19. FAMIGLIA

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Un grido improvviso aumentò il mio terrore, alimentando come un vero focolaio il panico che mi attraversava. Un urlo così forte, così doloroso e così vuoto mi stava mitragliando il petto.

«MARK!»

Mio padre corse a vedere cosa stava succedendo dato che solitamente mia madre non alzava mai così tanto la voce. Era una donna perfettamente in grado di farsi rispettare senza dover sempre correre al riparo chiamandolo in aiuto.

Quando arrivò ci trovò zitte, tutte e tre, col fiato corto e con la tachicardia. Io ero appoggiata alla parete gialla del corridoio completamente assente e nel panico, Clevia era seduta sul bracciolo del divano rosso in salotto e mi fissava attonita, mia madre invece era impietrita davanti a me, a 2 centimetri dal mio viso, pronta a scoppiare a piangere.

«Che succede Lilia?»
«To fiola est encinta.»

Il suo sguardo cadde sul mio. Era freddo, distaccato.
In quell'istante non riuscivo a riconoscere in lui quel genitore che fino a qualche minuto prima tanto mi amava e stravedeva per me. Non vedevo più nei suoi occhi la stima per la figlia che aveva. Leggevo nel suo sguardo che dentro di lui si era spezzato un mondo che credeva indistruttibile. Non ero più quella persona che lui credeva che fossi, quella ragazza dai mille impegni che chiedeva sempre il suo parere e che contava su di lui.
Rabbia, odio, incomprensioni, delusioni, dispiaceri. Ecco cosa sentivo in quegli interminabili minuti di panico: il vuoto.

Un tempo che fu, da bambina, piangevo per le sue partenze ogni volta che andava lontano da casa per concerti, essendo musicista viaggiava molto spesso e io non riuscivo a dormire la notte, ma in quel preciso momento invece il mio viso era rigato da lacrime salate per quel padre che avevo perso.
Una frase bastò per rompere l'equilibrio che regnava sovrano tra noi. Tra me e lui. Tra me e mia madre. Tra me e Clevia. Tra tutti noi vicendevolmente.

Io, quella bambina gelosa della nascita della sorella che correva tra le braccia del papà per sopperire al fatto che mia madre ora donava il suo amore anche a Clevia, mi sentivo abbandonata da tutto e da tutti.
Lui, quel padre che aveva riposto così tante fiducie in me, era sparito. Per sempre.

Grida, pianti e disperazioni si abbattevano sulla nostra casa e risuonavano nelle stanze. Le porte sbattevano all'impazzata. Le parolacce erano le sole cose che sentivo ed elaboravo. Vedevo riflesso in ogni dove il dolore negli occhi dei miei genitori, qualsiasi cosa guardassi rifletteva il loro dolore. Era come se fosse stato messo in pausa un film nel momento peggiore, non certo su un lieto fine.
Tutto stava andando proprio come avevo previsto. Si stava avverando esattamente quello che avevo detto a Elly giusto qualche giorno prima andando a scuola e più loro si incupivano, più io mi allontanavo e più mi sentivo sola.
Cercavo Clevia, volevo incrociare il suo sguardo e potermi appigliare alla speranza che almeno lei non mi stesse fissando con sguardo iracondo, ma non c'era più. Non sapevo dove fosse scappata a nascondersi davanti a tanto dolore.

Le loro grida, i loro pugni sul muro, tutto era dannatamente straziante. Avrei voluto scappare lontano, correre nel mio posto segreto, ammirare i pipistrelli scattare via veloci nell'immensità della notte e calmarmi, ma non potevo, non volevo.
Avevo scelto di tenerlo quel bambino e avrei sopportato qualsiasi cosa pur di averlo.
Lo avrei protetto davanti a tutto e a tutti. Mi sarei battuta per lui a costo di perdere la mia famiglia, quindi restai li, a subirmi il loro tristissimo tormento e le loro grida.

«Mamma, sono stata sciocca, ma voglio assumermi le mie responsabilità, io questo bambino lo voglio crescere. Davvero.»
«Ma sei ancora una bambina tu! INCOSCIENTE
«Non è vero mamma! Sono stata distratta, non incosciente, è diverso.»
«Hai commesso un errore! Non una distrazione!»
«No mamma, l'esserino che vive dentro di me, non sarà mai uno sbaglio!»

Mio padre era sparito. Come anche Clevia. Chissà dove fossero.
Sentivo sei rumori poco confortanti provenire dalla camera da letto dei miei genitori al piano di sopra. Forse era mio padre che cercava invano un po' di pace. Voleva sbollire l'ira che lo tormentava, ma sembrava non riuscirci.

Ora in quel vuoto corridoio restavamo solo io e lei. Anche mia madre aveva bisogno di sfogarsi, di arrabbiarsi con me, di dirmi quello che pensava, ne aveva il diritto e io avevo il dovere di lasciarla fare.

«Amy, tu non ti rendi proprio conto di cosa hai fatto!»
«Mamma, non sono una stupida! Capiscilo! Sono molto più responsabile di quello che credi e di quello che vi ho dimostrato restando incinta!»
«Sono arrabbiata e delusa Amy. Sono preoccupata per te, per il tuo futuro e per quello del piccolo, o piccola o chissà cosa sarà! Sto impazzendo. Straparlo! Stai ancora andando a scuola. Come pensi di mantenerlo?»
«Mi inventerò qualcosa mamma! Ma io non lo ucciderò.»

E improvvisamente, quando entrambe eravamo ormai distrutte e crollate dal precipizio, quando quella notizia ci aveva trascinate nel baratro, quando ormai non avevamo più voce per poterci gridare addosso, mi abbracciò, trovando una potentissima forza dentro di lei, salvandomi.
Mi baciò teneramente la fronte piangendo e continuò a tenermi salda al suo petto stretta stretta tra le sue braccia amorevoli che profumavano di mamma per non so quanto tempo.
Mi cullava e mi rassicurava. Semplicemente mi amava.

«Scusami, mamma.»

#MrsAlicR

UN TUFFO NEL VUOTODove le storie prendono vita. Scoprilo ora