1. LA PIOGGIA

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Il vento soffiava fortissimo, le onde si infrangevano sulla scogliera che si ergeva imponente dietro di me, tutto era buio e cupo, i nuvoloni alti nel cielo sembravano un folle e spaventoso esercito coalizzato contro il mio volere e il mio destino. Tutto era completamente nero, anche il mio stato d'animo.

Non ero affatto al top quel giorno. Non lo ero quasi mai in realtà e di certo, in quel preciso momento non mi aiutava il tempo.
Quella pioggia violenta che si imbatteva sul finestrino della mia misera Ford Fiesta blu senza un cerchione e con ben tredici anni di vita sembrava proprio rispecchiarmi.

Ero sola. Con una tempesta che mi bruciava dentro. Ero accaldata e agitata anche se era dicembre e faceva parecchio freddo in quel di Rentille, il mio paese d'origine. In quel preciso istante c'era un solo grado centigrado e per fortuna che pioveva, altrimenti sarei stata circondata da una nebbia fittissima e ancor più freddo. Il vento mi avrebbe congelato tutte le estremità del corpo e sarei stata costretta a indossare innumerevoli strati di abiti. Odiavo e odio tuttora l'inverno.

Rentille era un posto tranquillo: età media cinquantadue anni, poche auto, botteghe e fruttivendoli per le vie, vecchietti che giocavano a carte sulle porte di casa, stufe a legna per riscaldare le abitazioni, lanterne e candele in tutte le case per evitare di pagare troppa corrente; i miei compaesani erano tutti mezzi montanari e marinari e il novantatré percento degli abitanti di questo tanto adorato paesino non sapeva nemmeno parlare l'italiano.
La lingua principale, a Rentille, era il dialetto: se non lo sapevi parlare, eri fregato! Se non lo capivi, eri fregato! Infatti, se provassi a parlare in italiano con la mia adoratissima nonna di soli sessantotto anni probabilmente inizierebbe dapprima a piegare la testa di traverso guardandoti storto per poi passare in un secondo momento a dirti: «Se gè?», che vuol dire una cosa simile a: «Cosa c'è? Cosa vuoi? Cosa hai detto?».

Insomma, Rentille è un paesino sperduto, sulla cima di una grande scogliera, alta circa tremila metri, a strapiombo su uno splendido mare, un mare talmente bello che si estende a tal punto da confondersi con il cielo azzurro di un pomeriggio d'estate, un mare così speciale da rendere magica anche la tempesta che si intrometteva tra me, la mia destinazione e il mio volere, rendendomi più cupa del solito.

Ed era li che ero diretta, da lui, da quel mare che mi ha cullata, cresciuta, coccolata e abbracciata sempre, da quel mare che con quella sua splendida sabbia gialla e calda mi ha sempre scaldata nell'animo e nella mente. Avevo bisogno di lui. Avevo bisogno di essere felice. Avevo bisogno di stabilizzare quel buio che avevo dentro, quel dolore che mi straziava il cuore.

Acceleravo con la mia auto sempre più senza rendermene conto. Ero immersa nei miei fetidi pensieri. Correvo tra i tornanti ripidi e stretti, su una strada che effettivamente non era neanche molto sicura: i guard rail dalle mie parti non sapevano nemmeno cosa fossero, ma a quanto pare non avevano nemmeno voglia di mettere protezioni di alcun tipo, quantomeno nelle curve. Per non parlare dell'illuminazione stradale! Tirchi com'erano, quelli del Comune non avevano mai investito in tal senso e non investiranno mai, probabilmente, peccato che tra la pioggia e il nero sempre più fitto e spaventoso che si innalzava nel cielo, io non vedevo più nulla!
Per fortuna conoscevo nei minimi dettagli ogni curva, ogni tornante e ogni particolare della strada che percorrevo, mi sembrava quasi di essere Sébastien Ogier e Julien Ingrassia in una delle loro migliori gare di Rally: in quel momento ero sia pilota che navigatore e più mi avvicinavo a destinazione, più iniziavo a riprendere lucidità mentale e stabilità psicologica. Fino a che, senza nemmeno accorgermene, finalmente arrivai.

Lasciai l'auto a qualche chilometro dalla spiaggia. Avevo voglia di godermi un po' quello splendido panorama che mi accerchiava, dominato da altissime coste, da una fantastica baia solitamente baciata dal caldo e lieve sole mattutino, da una distesa di sabbia sottile color oro di circa sei o sette chilometri dove ero solita fare del sano jogging e da incredibili rocce naturali dalle forme più svariate da cui poter fare tuffi di ogni genere o su cui stendersi semplicemente a prendere il sole.

Quel giorno avevo anche voglia di respirare l'aria di pioggia, il profumo di mare e l'effluvio di sabbia bagnata così aprii freneticamente la portiera della mia auto e iniziai a camminare velocemente sotto il diluvio universale senza ombrello: adoravo e adoro la pioggia quanto il sole.

Chiudete gli occhi e immaginatevela. Prima di iniziare a piovere il cielo si chiude con eleganza iniziando piano piano ad assumere fantasiose colorazioni di grigi sempre più cupe e inquietanti fino a che poi, improvvisamente, inizia a piovere e come per magia sembra quasi che una parte di quel cupo cada, lasciando spazio piano piano a uno splendido senso di leggerezza. Quasi come se tutta l'eleganza impiegata per incupirsi fosse solo l'inizio di un futuro prossimo sereno, limpido e lieve.
E pensare che di solito quando piove 'se esta on lèt' ossia: si sta a letto, si va in letargo, lo diceva sempre mia madre: «Con la pioggia si può tranquillamente stare chiusi in casa, sdraiati sul divano, guardare la TV comodi comodi e magari essere accompagnati da una buonissima tazza di tè caldo in mano perché fanno tutti così, anche gli animali stanno al riparo quando piove», ma io no.
Io assaporavo sempre la reale essenza e significato di quella lieve acqua che scende dal cielo, io la amavo e basta. Se potessi starei ore a guardarla, a sentirne il suono, a gustarmi il lieve picchiare di essa sulla mia pelle; lei mi penetrava e mi purificava..

E nel mentre che vivevo tutto questo mi appacificavo, mi calmavo, mi rilassavo e camminavo spensierata verso quel luogo che con ansia mi attendeva.

#MrsAlicR

UN TUFFO NEL VUOTODove le storie prendono vita. Scoprilo ora