Il paradiso dei peccatori

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L'ascensore dorato si muoveva con lentezza, lasciando a John tutto il tempo di pensare sulla sua recente scelta e di fantasticare a lungo sul taglio rosso che si sarebbe fatto sui polsi fino ad arrivare all'osso. Da quando era arrivato in quell'hotel non si era mai sentito al sicuro, come insidiato da qualche presenza oscura e l'idea di dover lavorare in quel posto gli lasciava una paura viscerale. Sentiva la presenza della donna al suo fianco e il lento respiro ritmico; questo lo faceva pensare al suo seno che si alzava e abbassava al ritmo dei polmoni, e incredibilmente alla paura si mescolò l'eccitazione, lasciando l'uomo confuso e stranito. L'ascensore si bloccò e un suono avvertì l'arrivo al primo piano. Quando le porte si aprirono John non riusciva a crede ai suoi occhi: era tutto come ci si dovrebbe aspettare da un normale hotel, ma questo non lo rincuorava affatto. Improvvisamente si sentì l'urlo rabbioso di una donna che uscì sbattendo la porta dalla sua camera, urlava contro il mondo intero; alla sua ferocia si aggiunse quella di un uomo che uscì dalla sua porta a lamentarsi del casino e così via, fino a che il corridoio non fu pieno di persone vocianti e arrabbiate. Molto arrabbiate. La donna sorrise e prendendo un braccio a John lo spinge nell'ascensore.
"John le spiego come funziona questo hotel. Ad ogni piano ci sono ospiti... Diciamo con inclinazioni diverse. Questo hotel aiuta le persone a far uscire chi veramente sono."
John la guardava allibito. Aveva visto il furore di quella gente e si era reso conto che non era indirizzato verso qualcuno in particolare, ma verso il mondo intero, e allo stesso tempo verso nessuno. Ne rimase profondamente colpito e quelle persone gli ricordarono tristemente la sua ex moglie, così triste e così arrabbiata con il mondo, che neanche l'amore di suo figlio l'ha salvata dal baratro che lei stessa si è creata.
"Che altre 'inclinazioni' ci sono in questo hotel?" Chiese con voce incerta, e con la mente ancora dispersa tra le pieghe dei suoi pensieri.
"Hai mai sentito parlare dei sette peccati capitali? Beh, qui non li consideriamo dei peccati, ma Dell capacità che le persone sono libere di esprimere"
Sette peccati capitali... Ira, accidia, superbia, invidia, avarizia, gola e lussuria.
"Quale sarebbe il mio lavoro?"
Natasha rise di gusto, avvicinando il dorso della mano sinistra alla bocca e guardando l'uomo con superiorità, il quale si era appoggiato con la schiena ad un angolo dell'ascensore.
"Soddisfarli. In tutto ciò che desiderano"
"T...ttut.. Tutto ciò che desiderano?" Dopo aver visto ciò che poteva ospitare quel posto non aveva alcuna intenzione di continuare.
"Io non posso farlo"
"Non ha scelta. E poi non ha ancora visitato tutti i piani"
John si strinse nelle spalle, spingendosi il più possibile verso l'angolo, come se potesse sparire e venire inglobato dall'ascensore, senza più prendersi la responsabilità di nulla.
Il secondo piano era completamente deserto e le camere avevano le porte chiuse. Natasha spiegò a John che tutti gli inquilini di quel piano vivevano come larve all'interno del loro appartamento, senza mai uscire a conoscere chi avevano vicino, senza un minimo di curiosità, senza mai vivere veramente.
"Vuole provare a entrare in una delle camere? Non tengono mai chiuso, non importa a nessuno, visto che nessuno vuole conoscere gli altri"
"Preferirei di no, grazie"
Degli uomini che non vivono veramente, non sono uomini. Sopravvivere non è importante. Rientrarono nell'ascensore con calma. La donna osservava John con attenzione, guardando i piccoli cambiamenti che balenavano sul viso dell'uomo, il turbinio di emozioni che lo sconvolgevano.
"Facciamo un salto" Pigiò il pulsante con il numero 4, che si illuminò di una luce rossa.
"Avari" disse Natasha con un sorriso malizioso.
Questo piano era completamente diverso: non vi erano stanze, ma dei muretti bassi oltre ai quali si notavano dei letti tutti uguali. O al centro della stanza o sul letto vi erano dei corpi nudi che si crogiolavano tra dei dollari palesemente finti, come se fossero tutto il loro mondo. A volte si scambiavano tra loro degli sguardi truci e dei versi gutturali per scoraggiare chiunque a tentare di avvicinarsi. Erano degli animali. John vide che Natasha aveva uno sguardi corrucciato per una "stanza" in particolare. Uno di quegli animali era fermo immobile e non emetteva alcun suono come gli altri. Natasha prese il piccolo interfono che aveva nella tasca della giacca e mormorò qualche parola incomprensibile. Morto. Ecco l'unica cosa che John capì e fu l'ultima cosa che sentì prima di svenire e toccare il pavimento come un corpo morto, anche lui nella indifferenza del mondo.
Si risvegliò nella sua vecchia stanza da ospite, con la testa che girava ancora e il braccio che gli faceva un male cane. La donna stava scrivendo qualcosa su un taccuino e sedeva su una poltrona rosso sangue. John vomitò sul pavimento di fianco al letto e si ridistese stremato sul materasso.
"Non se ne erano accorti... Nessuno lo sapeva"
La donna alzò gli occhi da ciò che stava facendo e lo guardò profondamente. John non la guardava affatto, i suoi occhi erano rivolti al soffitto e sembravano vitrei.
"Non erano uomini... La morte gli è passata davanti e a loro non importava nulla"
Natasha era ancora in silenzio e lo fissava. Alla fine disse solo cinque parole, che lasciarono John senza fiato.
"La vita è anche così"
John la guardò con gli occhi spalancati e lucidi.
"No..." Non poteva essere così veramente. Non davvero.



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