CAPITOLO 33 Incubi.

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"Non così!" Urlò la signorina Stile.
Riprovai il passo che non era nitido do ai miei occhi.
"No è orribile. Fai cento addominali: sei troppo grassa, perciò non ti mantieni su queste maledette punte."
"Ma peso trentacinque chili... ed ho quindici anni." Replicai.
"Non mi interessa!" Sbraitò. Ma in realtà, non mi mantenevo sulle punte perché ero troppo stanca.
Mi misi a terra ed iniziai a tirare su il busto.
Uno... Due... Tre...
I  suoi occhi penetranti, neri come la pece mi fissarono con una cattiveria sconcertante.
Continuai a sforzarmi ma io ero solo e soltanto stanca.
Avrei voluto urlarlo a tutto il mondo.
Ero arrivata a ventidue e avevo gli addominali in fiamme, non perché avessi poca resistenza, ma perché ne avevo fatti cinquanta già prima di entrare in sala. Mi ripetevo in mente che lo faceva solo per il mio bene.
Che mi tratteneva fino alle nove di sera per farmi migliorare.
Osservai i suoi occhi.
Erano così neri che incutevano paura.

Urlai.
Il letto era madido di sudore, così come la mia fronte.
Controllai l'orario: erano le tre del mattino.
Fuori era ancora buio.
Mi affacciai dalla finestra per prendere un po' d'aria, nella speranza che il venticello estivo di Parigi potesse aiutarmi.
Vedevo delle comitive di ragazzi francesi e turisti di varie nazionalità passare sotto la finestra.
Alcuni scherzavano, altri erano troppo ubriachi persino per camminare eretti.
Mi accertai che sul mio piano dell'internato non ci fosse stato nessuno ed uscii dalla camera.
Camminare alle tre di notte per l'internato dell'Opéra non era di certo un'esperienza che auguro a tutti, anche perché se mi avessero beccata, mi avrebbero espulsa in un batter d'occhio.
Ne avevo bisogno.
Bussai a *quella* porta.
Carl mi aprì.
Era mezzo assonnato. Ed era in mutande.
Mi tappai immediatamente gli occhi.
«Ma che...» finsi un conato di vomito. Entrai nella stanza voltandomi dall'altro lato, per non incrociare il corpo seminudo di Carl. «... mettiti qualcosa addosso.» gli ordinai.
«Okay, mamma.» mi prese in giro.
Eppure qualcuno tra poco me l'avrebbe detto davvero.
"Okay, mamma" una cazzata.
Due parole stupide che per una donna potevano significare tanto.
Per me potevano significare tanto.
Mi tastai l'addome.
Era ancora piatto come una tavola e gli addominali erano ancora ben visibili.
Non era cambiato nulla.
Eppure tra poco quell'essere viveva dentro di me da due settimane.
«Dov'è Louis?» gli chiesi guardandomi in torno, mentre si preparava una camomilla.
«Dove cazzo vuoi che sia, Daphne?! A dormire.» mi rispose scocciato.
Sollevai gli occhi e cercai Louis con gli occhi individuando quale fosse il suo letto.
Evidentemente aveva cambiato letto perché nel solito posto stava dormendo Aleandro.
Lo vidi.
Era nel letto attaccato al muro.
I capelli ramati che gli incorniciavano il viso, le ciglia folte e la bocca leggermente schiusa lo facevano sembrare un angelo.
Un angelo con un alcunché di tentazione che ti tenta a peccare.
A sbagliare.
Ad errare.
A combinare disastri per colpa sua, perché lui, dei disastri era il re. «Louis...» lo svegliai delicatamente.
Aprì gli occhi. Aveva ancora le pupille dilatate.
«Uhm...» si guardò in torno e quando mi scorse si sistemò sul letto. «Che ci fai qui in piena notte?» mi chiese.
Dovevo dirglielo...
Io potevo essere forte.
Io dovevo essere forte.
Mi misi sul letto dinanzi a lui.
«Ecco... quando tu stavi all'Opéra... nella nostra vecchia scuola di danza sono successe un po' di cose...» iniziai.
Allarmato, mi tirò su il mento che si era abbassato insieme al mio sguardo ed ordinò: «Racconta.»
«La signorina Stile... mi costringeva a rimanere fino a sera tardi e a provare, provare, provare... diceva che avevo del potenziale in più per questo dovevo sfruttarlo infatti appena mi si è presenta l'occasione di venire qui all'Opéra... non ho esitato.
È grazie a lei se ho sofferto di anoressia ed ora di bulimia. Io provo a smettere ma non ci riesco e pensare che, bhe, tra qualche mese la mia pancia sarà enorme... io non ci riesco Louis.»
Iniziai a piangere e a crollare davanti a lui come se fossi un adolescente in una crisi ormonale anche se praticamente non era passato poi così tanto tempo.
È così che ci si accorge di amare qualcuno? Asciugandosi le lacrime sulla sua spalla?
Perché l'amore non era fatto solo di baci e carezze.
Era fatto soprattutto di sofferenze, urla, lacrime...
Ma forse era il sentimento più profondo che si potesse provare perché ne racchiudeva parecchi insieme.
Ma forse era il sentimento più profondo perché se si piangeva, urlava, litigava... lo si faceva insieme.
Era un sentimento, che, più di tutto ti collegava al cuore di un'altra persona, alla sua anima.
E allora fu in quel momento che lo capii.
Capii cos'era davvero l'amore.
Capii di amarlo.
E che al di fuori di lui, non avrei guardato mai nessuno in quel modo.

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