Drop your guard

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ABYGAIL

No one knows that you might not be the golden one

And you're tied together with a smile

but you're coming undone.

-Tesoro sto partendo- m'informó David svegliandomi. Mi rigirai tra le coperte e sospirai, aprendo gli occhi e cercando il telefono, andando a tentoni lungo il comodino. Non erano neppure le sei del mattino secondo il display del mio telefono, ma era meglio così. Come ogni mattina, avrei dovuto portare Chace a scuola e poi avevo il lavoro da svolgere: il fine settimana le ordinazioni lievitavano esponenzialmente, perciò dovevo essere ai fornelli il prima possibile. Mi alzai a sedere di malavoglia e mi apprestai, con passo strascicato a raggiungere il bagno per rinfrescarmi un po'. David mi aspettò e, prima di andarmene, mi abbracció e per l'illusione di un attimo mi senti amata, ma non era così e io lo sapevo bene. Avevo letto abbastanza libri da sapere che l'amore non era quello. Lui era Alec e io ero Tess; lui era gentile, generoso, ma era solo una facciata e io ero troppo debole per respingerlo. Probabilmente sarebbe stato così per il resto della mia vita. E avevo solo ventun'anni. Ma già sapevo che quello era il mio posto e che ambire a qualcosa di più mi avrebbe portato solo delusioni. Uscimmo assieme dal appartamento e ci salutammo di nuovo. Ci allontanammo, ognuno in una direzione diversa. Mi voltai per un attimo a guardarlo, mentre camminava tranquillo con le mani nelle tasche dei jeans, le solite sneakers bianche della domenica a far da padrone sulla strada scura di pioggia.

Quando rientrai a casa, trovai mia madre già sveglia che sedeva al tavolo della nostra cucina con una tazza tra le mani. La luce del mattino entrava dalla finestra esplorando impietosa il suo viso appesantito dalle rughe e dalle occhiaie. Aveva solo cinquant'anni, ma sembravano molti di più. Era quello il trattamento, che la vita riservava alla nostra classe sociale: i nostri corpi invecchiavano in fretta sotto la fatica del lavoro manuale e non c'era molto tempo per preoccuparsene.

Certe volte mi sembrava d'impazzire. Guardavo il mio futuro nelle facce degli abitanti del mio quartiere e sapevo di non avere scampo. Non avevo nessuna possibilità di cambiare le cose: non ero brillante, non avevo grandi abilità; ero una qualunque, nata nella parte giusta del mondo, ma nella classe meno abbiente. Tuttavia amavo la mia famiglia e non l'avrei scambiata con nessun'altra.

-Mamma, che fai? Dovresti riposare- mi preoccupai, attaccando il parka all'attaccapanni, all'ingresso dell'appartamento e sedendomi nella sedia accanto alla sua.

-Stai tranquilla, Abygail. Sto solo facendo la colazione; porto io Chace a scuola, e poi mi riposeró leggendo il mio amato Dickens- mi sorrise, affrettandosi a rassicurarmi e sollevò appena un lembo del giornale, per proseguire a leggere le notizie del sabato mattina.

Provavo una tenerezza infinita per quella donna. Mia madre, al contrario di me, era nata nella casa "giusta". Proveniva da una famiglia ricca e aveva lasciato tutto dopo aver conosciuto mio padre, venendo a vivere con lui nell'East End. A distanza di anni, continuavo a chiedermi se non se ne fosse pentita, ma lei ci amava e sorrideva ancora al ricordo di lui, dicendo che rivedeva in noi nostro padre, che aveva amato così tanto. L'unico dolore che aveva era per la nostra istruzione: avrebbe voluto poterci mandare al college, ma non c'erano soldi e i suoi genitori, nonostante fossero ricchi e non avessero altri figli, non ne volevano più sapere lei e di noi. Trovava consolazione al pensiero che io sarei stata felice con David, ma non sapeva quanto si sbagliava e io non mi sentivo di dirglielo. Mi misi ai fornelli per scacciare quei tristi pensieri e il profumo di pancake, che di buona lena mi ero messa a preparare, invase la casa, svegliando il piccolo di casa. Facemmo colazione tutti insieme, come una di quelle famiglie felici delle pubblicità. Tuttavia c'era un vuoto enorme in quel quadretto familiare: Chace lo sentiva meno, visto che aveva solo 5 anni quando nostro padre era morto, ma per me e mia madre era ancora una mancanza immensa. Tutto in quella casa urlava per la sua assenza e la nostalgia ci coglieva all'improvviso, senza che potessimo evitarla. Quando i due furono usciti presi il controllo della cucina. Dovevo cucinare 2 teglie di lasagne, una torta e un polpettone. Mi ci volle tutta la mattinata, ma ci misi comunque meno del previsto e, con i resti, riuscii a fare anche qualche stuzzichino per il pub per quella sera, visto che non sopportavo gli sprechi di cibo. Nel mio giro di consegne, si aggiunse ,quindi, anche quella tappa, e così, poco prima di mezzogiorno, mi ritrovai davanti al portone in legno. Amavo quel posto, nonostante tutto, perché avevo tanti ricordi lì, belli e brutti: mio padre mi ci portava dopo le partite e mia madre si arrabbiava perché tornavo sempre sporca di birra. Ma a me non importava della birra, né della faccia sfasciata di mio padre, o dei lividi, o del sangue. Io ero felice di poter stare con il mio papà. Era sempre lì che David mi aveva puntata, un anno dopo la morte di mio padre. Io ero timida, ingenua; nessun ragazzo si era mai avvicinato a me finchè c'era mio padre, e io, dopo la sua dipartita, mi ero lasciata ammaliare da lui senza sforzo. Posai la mano alla massiccia porta del locale e sospirai, prima di spingerla e dimenticarmi dei miei pensieri.

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