La gabbia d'oro

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Un corridoio lungo, lunghissimo, che si dilata in tutto lo spazio visibile fino all'orizzonte. John è al centro di questo corridoio, non corre, non si muove, sembra quasi che neanche respiri: ogni suo muscolo sembra fissato in un preciso punto spazio-temporale e neanche gli dei possono muoverlo. E' il corridoio che si muove intorno a lui, come un essere vivente si distorce e cammina. Si aprono delle porte ritmicamente, come un battito cardiaco immenso, quello dell'universo: pauroso e bellissimo allo stesso tempo. In quel periodo John si sentiva immerso e affogato in qualcosa che non poteva capire e contenere, come se qualcosa al suo interno si stesse svegliando, qualcosa che era nascosto in lui da sempre e che non poteva cambiare. Le porte rappresentavano davanti a lui tutta la sua vita, come lui la ricordava. Ogni momento brutto o bello si apriva e si mostrava a lui come scritto sulla pagina di un libro; ogni minima sensazione ed emozione, pensiero ed azione erano spiegate e dissezionate in miriadi di coriandoli luminosi, che esplodevano davanti alle retine di John, mentre il suo cervello faticava a registrarle e capirle. Ogni secondo era in realtà un anno e l'uomo percepiva il mondo intero come alla portata del suo dito, il suo mondo ristretto solo in un corridoio che non sembra mai avere fine, ma ce l'ha. Scorrono i suoi momenti più felici, racconti dell'infanzia che ormai credeva perduti, regali, giorni dell'adolescenza che aveva nascosto nella sua mente per pudicizia, i giorni all'hotel con Alba e l'incontro con il mistico André. Poi arrivarono i brutti ricordi: le cadute, le delusioni e gli incubi ricorrenti, che lo avevano accompagnato da quando era giovane. Tra queste la paura immensa di perdere suo figlio e i suoi sogni ricorrenti riguardo a lui con la testa mozzata dalla madre psicopatica. In quel preciso istante il battito cardiaco di John accelerò, la sua mente venne annebbiata e i ricordi che aveva di suo figlio si annebbiarono, scomparendo lentamente come la rugiada al mattino. Il suo castello di carte, il suo mondo si accartocciò e cadde su sé stesso, inghiottendolo per sempre.

John si svegliò nel suo letto, nella camera d'albergo al settimo piano di un hotel che gli ha per sempre cambiato la vita. Si ricordava a malapena il sogno che aveva appena fatto e faticava a ricostruirne il filo logico. Sentiva addosso una inquietudine che non passava , come qualche sera prima, ma questa volta riuscì a scacciarla e a tornare a dormire. Passò tutta la notte in un sonno senza sogni, tranquillo, ma il suo corpo si girava e rigirava nel letto alla ricerca di qualcosa che non c'era, allungava le mani oltre la sporgenza del materasso, tentando di afferrare l'aria, ma invano.

•••

John si svegliò con le ossa tutte indolenzite, come se la notte gliele avesse spezzate per poi rimettergliele a posto. Aveva la schiena rigida e i muscoli contratti lo stavano torturando con numerosissime e piccole stilettate. L'uomo riuscì a trascinarsi verso il bagno e a guardarsi in faccia: i capelli erano scompigliati e in alcuni punti erano incollati alle tempie dal sudore notturno; gli occhi erano gonfi e rossi, come se avesse pianto tutta la notte, ma erano aridi come il deserto e bruciavano; il suo petto era pieno di graffi, piccoli segni rossi, lunghi e superficiali, che contrastano fortemente il colore pallido della sua pelle. Il suo corpo sembrava devastato da una furia distruttrice, disperata e pronta a tutto, ma la sua mente non ricordava nulla di tutto ciò. Si sentiva di nuovo ragazzo mentre passava con cautela il dito sulle piccole ferite, quando sfiorava i lividi procuratisi dalle sue scazzottate; ma questo era molto peggio. I segni sembravano lasciati da qualcosa che voleva strappargli via il cuore dal petto e lui aveva paura, perché aveva sollevato in alto le sue mani e aveva notato sotto le sue unghie resti di sangue rappreso e pelle. Che cosa stava diventando? Era ancora lui?

Tirò un pugno fortissimo contro la porta del bagno, che si incrinò e lasciò un solco proprio nel punto dove era stata colpita. Il dolore gli aveva schiarito la mente e si portò la mano ferita su petto, nel vuoto lasciato dai graffi sulla pelle che gli ricopriva il cuore. La fasciò con cura e senza pensare, o almeno cercando di non farlo, andò a bussare all'unica porta che celava l'unica persona che sembrava avere risposte in questo covo di matti. Alba gli aprì la porta senza alcuna espressione in volto. Vide la mano fasciata e annuì piano.

"Ti faccio un tè" disse andando verso il piccolo bollitore di cui era dotata la sua stanza, forse l'unica all'interno di tutto il piano.

"Grazie"

John si ritrovò seduto lì, su una delle eleganti sedie di Alba, a sorseggiare un tè che non aveva mai capito, tentando di sistemare le cose, tirandosi un po' fuori da sé stesso. Ma non ci riusciva. Semplicemente gli ingranaggi all'interno del suo cervello si inceppavano, si bloccavano, arrugginiti e stanchi di questa storia orribile. Voleva solo andare via, ma sapeva di potere.

"Perché?" la domanda di Alba era uscita dal nulla, come se conoscesse tutti i suoi pensieri, quello che vuole.

"Non lo so, solo non mi sembra possibile" disse John, abbassando lo sguardo sulla tazza di porcellana "neanche questo funziona più"

"John, non puoi aspettarti che un tè risolva i tuoi problemi, solo tu puoi"

"Ma non so come"

"Forse ti serve solo un buon motivo" disse la donna, alzandosi dal piccolo tavolo e sfiorando la mano di John con la sua. Lo guardò intensamente negli occhi, come se volesse dirgli qualcosa di estremamente importante, ma alla fine lasciò perdere.

"Beh, al momento mi sembra che ci siano milioni di motivi per rimanere e neanche uno per andarsene"

"Non mi sembra che questo sia quello che sta cercando di dire a sé stesso" disse la donna. I suoi lunghi capelli neri volteggiavano nell'aria, dopo che lei li ebbe liberati dallo chignon; per John erano stupendi, liberi come degli uccellini di primavera, ma anche gli uccellini stanno in gabbia, come la loro padrona. Chiusa in una gabbia d'oro, ma comunque prigioniera.

"Come?" disse John incredulo, riscosso dai suoi pensieri.

"Tutti siamo in gabbia, una gabbia di fumo: sembra che non esista, invece c'è e ogni giorno si fa più piccola. Se uno si strappa il cuore dal petto forse vuole solo che il suo cuore sia libero dalla gabbia in cui lui è dentro" disse lentamente la donna, scandendo bene le parole in modo da scolpirle nella mente del suo ospite.

John si guardò le mani, che tremavano violentemente, per la paura o per la rabbia o per entrambe, poi si guardò il petto, lacerato da un nido di ferite e annuì. Dopo di che si alzò e senza dire nulla uscì dalla stanza chiudendo dietro di sé la porta.

Rientrò nella camera, la numero 6, quella che aveva tentato di preservare da tutto lo schifo che lo circondava in quel momento. Prese un grosso pennarello nero, non si chiese neanche da dove lo avesse preso, perché dire che era spuntato dal nulla sarebbe stato folle, ma non l'avrebbe mandato fuori di testa; lo aprì annusando l'odore acre del solvente e dopo essere salito in piedi sul suo letto, proprio sopra ai cuscini scrisse una frase che avrebbe dovuto ricordare sempre. Una domanda fondamentale che doveva continuare a ripetersi per rimanere sano di mente lì dentro. Fece il giro della propria stanza, con le dita sulla parete di vetro, che non aveva mai dimenticato, solo cercato di evitare con lo sguardo per la vergogna di fare vedere agli altri quello che lui era in realtà. Fece una doccia, cercando di lavare via quel senso di inferiorità che lo stava opprimendo, di inutilità che lo stava soffocando, di malinconia che lo stava uccidendo. Ma non ci riuscì, non del tutto almeno. Quello che aveva fatto se lo ricordava benissimo e quello che era successo era lì fuori a ricordarglielo. Alla fine si sdraiò stremato sul letto, con i capelli ora puliti e voluminosi che gli oscuravano un po' la vista, a riflettere. E mentre il suo cervello stava lavorando, con i suoi piccoli ingranaggi che scattavano e giravano silenziosamente nella sua mente, gli occhi registravano una sola immagine: una parete bianca e linda con una scritta sbilenca, fatta con la mano sinistra, minacciosa e nera. Importante.

Che cosa sono io?



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