Capitolo 18: "Il demone dal cuore muto"

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Dylan p.o.v.
"Stanza 324"
Il suono elettronico fuoriuscì dall'altoparlante quando il cigolio di una porta rimbombò nel muto corridoio.

Le cinture tintinnanti di una camicia di forza canticchiavano tra loro a ogni passo dell'infermiere dal cuore impaurito.

La stanza ospitò la flebile luce proveniente dal corridoio. Si potevano distinguere i contorni di due figure. Una di queste era rannicchiata su uno dei due logori materassi. Essa si copriva il volto con le lunghe, sottili e tremanti dita. Farneticava ininterrottamente parole incomprensibili. L'altra figura, invece, era seduta composta sul bordo del suo letto, con il corpo inerte e gli occhi impassibili.

L'uomo si fermò sull'uscio quando un urlo agghiacciante si liberò dalla gola della prima figura, questa intenta a graffiare incessantemente il muro, come se stesse cercando di aprirsi un varco per fuggire, e continuava a ripetere in un bisbiglio "Fateli smettere... Non li voglio sentire... Vi prego, fateli smettere..." Ma l'uomo ignorò le suppliche di quel povero pazzo. Ora egli stava sovrastando il ragazzo che non gli aveva degnato di uno sguardo. Le dita martoriate di questo si intrecciavano fra loro energicamente, ma gli occhi erano immobili, come se avessero perso la voglia di funzionare.
L'infermiere alzò il ragazzo per l'avambraccio e gli fece indossare la camicia, gli allacciò le cinture e lo portò lontano dalle urla del suo compagno di stanza.
Il ragazzo non oppose resistenza né in quel momento né quando l'uomo lo rinchiuse in una camera sorvegliata da quattro telecamere, queste montate a ogni angolo delle pareti imbottite.

Dopo aver blindato la porta, l'infermiere rilasciò un profondo sospiro di sollievo. Poteva smettere di fingersi audace.

Una cosa che aveva capito quel ragazzo era che se c'era un modo per fuggire da quell'inferno terreno, era quello di far credere di essere "guarito". Avrebbe dovuto fingere, illudere quei medici incapaci di essere riusciti a placare la mente di un pazzo, e poi sarebbe uscito.
Egli si sedette sul pavimento e incrociò le gambe. Non poteva allontanarsi i capelli dalla fronte. I riccioli ricadevano davanti agli occhi offuscandogli la vista, ma lui non mosse un muscolo.

La stanza era insonorizzata. L'unico rumore che le sue orecchie riuscivano a sentire era il ronzio della lampada a led.
Sarebbe uscito.
Bastava non arrabbiarsi. Bastava stare al gioco.
Fece un lungo respiro, ma l'odore della libertà non era ancora arrivato in quella stanza...
Si addormentò, e nei suoi sogni apparve una bambina dagli occhi indescrivibili.
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Dopo tre anni, il giorno del suo ventiduesimo compleanno, il giovane uomo riuscì ad allontanarsi i capelli dalla fronte.
"Che farai adesso, Jones?" Domandò un uomo dalla barba trascurata sul mento e con un camice bianco pallido come il volto di ogni suo paziente "Andrò a cercare una persona." "Spero che tu riesca a trovarla." Disse con dolcezza "Oh sì che ci riuscirò, dottor Jenkins." Mormorò il ventiduenne, lasciando perplesso il vecchio medico sull'uscio di quell'edificio.

Erano passati tre anni dall'incidente al centro di riabilitazione. Tre anni dall'ultima volta che vide suo fratello.
Dieci anni che non vedeva quella bambina.
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"La signorina Kate Torlend si è trasferita altrove inaspettatamente, e, inesplicabilmente, non ha portato con sé la nipote. Abbiamo tentato a contattarla, ma senza alcun risultato." Spiegava l'assistente sociale, inconsapevole della verità, una verità che solo due persone conoscevano: la signorina Kate Torlend e il ragazzo seduto sulla poltrona di cuoio di quell'ufficio.

