Capitolo 1 "si può vivere senza mai sbagliare?"

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"La risposta a questa domanda è uno stupido, semplice, difficile, crudele no.

Come si può vivere senza sbagliare? Come si fa ad andare avanti senza mai cadere? Cerco risposte a queste domande banali da chi sa quanto tempo... Sono stanca di aspettare."

Alzai il volume dello stereo, mi buttai sul letto e caddi in una tormenta di suoni, che solo questa poteva placare l'oceano dei pensieri nella mia mente.

Mi chiamo Wendy Torlend. Il mio nome appare docile, fragile, sensibile e calmo come una ninna nanna, ed è per questo motivo che preferisco chiamarmi Wend. Lo so, non cambia tanto, ma è proprio l'assenza di quella "y" a fare la differenza.

Vivo in una cittadina dove il sole non si degna di mostrarsi, dove quelle maledette nuvole fanno sì che la giornata possa essere in tutti i modi... Insopportabile. La mia scuola non è strepitosa, come tutto d'altronde in questa città. Frequento l'ultimo anno delle superiori, niente di interessante. La mia vita non è di certo un romanzo, però un giorno, sentivo qualcosa di strano nell'aria...Come...Diversità, cambiamento.

Tutto cominciò da quel giorno. Uscii di casa e salii sulla bici. Il solito tempo incredibilmente monotono, la solita strada solitaria, la solita piazza, l'unica di tutta la cittadina, e infine, la solita scuola.

Legai la bici al solito palo della luce ed entrai in quell'edificio.

Il corridoio era come sempre timido e bisbigliante, ma l'aria che si aspirava lì dentro non era familiare, non era quel solito insieme di odori nauseabondi, come quello del deodorante che tenta di sopprimere quello del sudore dopo la lezione di ginnastica, o come l'intenso profumo che circonda il collo di tutte le ragazze. Quell'odore non era affatto rivoltante. Mi attirava verso...La mia classe? Varcai la porta di vetro, con su scritto "Laboratorio di chimica", e divenni spettatrice di una rissa.

Non accadeva mai, anche quando un professore ritardava di qualche minuto, o di qualche ora - classico dei professori di quella scuola, preferivano bersi un caffè e farsi una chiacchierata al bar del signor Devis piuttosto che vedere le nostre facce.

Due ombre sovrastavano i banchi, questi pallidi dalla paura.

Una folla esaltata incitava i proprietari delle sagome oscure.

Che potevo fare? Assolutamente niente, non era affar mio. Mi limitai a sedermi al mio posto e asciugare una lacrima vermiglia sul mio banco con la manica del maglione. La curiosità però si mangiava pian piano il mio disinteresse. Rimasi ad osservare lo spettacolo d'ombre. Tutto si concluse quando un ometto dalla faccia paonazza irruppe in classe urlando a squarciagola "ADESSO BASTA!! SONO STANCO DI VOI DUE! IN PRESIDENZA, SUBITO!!"

Finalmente scrutai le figure: due ragazzi dallo sguardo ingannevole e il sorriso malizioso.

Il primo portava gli occhi dello stesso colore del cielo che sovrastava la cittadina, azzurri e macchiati di grigio. Il sopracciglio sinistro sanguinava, dalle narici scorrevano piccoli ruscelli rossicci, la polvere sporcava i suoi capelli biondi - non c'era da stupirsi, d'altronde anche i bidelli si trovano sempre in compagnia dei professori al bar - e i suoi vestiti dolevano in silenzio: alla sua camicia a quadri mancava il colletto e all'altezza delle ginocchia i jeans erano strappati e macchiati di sangue.

Le iridi del secondo ragazzo si confondevano con le pupille, i capelli neri come il carbone erano raccolti dietro alla testa in un codino, sulle braccia dalla pelle ambrata erano sparse chiazze violacee. Le nocche della mano destra piangevano lacrime scarlatte e una crepa divideva il labbro inferiore.

L'ometto, il preside Vladimir, che arrivava all'altezza dei toraci dei due ragazzi, uscì a passo svelto dal laboratorio, seguito dalle due figure che nascondevano un sogghigno negli angoli delle labbra screpolate.

Dopo un . C'è sempre un inizioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora