Capitolo 1.

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Νικτοφοβία.

È questa la parola che mi rappresenta, che mi descrive perfettamente in ogni mia curva e in ogni mia imperfezione.

Paura della notte.

Questa sono io. È questo il mio nome, ormai.

La notte... Io e la notte non siamo mai andate d'accordo. Quando arriva, vorrei solo nascondermi in un angolino e piangere raggomitolata su me stessa finché non arrivi il mattino. Però un angolino che sia ben illuminato, chiaramente. Troppi brutti ricordi si sono agganciati alla notte, nella mia vita. Ora, non ce n'è una in cui questi ricordi non saltino fuori, unico obiettivo: terrorizzarmi.

E poi ci sono quelle notti. Quelle notti in cui tutto è ancor più complicato, perché vorresti fare qualcosa, ma non puoi far niente, perché nulla dipende da te, perché non hai nessun potere su ciò che accade intorno a te, sulla fottutissima realtà che ha in pugno la tua vita, il tuo stesso essere, e che tratta tutti come burattini, come gente a cui non è concesso avere una libertà.

Io non ce l'ho. Non ho la libertà, la libertà di fermare qualcosa quando essa appare davanti ai miei occhi, e io penso "stop, stop, stop, adesso!" ma niente si ferma.

Ciò che è più brutto, è che le cose si ripetano. È brutto perché tu sai che prima o poi accadrà di nuovo, ma non sai esattamente quando, come, o dove. E ti ritrovi sempre con il fiato a metà, a sperare che succeda il più tardi possibile, a vedere te stessa ridicola nel credere che il tuo desiderio possa avverarsi davvero, e che tutto possa finire, un giorno. Che possa darti anche solo una tregua.

Questa è una di quelle notti: sento le urla di mia madre provenire dal piano di sotto e la voce virile di qualcun altro cercare di sovrastare la sua. Ne ho fin sopra i capelli di tutto questo, della mia vita.

Cerco di affondare completamente con la testa nel cuscino, in un vano tentativo di lasciare tutto il resto fuori, di crearmi una bolla in cui rifugiarmi.

Ma niente, non ci riesco.

Lascio stare il mio intento e scendo dal letto. Non posso rimanere qui. Attraverso la stanza, apro la porta in un gesto secco e deciso, scendo le scale e, cercando di non farmi vedere, raggiungo la porta sul retro che ormai utilizzo solo io, sempre per lo stesso motivo, da quando avevo otto anni.

E pensare che ora ne ho ben diciassette.

Mi avvio verso la fitta vegetazione ai piedi della montagna che delimita la mia città.

La montagna si chiama Vag, e svetta imperiosa al di sopra di Romse, la città che mi ha vista crescere.

Non è cambiato molto in questi anni, non sono cambiata molto nemmeno io. Sono sempre la solita ragazza persa nei suoi problemi. So che è questo ciò che pensa la gente di me, quando mi vede.
E forse hanno anche ragione.

Mi addentro nella parte più selvaggia di questa zona, per poi uscire sulla riva di un laghetto molto piccolo che scoprii durante una delle mie solite fughe da casa, anni fa. E che fughe, poi... Come se qualcuno si rendesse mai conto del fatto che io non sono a casa e facesse di tutto per riuscire a ritrovarmi.

No, non è il mio caso.

Mi tolgo le scarpe, per poi sedermi all'inizio del laghetto e distendere le gambe davanti a me, cosicché i miei piedi nudi entrino in diretto contatto con l'acqua gelida.

È ottobre e inizia a fare freddo, soprattutto qui sopra. La città è più a valle di dove è situata casa mia. Lì il caldo si mantiene per più tempo, e il freddo ha la meglio solo quando i mesi invernali sono già belli che iniziati.

Wolf's heartbeatDove le storie prendono vita. Scoprilo ora