#48

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Mi svegliai che il braccio di Ben era incollato al mio petto, ed una sua gamba teneva intrappolate le mie. L'altro braccio mi passava sotto al collo e la sua mano era dolcemente posata sulla mia spalla. Le sue labbra sfioravano la mia mascella ed il suo respiro accarezzava le mie guance. Richiusi gli occhi desiderando un risveglio così tutte le mattine, ma lo sguardo mi cadde sulla sveglia. Erano le dieci, e tra mezz'ora avrei dovuto incontrare mio padre!
-Benji! Benji scollati!-
Ma in risposta ricevetti solo qualche mugolio ed una stretta più protettiva.
-Devo andare Benji, svegliati!-
Non vedevo altro modo di svegliarlo: gli tirai uno schiaffo. In questo modo spalancò gli occhi e si alzò a sedere con una mano sulla guancia.
-Sbrigati, devo andare da mio padre, e tu mi accompagnerai.-
Presi il vestito per andare in bagno a cambiarmi, quando lo vidi che mi fissava con la bocca aperta. -Mi hai tirato uno schiaffo!-
-Era l'unico modo per svegliarti.-Mi giustificai, evitando di ridere per la sua faccia troppo buffa.
-Questa TE la faccio pagare in solletico.- Mi avvertì.
-Sì sì, okay, ma un'altra volta.-
Andai in bagno e constatai che i miei capelli sentivano ancora di fumo in una maniera incredibile, per cui fui costretta ad entrare nella doccia. In cinque minuti (ripeto: cinque minuti. Non si era mai vista una doccia così veloce nella mia vita), riuscii anche a togliere dalla faccia tutto il trucco sbavato. Mi asciugai in fretta ed indossai il vestito. E perfetto, la fortuna non era per niente dalla mia parte dato che anche quello puzzava di fumo. Mi guardai intorno, fino a che vidi una boccetta di profumo posata sul bordo della vasca. La presi al volo e me la spruzzai addosso, così che potesse coprire l'odore del fumo.
Il profumo di Ben mi penetrò nelle narici, e realizzai che quel giorno non avrei smesso di pensare a lui, avendo il suo odore addosso.
-Benjamin!- Urlai:-Ti vuoi vestire?- Chiesi, vedendolo vicino al suo cronico caffè mattutino e ancora in pigiama.
Lui alzò le spalle:-Comunque dobbiamo parlare di ieri sera. Hai fumato, vero? Non... Uffa, dove sono i miei cereali?-
-Metti i cereali nel caffè?-
-Da sempre.- Disse lui come se fosse la cosa più ovvia del mondo.
-Devo essere dall'altra parte della città tra... Dieci minuti!-
Sbuffò e bevve il suo caffè tutto d'un fiato. Andò in camera per vestirsi velocemente. Aveva dei pantaloni della tuta che gli fasciavano le gambe ed una felpa sotto ad un giubbino pesante. Aveva un berretto in testa e in mano, una di quelle felpe morbide e dal tessuto leggero che però tengono molto caldo ugualmente.
-Mettila, o morirai di freddo.-
Sorridendo per il pensiero, mi avvicinai a lui per far sì che me  la mettesse, e nel mentre mi strinse a lui.
-Comunque buongiorno, e buona Vigilia di Natale.- Sussurrò sulle mie labbra.
Per fortuna arrivammo davvero in fretta dall'altra parte di Modena, davanti al ristorante dove io e mio padre ci eravamo già visti.
-Stai attenta, e quando avete finito chiamami. Ti vengo a prendere e andiamo a fare un giro in centro. Le luci di Natale sono bellissime.-
Annuii in risposta. Ero nervosa, eppure guardare il suo viso mi tranquillizzava, e mica poco.
Se lui fosse una melodia, il pianoforte avrebbe la parte principale. Non ha senso, perché nemmeno è il suo strumento preferito, eppure è così. Il pianoforte ha una musica dolce, morbida come un abbraccio o come le felpe che mi presta continuamente. Il pianoforte è sempre bianco e nero, come lui. Lui ha dentro di luce e oscurità, e quest'ultima, la tiene nascosta. Per suonare su quella tastiera, ci vuole una concentrazione assurda, per non parlare poi della rabbia che provi quando non riesci in qualcosa: serve quella per andare avanti, e per lui ci vuole la stessa dedizione. Stare con lui è come suonare il pianoforte, ecco. Ogni mano deve seguire processi diversi e muoversi in modo differente. Stare con lui è come suonare il pianoforte al buio. È difficile. Ti arrabbi quando non riesci a far andare avanti tutta quella bellissima musica, ti viene voglia di alzarti ed andartene per poi sentirti incompleto e tornare. Stare con lui è difficile, ma è tremendamente magico. E poi ci sarebbe anche la chitarra, ovviamente. Perché in quello, niente è come sembra. Le note musicali sono sette, eppure le corde sono sei. Sembrano tutte uguali, eppure producono suoni diversi. Lui vuole sembrare un duro, ma in realtà ha costantemente bisogno di tutto.

Appena fuori dalla macchina, mi chiamo Mitch. -Sorellina, dove sei? Ho capito che sei rimasta a dormire da Benjamin, ma non puoi starci insieme tutti i santi giorni!- Sbottò.
-Hai pienamente ragione, scusami, ma non sono con lui ora... A Martina è successa una cosa bruttissima e ha davvero bisogno di me. Ti prometto che torno a casa appena posso.-
Lo sentii sospirare. -Va bene.- Disse solo. E poi riattaccò.
Mio padre stava seduto al posto del guidatore nella sua macchina bianca. Mi diressi verso questa e vi salii, sedendomi nel posto accanto al suo.
-Ciao.- Esordì.
-Ciao...-
Silenzio.
Dato che non si decideva a parlare, lo feci io. -Cos'avevi intenzione di fare oggi?-
-Ecco pensavo... Di farti conoscere mia moglie. E la tua sorellastra e... Anche il figlio di Kate...-
Deglutii.
Prima o poi, avrei dovuto conoscerli comunque. Tanto valeva affrontare subito tutta quella situazione. Mi avrebbe fatto male, malissimo, vedere dove mio padre aveva trovato la felicità in tutti gli anni in cui era stato lontano da noi. Ma dovevo farlo. Le cose non sarebbero mai tornate come prima, quello che era capitato, era capitato. Era successo lasciandomi mille graffi dentro, ma ormai faceva parte del passato, e dovevo lasciarmelo alle spalle.
-Va bene.- Sussurrai allora.
-Va bene? Sul serio?-
Annuii. -Ma devo essere a casa abbastanza presto.-
-Va bene, perfetto. Ti ci porterò io.- Disse con un gran sorriso.
Non gli dissi che Benji mi avrebbe portata a casa. Glielo avrei detto dopo.

Poco dopo, eravamo a casa sua. Era davvero grande e delimitata da un giardino. Come entrai in casa, una donna e una bambina mi si pararono davanti. Avevano entrambe lunghi capelli biondi e occhi color miele, ed un sorriso gentile e contagioso.
-Ciao cara! Tu devi essere Sophia. È davvero un piacere conoscerti.- Disse calorosamente la donna venendomi incontro che, ormai l'avevo capito, era la moglie di mio padre, Kate. Mi strapazzò in un abbraccio, e sentii tirarmi una manica della felpa.
-Tu sei mia sorella?- A parlare era stata la bambina bionda. Aveva delle guanciotte adorabili e, da come stava in piedi, si capiva che aveva imparato da poco a camminare.
-Skylynn...- Intervenne mio padre.
-Ehm... Non esattamente.- Le risposi.
Ero un disastro con i bambini (oltre che con molte altre cose).
-Resti qui a pranzo, vero?- Chiese Kate:-Ho già cominciato a preparare...-
-Kate, Sophia non si può trattenere per molto.- La interruppe mio padre.
-Oh... Ma hai già fatto colazione? Potremmo mangiare insieme...-
-In effetti non ho fatto colazione...- Dissi, impacciata.
-Perfetto! Di là è già tutto pronto, seguitemi!-
Nel percorso dal soggiorno alla sala pranzo, notai tutte le decorazioni natalizie affisse alle pareti, o ad esempio l'Albero  di Natale enorme accanto alle scale che portavano al secondo piano. Le luci erano ovunque e gli spruzzi di neve finta anche.
La sala da pranzo era totalmente bianca, a parte il mobilio nero, e decorata da rami di pino e pungifoglio.
Ci sedemmo a tavola, dove c'era già un bambino che doveva avere almeno cinque anni in più di Skylynn. -Ciao-, si presentò:-Io sono Stephen.- Disse, sicuro.
Strinsi ridacchiando la mano che mi porgeva e mi presentai a mia volta.
Cominciammo a mangiare, e per tanto tempo l'unico suono fu il ticchettio delle posate.
-Sophia, come va la scuola?- Ruppe il silenzio Kate.
-Abbastanza bene direi, grazie.-
Nessuno parlò, ancora.
-Sai, tuo padre ci ha parlato tanto di te. Anche i bambini erano impazienti di conoscerti.-
'Strano che parlasse tanto di me', pensai, 'eppure io non parlo mai di lui'.
-Ci piacerebbe molto che tu facessi parte della famiglia. E magari quando Andrew avrà finito la disintossicazione potrà riaggiustare i rapporti con tua madre e...-
-Kate, fermati.- La bloccò, fermo, mio padre.
-Non si può fare parte di due famiglie.- Dissi con noncuranza.
La mia famiglia erano la mamma e Mitch. Quella donna non era presente nella lista dei miei familiari, e mai lo sarebbe stata.
Sentii il telefono squillare nella tasca, e rifiutai la chiamata senza nemmeno aver controllato chi fosse.
-Perdonami cara. Io parlo sempre troppo e senza freni...-
-Non fa niente.-
-Sophia, stavamo pensando di...-
Il telefono squillò di nuovo. -Scusatemi, mi tocca rispondere.- In realtà, ero felice del fatto di allontanarmi da quella situazione per un po'.
Andai a rifugiarmi in soggiorno, e vidi che si trattava di Mitch.
-Ehi Mitch, che...-
-Dove sei?-
-Co...-
-Non cercare di giustificarti! Sei pazza? Dovevi dirmelo!-
-Non so di che cosa tu stia parlando, Mitch!-
-E così saresti da Martina ora, giusto?-
Trattenni il respiro.
-Sophia. Dimmi. Dove. Cavolo. Sei.-
-Da...-
-Ho chiamato Martina prima. Non sei da lei, e dove?-
-Da papà...- Mormorai.
Dall'altra parte del telefono, avvertii solo un estenuante silenzio.
-Dove la casa di quell'infame?-
-Dall'altra parte della città, nel quartiere a sud di Parco Grande.-
-Cinque minuti e sono lì.-
Riattaccò.
-L'ha scoperto, eh?- Chiese mio padre, dal corridoio.
Feci di sì con la testa.
-Non ti preoccupare, andrà tutto bene.-
-Lo spero, ma ne dubito.-

secret / benjamin mascoloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora