Capitolo III°- Spettri bianchi- parte seconda

46 8 8
                                    


Mi guardai attorno.

Ero rimasta da sola nella sala d'aspetto.

Potevo cercare dentro di me, senza paura di dare nell' occhio.

Abbassai le palpebre, nel tentativo di ritrovare quella connessione.

Quindi riaprii gli occhi.

Vidi, poco alla volta, i medici non avere più volto.

Avevano i visi sfumati come tanti spettri bianchi.

Sembravano scivolare, sul pavimento senza toccare terra.

Esattamente come le movenze delle Ombre, all' interno della Voragine Nera.

Gesticolavano adagio, ma a muoversi erano solo le maniche vuote, senza braccia all'interno.

Che cosa mi stava succedendo?

Stavo impazzendo anch'io?

Eppure mi sembrava di essere lucida.

Sapevo esattamente quello che dovevo fare.

E sapevo che dovevo agire in fretta.

Chiamai Juan e ci avviammo verso la stanza n° 22.

Vedevo muoversi solo le divise degli infermieri che stavano predisponendo tutto per il trasferimento di mia madre.

Mi accorsi che nessuno era all'interno di quei vestiti.

Nessuna parola usciva dalle loro bocche inesistenti.

Entrammo nella stanza, di corsa.

Anche per mia madre era lo stesso.

Era rimasta solo la sua vestaglia a sedere sulla sedia a rotelle.

Erano solo le sue maniche ad essere  legate ai braccioli con cinghie di cuoio.

Il personale era accanto a noi, in forma di tanti, sfumati ed indistinti spettri bianchi.

Potevamo agire senza essere visti.

Senza essere ascoltati.

Suggerii a Juan di spingere la carrozzina, fuori della stanza.

Con cautela.

Passammo davanti ai camici bianchi, senza richiamare la loro attenzione.

Seguitavano a muoversi, come se nulla potesse turbare la loro concentrazione.

Era come se vivessimo accanto l'uno all'altro, ma ognuno fosse in una dimensione diversa.

Attraversammo quel lungo corridoio senza problema alcuno.

Entrammo nell'ascensore.

Eravamo soli.

La vestaglia di mia madre era appoggiata allo schienale della carrozzina, coricata su un lato, come se stesse dormendo.

"Ebbene, non voglio sapere che cosa hai fatto.

Non voglio sapere nemmeno come lo hai fatto.

Basta che usciamo da questo incubo ed al più presto.".

Balbettò Juan, incredulo.

"Credimi, non sono stata io.

Ne so quanto te.

Eppure conosco perfettamente i minimi particolari.

Non so perché.

Lo so e basta.

Portiamola fuori da questo dannato ospedale.".

Ci bloccammo solo per un attimo, scorgendo le guardie, all' entrata.

Ma anche per loro, come per tutti gli altri, potevamo distinguere solo la sagoma delle loro divise.

Una era appoggiata ad una parete.

Il berretto era al di sopra della casacca, come se, nel mezzo, ci fosse stata la testa, che, invece, non esisteva.

Aprii in fretta la porta.

Scivolammo sulla rampa per disabili.

Nel viale d'accesso, continuai a vedere solo i vestiti dei visitatori che entravano.

Mentre stavamo uscendo, osservavamo i cappotti, i cappelli, i guanti, muoversi in un gioco strano e rallentato.

Come in un moto perpetuo, ma...

Senza esistenza.

Come se fosse stata spazzata via da ogni angolo del mondo.

Vidi un guinzaglio per cani venire verso di noi, nel vuoto.

Lo osservai bloccarsi ad un certo punto, strattonato da una mano invisibile, che usciva da una giacca scura.

In metropolitana, le porte scorrevoli si aprirono.

Sembrava tutto come al solito, ma, all'interno dei vagoni, lo stesso scioccante scenario appariva ai nostri occhi.

Scarpe che si muovevano da sole, gonne a mezz'aria, borse sospese nel vuoto.

Era decisamente tutto troppo inquietante.

Juan non mi guardava nemmeno più.

Continuava a spingere la sedia a rotelle, con forza.

Lo vedevo ingoiare, a fatica, la saliva che era sparita insieme a tutto il resto.

Arrivammo a casa.

Non volevo conoscere i dettagli su come fosse stata possibile quella fuga surreale.

Eravamo riusciti a far evadere mia madre.

Non riuscivo a smettere di osservarla.

Continuava ad esistere solo attraverso la sua vestaglia.

La vita non era ancora entrata nel suoi vestiti, che continuavano ad essere adagiati sulla carrozzina.

Il tempo aveva rallentato la sua folle corsa.

Guardai fuori dalla finestra.

Alcuni abiti, come appena usciti da un guardaroba, stavano aspettando, fermi, immobili, alla fermata dell' autobus, sotto casa.

In strada stavano passando diverse automobili.

Scorrevano lentamente, sull'asfalto, ma alla guida c' erano sempre e solo giacche o cappotti inanimati.

Ogni forma di vita era scomparsa e con essa, la mia sofferenza nel sapere mia madre rinchiusa in quell' ospedale maledetto.

Quel luogo disperato era, ormai soltanto un ricordo, lontano e rallentato, come tutto ciò che ci circondava.


Antiqua - Insania 3°libro della saga di "Antiqua"Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora