Daichi Sawamura - Ti stó aspettando

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Daichi Sawamura - Ti stó aspettando

" E per ogni giorno
mi prendo un ricordo che tengo nascosto lontano dal tempo
insieme agli sguardi veloci momenti che tengo per me
e se ti fermassi soltanto un momento
potresti capire davvero che è questo che cerco di dirti da circa una vita
lo tengo per me
SEI PARTE DI ME

Zero assoluto / Sei parte di me"

Un pianto interrompe la mia notte apparentemente tranquilla.
Apro gli occhi e, con una velocità tale che non credevo di avere, mi alzo correndo nella stanza accanto.
Spalanco la porta venendo investita da un pianto incessante. Più mi avvicino alla culla più la testa mi pulsa dolorante.
- La mamma è qui - sussurro, mentre con dolcezza prendo il fagotto tra le mani e inizio a cullarlo. - La mamma è qui. -
Non ho idea di quanto tempo passi. Non me ne importa molto sinceramente. So solo che vorrei tornare a dormire, visto che sono due giorni che praticamente non chiudo occhio.
Tutto si calma, improvvisamente. Osservo stupita il viso del bambino che ora non piange più, é sereno e rilassato. Tiro un sospiro di sollievo e faccio per appoggiarlo fra le sue coperte ma Asahi non ci sta. Decide di riaprire gli occhi e sbraita contrariato. L'acquolina che mi era salita in gola al pensiero di poter tornare a chiudere le palpebre si accartoccia e brucia in un secondo. Gemo di tristezza.
Le mani della creaturina, intanto, continuano a tirarmi una ciocca ribelle di capelli, impiastricciandola e intrigandola. A volte tira troppo e fa male, però non posso fare a meno di sorridergli mentre tento di divincolarlo da l'ennesimo ciuffo.
Guardo l'orologio appeso sopra la porta: segna le ventitré in punto; siamo arrivati all'ora "X" della mia giornata.
- Ho capito, ho capito - gli dico, avvicinandomi alla sedia a dondolo vicina alla finestra. - Sarà una notte lunghissima. -
E in effetti è così.
Prima che il marmocchietto si addormenti nuovamente passano tre ore buone. Ho tutto il tempo di ritrovarmi a pensare a cose che non mi venivano in mente da mesi; mi chiedo persino cos'ero a fare l'anno prima in questo momento. Forse ero a festeggiare, oppure ad aspettare che Daichi tornasse a casa. Ora come ora non saprei dirlo, ma molto probabilmente se questo fosse un quiz smarcherei la seconda opzione.
Da quando stiamo insieme non faccio altro che aspettarlo. Lo aspetto per ore, giorni, tentando di stare dietro ai suoi ritmi da atleta anche da lontano. È dura, ma io sono forte abbastanza da farcela. Anche perché non ho altra scelta se voglio rimanere al suo fianco, a dirla tutta.

