Dolore e fame

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La luce nel corridoio faceva dei strani giochi sulle pareti e illuminando in maniera inquietante i volti spaventati degli inquilini, che, con la morte nel cuore, si ritirarono nelle loro camere e nel corridoio cadde il silenzio. Le gambe di John ormai facevano fatica a sostenerlo in piedi, ma trovarono la forza attraverso l'adrenalina, che ormai aveva sostituito il sangue nel suo circolo, per correre fino all'ascensore e aprirne la porta con la forza della disperazione.

L'uomo covava un desiderio spasmodico di sapere e conoscere quello che stava succedendo, nonostante sapeva benissimo che quello che vedrebbe lo spaventerebbe a morte. Il cuore ormai gli stava per esplodere nel petto quando l'ascensore fece un piccolo segnale acustico prima di aprire le porte al sesto piano, il piano dei golosi. Ricordava ancora la prima ed unica volta che lo aveva visto, gli era sembrato il paradiso terrestre che era stato strappato all'uomo all'inizio del mondo. Ora, mentre aspettava quei terribili istanti e mentre le urla si facevano più intense ora che le pesanti porte in metallo si stavano aprendo, John riconosceva di avere paura di quello che lo circondava. Era una paura generica, che gli si era annidata nel petto molto tempo prima, ma che aveva sempre ignorato fino a quel momento: era come se quel posto fosse un mostro che lo aveva inghiottito e John stava solo aspettando di andare incontro alla sua morte.

Quello che vide però superò ogni sua macabra aspettativa: il giardino che un tempo era rigoglioso e lussureggiante, era devastato e marcito; ai toni del verde e della vita erano stati sostituiti il marrone e la morte. I frutti, che abbondavano su ogni albero come una manna dal cielo, erano caduti a terra e marciti, e mosche e insetti di ogni genere vi banchettavano in una danza spaventosa, mentre i ruscelli che irroravano il giardino con cioccolato, miele e vino si erano prosciugati mentre al loro posto scorreva lento e gorgogliante una sostanza scura che emanava un odore rivoltante. John dovette portarsi una mano sul naso e sulla bocca per non rimettere, ma gli spasmi erano tanto forti che l'uomo si dovette piegare in avanti per tentare di riprendere fiato. Davanti ai suoi occhi vi era una pozza enorme di sangue, lucente e denso, che sembrava estendersi quasi fino all'infinito; invece poco più avanti vi era la sorgente di quel sangue: un braccio, o meglio quello che vi rimaneva, era steso sul prato che era inzuppato di rosso; brandelli di pelle e muscolo di trovavano ancora vicino al resto, mentre si notava con evidenza che quello era stato strappato via e non tagliato e in molti punti si notavano segni di morsi. Per tutto quel tempo John non si era reso conto che il giardino era invaso di corpi morti. Alcuni non avevano ancora tratto il loro ultimo respiro e restavano in quella catalessi mortuaria udendo solamente il suono del loro respiro pieno di sangue, lacrime e disperazione, aspettando che qualcuno dia loro il colpo di grazie, garantendo il sonno eterno. John concentrò la sua attenzione su un corpo in particolare: probabilmente era di un ragazzo molto giovane, che gli ricordò molto Andrè. Dove non era coperto di sangue il corpo esponeva gli organi interni, orribilmente mutilati o esportati ed abbandonati qualche passo più in là; la carne era lacerata in più punti con dei morsi poderosi; gli occhi erano ancora aperti, ma coperti dalla patina bianca della morte e dalla mandibola spalancata si vedevano pezzi di carne cruda che probabilmente provenivano da qualche altro corpo intorno e delle blatte vi uscivano dopo un lauto banchetto. L'uomo non riuscì più a trattenere la nausea e diede di stomaco, stringendosi le mani intorno alla pancia e poi tossendo forte e sputando per scacciare via quel saporaccio che sapeva tanto di miseria.

John non aveva ancora considerato però che uno di loro era ancora vivo e si aggirava tra i cadaveri, strappando brani di carne qua e là dalle sue prede. Quando quel mostro, che un tempo era stato un uomo, vide John ancora vivo e in piedi,una fame senza fine si accese in fondo al suo essere e prese a correre in modo scomposto verso la sua nuova preda. Correva scompostamente stendendo la dita artritiche in avanti, mostrando le unghie che erano incrostate di cute e capelli, spezzate e livide, e aprendo convulsamente la mascella come un pesce fuor d'acqua: quest'ultima mostrava una fila di denti scheggiati e parzialmente nascosti da residui di cibo non ancora masticato, un filo vischioso di saliva gli colava dal lato destro mentre sul lato sinistro un potente morso gli aveva probabilmente tranciato parte dei muscoli e forse anche spezzato la mandibola, ma lui la muoveva tranquillamente senza patire alcun dolore. Si era avvicinato pericolosamente a John, che nel frattempo si era leggermente ripreso, e stava per balzare addosso al collo scoperto di quest'ultimo e togliergli la vita, quando una figura uscì improvvisamente dall'ombra e colpì il mostro direttamente sulla giugulare, facendo schizzare un fiume di sangue su John,che era riuscito solo a guardare allibito. Il mostro cadde sulle proprie ginocchia e si accasciò subito dopo su un fianco con ancora l'osso spezzato che la figura aveva usato per ucciderlo piantato nella gola.

L'uomo era scioccato. I pensieri gli si aggrovigliavano nella mente e si contorcevano sulla lingua, lasciando libero sfogo a quella paura che aveva da tempo annidata nel cuore e lasciandole prendere pieno controllo della sua persona. John cadde sulle ginocchia, simulando il suo aggressore, con gli occhi spalancati che guardavano nel vuoto in direzione della figura che lo aveva salvato. La sua mente non riuscì neanche a registrare la fisionomia di quella persona: stava solo aspettando di essere aggredito, ucciso e far parte di quella schiera di corpi distrutti e macellati. Ma non avvenne nulla di tutto ciò. Dopo dei secondi che sembrarono interminabili John prese di nuovo il controllo di sé e senza staccare gli occhi da quell'uomo si richiuse dentro l'ascensore e si accasciò contro una parete dopo aver premuto di nuovo il numero sette; non si ricordava nulla di come la figura che lo aveva salvato fosse fatta, ma non avrebbe mai più dimenticato quegli occhi che lo fissavano intensamente: erano talmente neri che l'uomo aveva creduto di trovarci dentro gli abissi dell'eterno.

Appena le porte dorate si aprirono, John rilasciò tutta l'aria che aveva nei polmoni; non si era neanche reso conto di aver trattenuto il respiro per tutto il viaggio. Le gambe di John a malapena lo sostenevano, ma ebbero la forza di trascinarlo fino in fondo al corridoio, con la testa ciondolante da un lato e i piedi storti che strisciavano sulla moquette rossa. Il suo corpo era come abbandonato al controllo di una forza esterna, marionetta di se stesso; la sua pelle era schizzata del rosso del sangue del suo aggressore e la mente era svuotata di ogni pensiero. Mentre la sua mente era annebbiata, il suo cuore cercava l'unica consolazione che potesse avere. John si fermò proprio davanti alla sua porta e batté tre volte.

"John..." la voce che sentiva era per la prima volta spezzata dalla preoccupazione, ma in fondo l'uomo sentiva anche un velo di rassegnazione e compatimento. L'uomo pensava che sapesse, ma non lo poteva accettare. Come poteva un umano accettare un fatto simile?

Alba si scostò leggermente per farlo entrare nella stanza, ma l'uomo riuscì a fare solo qualche passo prima di cadere a terra pesantemente. Il suo mantello nero lo seguì nella caduta fluttuando e per qualche secondo le sue piume nere occuparono il campo visivo di Alba. Il tessuto leggero andò a posarsi sulla pelle di John, mentre la sua mente era già dispersa negli abissi dell'incoscienza.

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