ce li avevo i genitori e ora non ci sono più.»

«Ti hanno abbandonato o sono morti?» domanda con un filo di voce, come a voler essere delicata.

«Entrambe le cose direi. Sono morti ma... sono sempre stati dei pessimi genitori. Mio padre soprattutto. Quindi, in un certo senso, è come se non li avessi mai avuti. Mi hanno abbandonato nell'esatto istante in cui mi hanno messo al mondo» dico tra i denti, mentre ricordi che vorrei sotterrare riaffiorano potenti e prepotenti.

«Mi dispiace» sussurra, chinando lo sguardo.

Di tanto in tanto, di sottecchi, seguo con gli occhi i suoi movimenti.

Perché cazzo mi sembra che questa ragazza condivida il mio stesso dolore?

«E la famiglia che ti ha adottato, invece?» domanda ancora.

«Cosa?»

«Loro come sono con te? Insomma, mi sembra di aver capito che ti hanno dato tutto, no?»

Annuisco.

«Sì. Di certo molto più di quanto hanno fatto i miei genitori naturali» confesso, cominciando a raccontare. Continuando ad aprirmi con lei come fosse la cosa più naturale del mondo.

«Mi hanno dato una bella casa, soldi, lusso, un'istruzione impeccabile. Ma... l'unica cosa che volevano disperatamente prendessi, io non l'ho mai accettata.»

«Il loro affetto?» domanda, prendendoci in pieno.

«Esatto.»

«Quando sei stato ferito da chi credevi ti amasse e per cui provavi un affetto sincero, è difficile lasciarsi andare ad altre persone, accettare i loro buoni sentimenti nei tuoi confronti. Credi di non meritarlo, credi che se anche fosse vero, durerà poco.»

«Sembri saperne qualcosa» constato e lei abbozza un sorriso.

«Tutti abbiamo il nostro passato, i nostri vissuti più o meno turbolenti. E anche io sono stata ferita, Ocean.»

«Ti va di parlarne?» chiedo, come se mi importasse, come se mi importasse davvero.

E non capisco perché faccio così. Che cazzo mi frega di lei e del suo passato?

«Non molto, a dire il vero, però... tu ti sei aperto con me, quindi qualcosa te la devo.»

Prende un bel sospiro, fissa il pavimento e gli occhi le si fanno lucidi.

«Non ho voglia di raccontarti momenti che rivangare mi farebbe troppo male, però... ti basti sapere che dopo che una persona di famiglia mi ha ferito da morire, non ho voluto più che nessun ragazzo mi toccasse» se ne esce, facendomi sussultare.

Avvicino la mia sedia e spingo la sua verso di me.

«Che cazzo ti hanno fatto, bambolina?»

I suoi occhi spaesati, soli, persi e confusi, incontrano i miei.

Trattiene le lacrime e scosta lo sguardo.

«Forza, dobbiamo rimetterci a lavoro, genio. La pausa è finita» dice, indicando l'orologio a muro dietro di me.

Inspiro ed espiro velocemente. Sbuffo.

La guardo e capisco che non è né il momento né il luogo adatto per parlarne. E forse lei non è pronta.

Ma, in fondo, potrei mai biasimarla? Perché dovrebbe aprirsi con uno stronzo come me?

Ma, in fondo, potrei mai biasimarla? Perché dovrebbe aprirsi con uno stronzo come me?

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