Guardo il mio piccolo e gli accarezzo i capelli scuri con delicatezza. Sotto i fievoli raggi di luna che passano il vetro, il suo profilo ricorda molto quello del padre e la cosa mi riscalda il cuore in modo assurdo.
Tento di sistemarmi meglio sulla sedia tuttavia è diventata troppo scomoda, non posso fare a meno di alzarmi iniziare a girovagare per la casa buia. La trovo troppo grande. È enorme, a dire la verità mi ricorda un castello.
"Ma Daichi dovrebbe tornare presto, allora la casa sarà grande abbastanza" mi dico. "Presto" mi soffermo a lungo su quella parola e all'improvviso, non so perché, provo un immenso dolore. La verità è che mi manca tantissimo. Sento la mancanza del suo sguardo, della sua voce, del suo tocco. Sono stanca di aspettarlo. Non ce la faccio più. Lo voglio qui.
È una cosa così frustrante essere costretta a stargli lontana.
Maledetta distanza, sibilo nella mia mente. E poi, inizio a pensare ai manager e i fotografi, i giornali e i telegiornali, le gazzette e i siti web, e la mia frustrazione ascende implacabile. È assurdo come un personaggio noto non possa avere una vita privata o un giorno libero.
Vorrei dire una parolaccia ma mi trattengo; da quando è nato mio figlio ho deciso di ripulirmi la bocca da scaricatore di porto che mi ritrovo. Alzo lo sguardo verso una foto appesa alla parete. È una semplice immagine, di quando c'eravamo appena conosciuti. Sorridiamo tra le pareti di quella cornice scura, bardati fra una sciarpa e un cappello di lana, perché quel giorno faceva un freddo cane. Il mio primo inverno in Giappone. Bellissimo.
Il fagotto si ribella fra le mie braccia improvvisamente e attira tutta la mia attenzione. Dimentico la foto e riprendo a cullare il bambino con dolcezza, cantando quelle poche rime che conosco di una ninna nanna giapponese. Poi rinuncio, capendo di essere negata, e gli sussurro parole dolci al buio del salotto. Gli racconto della mia Italia, che vedrà anche lui quando sarà grande abbastanza per iniziare a viaggiare. Stranamente Asahi sembra accettare tutti i racconti e ritorna nel paese delle meraviglie. Il suo respiro si fa man mano più profondo e regolare, finché non crolla stanco.
"Il mio piccolo capolavoro" mi dico, poi gelo. Da quanto ho iniziato a definire quel fagotto "mio" e non "nostro"? Mi sento terribilmente in colpa verso Daichi. Ripensandoci bene, però, da quando è nato non ho fatto altro che occuparmi io di lui. Non è bastato nemmeno diventare papà perché la nazionale di pallavolo decidesse di dare tregua al mio compagno. Ormai è via da quasi un mese, a causa di quello stupido torneo di pallavolo, e il mostriciattolo è prossimo a compierne due.
La sua assenza è diventata sempre più palpabile. Sempre più concreta.
È una cosa stancante fare tutto da sola; stare dietro ai bisogni del pargolo e occuparsi della casa, delle bollette, di mantenere i rapporti con la famiglia lontana. Sentire la sua mancanza, poi, è la parte più brutta della giornata e, guarda caso, arriva sempre quando finalmente tutto tace ed è in ordine.
Di solito verso sera, dopo che il piccolo ha mangiato e finalmente si arrende alle coperte della culla. Rimugino sulla giornata trascorsa, preparo quella che mi aspetta l'indomani e, quando poi mi volto per parlarne con Daichi... lui non c'è. Non c'è quasi più ormai. Sebbene io provi a telefonargli è raro che le nostre chiamate durino almeno dieci minuti, a causa del fuso orario e dei suoi impegni.
Detesto questa situazione.
Mi passo una mano sul collo e sospiro esausta.
- Chissà cosa starà facendo papà adesso... - Mi vado a sdraiare sul divano e ci copro con una coperta, accendo la TV, abbassando il volume più che posso per non disturbare.
I canali cambiano velocemente, mandandomi anche in confusione a volte, ma quando finalmente riesco a sintonizzarmi su quello giusto esulto internamente. Mi si apre davanti agli occhi un campo da pallavolo circondato da spalti di persone; illuminato fievolmente dalla luce del pomeriggio. È una replica di ieri ma mi va bene rivederla se posso -anche solo per qualche minuto- seguire l'uomo che amo con gli occhi.
Inquadrano le panchine, le scalinate riservate alle squadre che non sono in campo. Ci sono quasi tutti, i vecchi amici. Alcuni sono riusciti a entrare in squadre di altri paesi e hanno cambiato vita allontanandosi da qui, ma non è raro che si incontrino tra di loro durante qualche partita. Di tanto in tanto Daichi mi racconta qualcosa di nuovo su di loro.
- Un "muro fuori" battuto dalla difesa giapponese porta la squadra al set point! - sta esultando uno dei cronisti.
- Bisogna affermare che molti dei giocatori nipponici, compresi quelli in panchina, giocano assieme dalle superiori. Ormai i loro movimenti sono tanto in simbiosi che è quasi impossibile trovarvi una falla - ammette l'altro. Nella mia mente i due stanno annuendo dietro il vetro della loro postazione.
- Papà è bravo, non credi anche tu amore? - domando al piccolo, come se fosse in grado di rispondermi. - Ma tu sarai più bravo di lui, ne sono certa. - Quello che succede dopo nemmeno lo ricordo, perché le mie palpebre si chiudono e tutto diventa sfocato per poi scomparire.

Il mattino seguente vengo svegliata da uno schiaffetto. Un contatto morbido e profumato.
Apro gli occhi, stanca, e il viso di Asahi mi osserva con infantile gioia. Sembra quasi festeggiare il fatto che la mamma lo stia guardando, forse è così. Lo bacio teneramente, facendolo ridere e poi decido di alzarmi. Il mio stomaco brontola impervio.
Qualcosa mi ferma.
Qualcosa di caldo, forte, familiare. Un corpo slanciato e allenato che mi stringe ancora un po' quando tento di girarmi per guardarlo meglio.
Sussulto quando mi rendo conto di chi ho vicino. Grido, stringo Asahi a me e alzo il busto con tanta velocità che mi gira la testa per qualche minuto.
Daichi, spaventato, balza e cade dal divano su cui era già in equilibrio precario.
Trova anche la forza di lamentarsi mentre io, sopraffatta dalle emozioni, non posso fare altro che portarmi una mano alle labbra e trattenere un esclamazione non del tutto da mamma.
- Sei a casa - dico invece, asciugando una lacrima solitaria. - Sei tornato da noi. -
Daichi sbatte le palpebre e si stropiccia gli occhi. Ora che ci faccio caso sembra che lo abbiano quasi picchiato: le sue occhiaie sono di un viola scuro e pesante.
Si slancia con morbidezza, ci stringe fra le braccia. Ha il tocco leggero ma sicuro. È il tocco di un marito, un padre, un'amante. Mi sento così protetta e felice che sospiro e lo stringo a mia volta con un braccio.
È così caldo e profumato.
- Sono a casa - sussurra.
- Ormai pensavo che non saresti più tornato - ammetto, accarezzandogli il volto. Un leggero velo di barba mi graffia il palmo ma non ci faccio caso, non mi interessa.
- E invece eccomi qui. Non ti libererai di me tanto facilmente. -
- Non ci tengo proprio - sorrido. Lo bacio e il mio stomaco gorgoglia per l'emozione.
Lui annuisce e, con quella sua espressione gentile e rassicurante che sono solita conoscere, allunga le mani verso nostro figlio. Lascio che lo prenda in braccio.
- Quando sei arrivato? - chiedo tornando alla realtà.
- Questa mattina verso le sei. -
- Potevi svegliarmi. -
- Non volevo. Ho preferito aspettare piuttosto che rovinare l'atmosfera. - Si volta a guardarmi con i suoi occhi grandi e scuri.
Mi stiro. - Perché? -
- Perché... Perchè per tutto questo tempo non ho fatto altro che desiderare di tornare a casa e stare con voi e finalmente, quando sono arrivato, vi ho trovato che riposavate con le repliche delle mie partite che ancora andavano in onda. Mi si è scaldato il cuore, amore mio. Ho preferito stendermi vicino a voi e aspettare. -
Qualcosa esplode nel mio petto con tanta enfasi da farmi scoppiare a piangere. Quello che ha fatto Daichi è un gesto tanto piccolo quanto gigantesco, per me.
Lui mi ha aspettata. Ha atteso me.
Vedendomi piangere si allarma, mi si siede vicino e mi osserva preoccupato. Asahi fra le sue braccia ride mentre picchia leggeri pugni sul suo petto o tenta di togliergli la felpa. Sembra estasiato dai vestiti che porta suo padre. Sembra estasiato da lui, ma non dai suoi capelli corti ai quali non riesce ad aggrapparsi.
- C-che succede? Perché piangi? Ho fatto qualcosa di sbagliato? - Sembra si stia agitando molto, quindi mi affretto ad asciugare le lacrime e scuotere il capo.
Lascio che il nostro bambino stringa la sua mano attorno al mio dito e sorrido.
Daichi profuma di buono e io mi avvicino. - È che - inizio a dire, cercando di non rimettermi a piangere, - mi sei mancato così tanto. Tu non puoi capire quanto io abbia atteso il tuo ritorno. -
Lo bacio ancora, più intensamente questa volta. Lo stringo a me e la sua pelle riscalda la mia con una familiarità che mi tranquillizza.
- Mi sei mancato tanto. Ci sei mancato tanto. -
- Mi siete mancati anche voi. - Sfiora la guancia di Asahi con le labbra e il bambino ride. - Ma per un pó non vi lascio più, lo giuro. -
Esulto internamente, e probabilmente lui lo capisce visto che si mette a ridere.
Sono felice.
- Bene, allora vado a fare la colazione. Mi sembra un buon modo per festeggiare. - Mi alzo e stiro, poggiando poi le mani sui fianchi in attesa di una risposta.
- Si, ti prego. Ho una fame che non ci vedo più. -

Nonostante sia impegnata a cucinare, quando un pianto attira la mia attenzione di solito scatto. Abbandono la roba sui fornelli se necessario. Sono sempre pronta a muovermi ma non oggi, non ora che so che c'è Daichi di la con Asahi.
- AMORE! - grida a un tratto - il bambino ha fatto la cacca! -
- Bentornato a casa! - rispondo solo io, facendogli intuire che non andrò ad aiutarlo, perché è arrivato il suo momento di occuparsi del nostro bambino.
- Crudele! - risponde solo lui, scatenando la mia risata più sincera.
- Infima - replico io, mentre lo guardo salire le scale di quella casa che adesso mi sembra avere le dimensioni giuste.

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