Egli ascoltava la donna con interesse e si fingeva stupito per la triste storia di quella povera ragazza.
"È da un paio di mesi che cerchiamo la signorina Torlend. Ma quella ragazza è furba. Per quanto piccola possa essere questa cittadina, lei riesce sempre a scomparire. Ha sedici anni ma è pur sempre un'orfana." Disse risolutamente la signora in gonna e camicia, dietro alla sua scrivania di ciliegio "Perché le interessa, signor Jones?" "Suo padre era mio zio... Ero molto legato a lui, e non potrei sopportare di vedere la mia cucinetta in una casa famiglia." Era diventato prodigiosamente bravo ad ingannare, dopo quei tre anni trascorsi in manicomio, è il suo fascino riusciva ad ipnotizzare le menti delle sue prede "Quindi, cos'è che desidera?" Domandò la donna "Desidero la tutela di Wendy Torlend."

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"Non dovete far altro che chiederle una copia delle chiavi e consegnarle a me."
"Lei quindi è il nipote di Arthur Torlend?" Chiese sospettoso il signor Hengor.
"E il tutore di Wend. Lei ancora non mi conosce, e potrebbe prendere male la notizia dell'adozione. Perciò starò a disparte fin quando sarà necessario.
Il vostro è un ruolo secondario, uscirete presto di scena ed io non vi chiederò più alcun favore." Il ragazzo si allontanò i capelli dalla fronte, e infine, guardando i loro anziani volti "Dunque, mi aiuterete a proteggerla?"

Marito e moglie si scambiarono diversi sguardi, d'altronde, dopo cinquantadue anni di matrimonio, non necessitavano delle parole per comunicarsi.
"Si, ti aiuteremo." Risposero all'unisono.
Il ragazzo era riuscito ad ingannare persino gli animi più dolci e innocenti.

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Come aveva promesso ai signori Hengor due anni prima, quel ragazzo aveva aspettato.

"È stato rinvenuto il corpo del deceduto Evan Jenkins, psichiatra del manic..." Il ragazzo sbuffò e spense la televisione. Si alzò pigramente dal divano e uscì da quel buco che l'agente immobiliare aveva il coraggio di definire un appartamento.

Si trovava a qualche metro dalla scuola quando la vide correre verso di sé.
Gli si mozzò il fiato. L'aveva scoperto? Aveva capito che la osservava da tempo? L'unica cosa che poté fare fu fissarla. Lei però non si fermò, gli passò di fianco indifferentemente e si diresse verso una figura poco lontana da lui.

Il suo profumo gli inebriò la mente.

La osservò consolare la figura che piangeva tra le sue braccia, e si rese conto che voleva esserci lui al posto di quella ragazza che non smetteva di singhiozzare.

"Chi può averlo fatto?" Riuscì a sentire piagnucolare la biondina grazie alla ridotta distanza.
"Non lo so..." La sua dolce voce scivolava sulle trecce bionde della sua amica. Il ragazzo s'incantò a quel gracile suono.
"Perché? Perché lui? Persino un mostro avrebbe avuto pietà di mio padre... Lui era l'uomo più buono al mondo..." Sulle labbra del ragazzo comparve un sorriso sprezzante. Definire bontà quello che faceva ai suoi pazienti era un eufemismo.
Era bontà farli impazzire più di quanto non lo fossero già e drogarli al tal punto di farli zittire, e definirli poi guariti? Un pazzo può guarire se viene zittito? La normalità è il silenzio allora? A quanto pare per il dottor Jenkins sì.

"Un demone privo di cuore ne è capace..." Se prima gli si era mozzato il fiato, quelle parole, pronunciate da lei, gli trafissero il petto.

Non era un demone, c'era un motivo se aveva tolto la vita al vero pazzo.
Lui aveva un cuore... Ce l'aveva... Non lo dimostrava, ma lo aveva. Non faceva sentire i suoi battiti a nessuno perché li riservava solo per lei...
In quel momento dubitò se fosse stato giusto presentarsi nella sua vita.
Se lei lo definiva un demone, non sarebbe mai riuscito ad avvicinarsi a quell'angelo...

Molti dicono che tutti noi abbiamo un angelo che ci protegge, e se avessimo anche un demone che ci segue nell'ombra? E se questo demone bramasse il nostre amore? E se il nostro angelo ci stesse proteggendo da lui? E se, per una volta, il demone fosse buono? D'altronde... Tutti i demoni erano degli angeli, prima di perdere le loro ali...

In tutto questo, Dylan Jones sapeva solo che voleva essere il demone di Wendy Torlend.

Dopo un . C'è sempre un inizioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora