Che razza di Maniero

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Mentre zia Libby radunava il necessario per andare in teatro e il sole terminava la
sua traiettoria nel cielo, io me ne stavo a gambe incrociate sul futon, e prendevo
appunti sul diario.
La mia inchiesta era quasi completa. Nel giro di poche ore avrei trovato Harry. Dovevo fargli capire che lo amavo, a prescindere da cosa o chi era, così saremmo potuti tornare a Dullsville per stare insieme.
Poi mi domandai cosa significasse di preciso. Mi avrebbe chiesto di essere come
lui in tutto e per tutto? E se avessi dovuto scegliere, avrei realmente voluto vivere
come le creature che avevo sognato per tutta la vita?
Per placare la mia ansia, presi qualche appunto:
Aspetti Positivi dell'Essere un Vampiro
- Risparmiare sulla bolletta della luce.
- Poter dormire fino a tardi… molto tardi.
- Non doversi preoccupare di fare una dieta povera di carboidrati.
«Sei sicuro di voler restare da solo?» mi chiese zia Libby, che aveva in mano il
beauty case. «Ho sedici anni.»
«I tuoi genitori ti lasciano mai da solo?» «Mi avrebbero lasciato anche fare la
baby sitter fin dai dodici anni, se qualcuno a Dullsville me l'avesse chiesto.» «Be', c'è
un sacco di cibo nel frigo» mi disse, dirigendosi alla porta. «Ti chiamo nell'intervallo,
per sentire come te la passi.»
Zia Libby era molto serena sul proprio stile di vita, ma quando ero sotto al suo
tetto si comportava proprio come mio padre. Immaginai che avrebbe abbandonato il
suo stile di vita hippy e si sarebbe data una regolata come papà, se avesse avuto dei
figli anche lei.
Indossai subito gli indumenti Hot Gothics che mi ero portato: pantacollant a righe
bianche e nere e un miniabito nero strappato che rivelava una camicetta rosso sangue.
Mi misi il solito rossetto nero e l'ombretto color fumo. Avevo appena appena il tempo
di applicarmi un finto tatuaggio a forma di rosa rosa sul collo.
Controllai che il contenitore dell'aglio fosse chiuso ermeticamente, perché non
volevo esporre Harry alla mia arma di difesa contro i vampiri. Devo essermi
spazzolato i capelli e sistemato le extension rosse un milione di volte, prima di varcare
la soglia e andare ad aspettare l'autobus numero sette.
Al passaggio di ogni numero undici o sedici, cominciavo a camminare, spazientito. Proprio quando stavo per tornare a casa della zia per chiamare un taxi,
vidi il numero sette svoltare sulla via e avvicinarsi lentamente. Ansioso, salii
sull'autobus affollato da un eterogeneo miscuglio di persone ben vestite e artistoidi
eccentrici, infilai le monetine nella macchinetta e afferrai uno scivoloso palo
d'alluminio. Mi ci appesi come se ne dipendesse la mia stessa vita, cercando di non
perdere l'equilibrio e allo stesso tempo di non sbattere contro gli altri passeggeri, tra
uno scossone e l'altro. Non appena il numero sette raggiungeva il limite di velocità, cominciava a rallentare, perché era arrivato a un'altra fermata. Guardai l'orologio:
forse andando a piedi avrei fatto prima.
Dopo aver fatto scendere qualche decina di passeggeri e averne caricati
altrettanti, l'autista girò l'angolo e passò oltre la mia destinazione: Lennox Hill Road.
Corsi verso la parte anteriore dell'autobus. «Ha passato Lennox Hill Road!» dissi, in
preda al panico, mentre l'autista continuava ad accelerare. «Perché lì non c'è nessuna
fermata» mi disse, guardandomi nello specchietto. «Ma io devo andare lì» protestai.
«Io mi fermo solo alle fermate» disse, monocorde, senza alcuna intenzione di
rallentare.
«Se salire a bordo costa un dollaro e cinquanta, quanto costa scendere?»
Sentii diversi passeggeri ridere, dietro di me. «Tira la corda» disse una donna,
indicando una funicella sospesa orizzontalmente sopra ai finestrini laterali. Io allungai
una mano e tirai la corda con tutta la mia forza. Qualche istante dopo, l'autista rallentò
e accostò al lato della strada.
«La vedi quella?» mi chiese, indicando un cartello quadrato su un palo, con il
numero sette scritto sopra, in grande. «Quella è una fermata.»
Lo guardai male e saltai giù, schivando una coppia dì anziani che stavano
salendo. Corsi lungo la strada che l'autobus aveva appena percorso in senso opposto e
raggiunsi Lennox Hill Road. Svoltai l'angolo e mi trovai a camminare accanto a
magnifiche magioni dall'aspetto lussuoso, davanti alle quali c'erano curatissimi prati
verdi e fiori gialli e viola, finché non vidi un cortile incolto, invaso dalle erbacce. In
mezzo c'era una casa in rovina, alla fine di un freddo e spoglio vialetto senza uscita.
Sembrava che un nuvolone gonfio di pioggia vi stazionasse sopra. Ero finalmente
arrivato al maniero gotico che stavo cercando. I rugginosi battenti del cancello di ferro
battuto erano sormontati da imponenti doccioni. Davanti alla facciata c'erano cespugli
che crescevano indisciplinati. L'erba morta scricchiolava sotto ai miei stivali. Al
centro del prato c'era a vasca per l'acqua degli uccelli spezzata in due. Muschio ed
edera crescevano sul tetto come un macabro pupazzetto Chia. Camminavo su un
sentiero di pietre scheggiate, che portavano a una porta di legno ad arco. Afferrai il
batacchio a forma di drago, che si staccò, restandomi in mano. Imbarazzato, lo nascosi
rapidamente sotto a un cespuglio.
Bussai una seconda volta. Mi domandai se dall'altro lato della porta ci fosse Harry, pronto ad accogliermi con un mega bacio. Ma nessuno venne ad aprire.
Picchiai con il pugno sul legno finché non sentii la mano pulsare. Girai il pomolo
arrugginito della porta e provai a spingere, ma era chiusa a chiave.
Mi intrufolai tra il muro e i cespugli lungo la facciata del maniero. Le finestre
erano chiuse con assi di legno inchiodate, ma avevo notato una fessura. I soffitti nel
salone del maniero erano così alti che fui sorpreso di non vedere nuvole sfiorare le
travi; un fantasma aveva tutto lo spazio che voleva, là dentro. Nessuno l'avrebbe
notato. Per quanto potevo vedere, le pareti del salone sembravano spoglie e vuote
quanto la stanza stessa.
Frustrato, raggiunsi la fiancata dell'edificio e scoprii un ingresso di servizio. Girai
la maniglia della piccola porta di quercia, ma anche quella era chiusa a chiave. Con il
cuore che pulsava all'impazzata, corsi sul retro della casa. Pochi gradini sbrecciati
portavano a una sola, sudicia finestra. Non era coperta da assi, così potei avvicinare il
viso al vetro.
Non c'era niente di insolito. Vidi qualche scatolone, una polverosa rastrelliera di
utensili, e una vecchia macchina da cucire.
Cercai di aprire la finestra, ma era bloccata. Risalii i gradini e mi piazzai in
mezzo al prato. «Salve!» dissi. «Jameson? Harry?» Solo il latrato del cane dei
vicini rispose al mio richiamo. Alzai lo sguardo verso la sola finestra della soffitta. Un
albero privo di foglie pendeva verso il maniero e uno dei rami si protendeva proprio
fino a sotto quella finestra. La grande quercia sembrava vecchia di secoli, aveva il
tronco largo quanto una casa e le radici ghermivano il terreno come immense zampe
di ragno. Ero abituato ad arrampicarmi, oltre le cancellate del Maniero o sui meli del
giardino di Niall, ma scalare un albero di quelle dimensioni mi sembrava come
affrontare le vette dell'Everest al buio. Con i miei anfibi e il miniabito, posai un piede
sul ramo più basso, e ci issai il mio peso. Continuavo a salire di buona lena,
rallentando solo per riprendere fiato o quando dovevo cercare tentoni un ramo più in là
alto, tra quelli che si nascondevano alla luce della luna. Stanco ma determinato,
scivolai di lato lungo il ramo che passava sotto alla finestra della soffitta. Una spessa
tenda nascondeva quasi tutta la stanza alla vista, ma riuscii a vedere qualcosa.
Distinguevo una scatola vuota e una sedia di legno. Poi vidi la cosa più stupefacente
che avrei potuto trovare: in un angolo c'era il ritratto che Harry mi aveva fatto,
quello nel quale avevo il vestito del Ballo della Neve. Con la borsa a forma di zucca
appesa a un braccio, era una Louis a due dimensioni, quello che mi sorrideva,
mostrando finti denti da vampiro. «Harry!» chiamai. Cercai di picchiettare il
vetro con le dita, ma non riuscivo a raggiungerlo.
«Harry!» gridai nuovamente. Sentii il cane abbaiare più forte.
«Harry! Jameson!» strillai, con tutto il fiato che avevo in gola.
Proprio in quel momento, il vicino aprì la porta posteriore di casa sua e uscì sul
patio. Aveva il fisico di un lottatore professionista.
«Ehi! Ragazzini! Che ci fate di nuovo qui?» esclamò. «Cosa succede, Hal?»
chiese una donna minuta, sporgendosi fuori dalla porta.
«Ci sono ancora quei ragazzini che giocano nella casa accanto» le disse lui. «Ora chiamo la polizia!» berciò, mentre prendeva un cellulare dalla tasca posteriore dei pantaloni. Io scesi rapidamente dall'albero, visto che non volevo ritrovarmi stretto in una presa di wrestling o, peggio, in manette. E poi non volevo che i tutori dell'ordine
arrestassero Harry e Jameson, costringendoli a cercare un'altra casa, con il rischio
che decidessero di tornare davvero in Romania.
Quando arrivai al ramo più basso, con la coda dell'occhio vidi qualcosa spostare
la tenda della finestra della soffitta. Mi fermai e mi spostai per guardare meglio. Ma la
tenda era di nuovo immobile.
Improvvisamente, un dobermann color cioccolato uscì dalla casa del vicino, scese
i gradini del patio e cominciò ad artigliare la staccionata di legno che divideva le due
proprietà. Temendo che il cane trovasse il modo di superare la barriera per venire a
divorarmi come una lattina di succulenti bocconcini, corsi verso il lato opposto del
maniero, e non mi fermai finché non ebbi raggiunto la fermata dell'autobus.
* * *
Salii sul numero sette diretto a ovest, e mi sedetti dietro a una coppietta di
universitari. Aver scoperto che Harry era davvero a Hipsterville mi aveva galvanizzato. Lo immaginai intento a dipingere ritratti in qualche tetro cimitero, o a cercare mobili nelle case infestate, per arredare la sua soffitta. Oppure volare di notte
nei cieli sopra la città. Ancora non capivo perché Harry fosse venuto a Hipsterville. Era una piccola città piena di spaventose dimore abbandonate, e con
abbastanza dark e artisti da consentirgli di non dare nell'occhio, ma che altro c'era, lì,
per un vampiro solitario?
I due seduti davanti a me cominciarono a limonare, ignorando i passeggeri che li
fissavano.
Guardavo il loro riflesso nel finestrino. Mi domandai se si rendessero conto di
quanto erano fortunati. Due umani che potevano condividere i loro giorni e le loro
notti. Farsi fotografie insieme. Sedersi al sole. Poi mi resi conto che quelli erano
piccoli sacrifici che avrei fatto volentieri, pur di essere nuovamente con Harry.
L'autobus si avvicinò al teatro degli Attori del Villaggio, e io scesi, insieme a
diversi altre persone. Percorsi il vicolo che portava all'ingresso posteriore del teatro,
ripassando le scuse che avrei detto a zia Libby e ai miei genitori per poter andare ad
appostarmi fuori dal maniero nelle sere seguenti, fino a quando non avessi incontrato Harry. Vidi una figura acquattata dietro al cassonetto. «Speravo proprio di
trovarti qui» disse una voce profonda, mentre la figura usciva allo scoperto per
sbarrarmi il cammino.
Rimasi di pietra. Era Jagger. Tenni la borsa stretta al corpo; dentro c'era lo spray
urticante, ma anche – e forse era ancora più importante – l'aglio.
«Ho delle informazioni che potrebbero interessarti.» «Informazioni?» chiesi,
scettico.
«Su Styles» disse lui, con lo sguardo saputello. «Non è lui che stai cercando?»
Sconvolto, arretrai. Sapevo dove risiedeva Harry, ma non sapevo dove si trovasse. La possibilità di saperne di più mi mandava il cuore in subbuglio. E poi ero
ancora curioso di capire chi fosse veramente Jagger. Dovevo capire come facesse a
conoscere Harry.
«Io posso aiutarti. Ci conosciamo da un'eternità» disse, con un ghigno.
Gettai uno sguardo verso il teatro degli Attori del Villaggio. Se fossi entrato,
avrei avuto la certezza di passare la serata al sicuro, con veri finti vampiri. Oppure
potevo aspettare Harry fuori dal maniero… a meno che lui e Jameson non mi
avessero visto e fossero già partiti alla volta di un'altra città. In quel caso ero certa che
non avrei mai più rivisto il mio compagno dark.
«Farai meglio a dirmi subito tutto quello che sai» dissi, tenendo una mano sulla
borsa, al mio fianco. «Altrimenti…» «Sei libero di andare via quando vuoi» mi
rassicurò lui. Rimasi fermo, mentre Jagger camminava lungo il vicolo. La curiosità
ebbe la meglio, così mi avviai per raggiungerlo. Lo seguii fino alla strada principale, e
mi ritrovai davanti all'ingresso posteriore del Coffin Club. Mi condusse in un
magazzino e lungo un corridoio buio, al termine del quale c'era un montacarichi
vuoto. La porta sferragliò penosamente quando la richiuse. Invece di premere il
pulsante che portava al club, premette il tasto "C". Il montacarichi scese lentamente
fino alla cantina, stridendo come una bara che scende verso gli inferi. «Credevo che
mi stessi portando al Coffin Club.» La cabina si fermò. Jagger aprì la porta e la tenne
sollevata per consentirmi di uscire. Mi ritrovai in un corridoio. Mi seguiva così da
vicino che sentivo il suo fiato tiepido sul collo. Camminammo lungo le pareti decorate
di graffiti, aggirando pile di scatole e vecchie sedie che ingombravano il pavimento.
Dal piano superiore, si sentiva pulsare la musica del locale. Quando raggiungemmo
quella che sembrava la grande porta di un ripostiglio, sentii l'ascensore avviarsi
cigolando, per tornare su, dai mortali. Jagger sollevò la porta scorrevole di metallo
grigio, rivelando un appartamento senza finestre. Entrai.
«Benvenuto nella mia spelonca» disse. Nella grande stanza c'erano decine di
candelabri antichi. E poi la vidi. In un angolo c'era una bara aperta, adornata di adesivi
di band heavy metal come lo skateboard di un adolescente. C'era terra, che circondava
la bara come le mura di un'antica città. Spalancai gli occhi. «Quindi tu sei…» iniziai,
ma mi resi conto che quasi non riuscivo a parlare.
«Ah, per la bara?» disse. «Forte, vero? L'ho comprata in un negozio vintage.» «E la terra?»
«L'ho visto in una rivista sui vampiri. Fa paura, vero?» Non sapevo cosa pensare.
Perfino Harry dormiva su un materasso.
«È comodissima. Vuoi provarla?» mi chiese, con lo sguardo da seduttore. «Non sono stanco.» «Non ce n'è bisogno.»
Jagger mi confondeva. Non capivo se era un vampiro molto scaltro o semplicemente un adolescente dai gusti dark, come me.
Mi guardai intorno alla ricerca di indizi insoliti… ma era tutto insolito. C'erano
mappe per terra, e le pareti di nudo cemento erano decorate con iscrizioni tombali.
Accanto al calorifero c'era un acquario, senza acqua e pieno di rocce.
Il piano di lavoro della cucina e il lavello sembravano intatti. Ad alcuni stipetti di
metallo mancavano le ante. Non volevo pensare a cosa – o a chi – ci potesse essere nel
frigorifero.
«Sei il primo ragazzo che io abbia mai portato quaggiù» confessò Jagger.
«Non ci credo. Chissà quante ne conosci, stando al Coffin Club.»
«A dire il vero sono appena arrivato in città. Proprio come te. Sono in visita.»
Mi si drizzarono i peli alla base della nuca. «Come sai che sono in visita?»
«Non ci vuole un indovino per capirlo. Una dark come te sarebbe una cliente
abituale del club, ma Romeo non ti aveva mai visto.»
«Be'… in effetti il ragionamento fila.» «Vuoi qualcosa da bere?» «No, grazie»
risposi. «Vorrei sapere…» Jagger andò all'acquario. Ci mise una mano dentro e prese
una gigantesca tarantola.
«L'ho appena comprato. Vuoi accarezzarlo?» chiese, coccolando il ragno
velenoso come se fosse un gattino addormentato.
In altre circostanze non mi sarei perso l'occasione di accarezzare una tarantola,
ma non capivo le intenzioni di Jagger.
«Dov'è il tuo televisore a schermo gigante?» chiesi, notando che non c'era né la
TV, né un computer. «Non mi piacciono quegli aggeggi. Li trovo offensivi.» «Quindi
tu non guardi film? Non hai mai visto la versione originale di Dracula?» dissi,
allusiva. «Nosferatu? Morso d'Amore? Un dark totale come te dovrebbe saperne le battute a memoria.»
«Preferisco vivere, che fare il guardone.» Posò il ragno nell'acquario. Io infilai
una mano nella borsa. «Avevi perso questo» dissi, facendogli vedere l'orecchino a
forma di teschio che tenevo in mano. Sorrise, felice come se avesse ritrovato un amico
che non vedeva da anni. Prese il gioiello, e nel farlo i suoi polpastrelli indugiarono sul
palmo della mia mano, facendomi rabbrividire fin nelle vene. Ci volle tutta la mia
volontà, ma riuscii a fare un passo indietro.
«Ora che so che per un po' l'hai avuto tu, è ancora più speciale, per me» disse,
rimettendolo all'orecchio. «Posso offrirti una ricompensa?» mi chiese. «Potresti
parlarmi di Harry.»
«Dici che dovrei? Oppure potrei farti vedere» disse, venendo verso di me.
«Dimmi» dissi, sicuro di me. «Siete amici?» «Forse sì» disse, sornione. «Forse no» aggiunse, sorridendo beffardo.
«Sto perdendo il mio tempo. Me ne vado.» «Ci siamo conosciuti in Romania»
disse, all'improvviso. «E qui in America l'hai mai visto?»
Scosse la testa, facendo ricadere i capelli bianchi sull'occhio azzurro e su quello
verde. «Sai dove si trova?» chiesi. «E se lo sapessi? Cosa mi daresti, in cambio di questa informazione?» mi
domandò, leccandosi le labbra. «Non lo sai, si capisce benissimo» lo sfidai. Mi allontanai, calpestando una delle mappe. «Ma tu sai un sacco di cose» disse lui. Io mi avvicinai la borsa al corpo.
«Hai seguito il mio amico romeno fino al Coffin Club» disse, venendo verso di
me. «Io non so niente…»
«Allora perché vuoi trovarlo?» mi sussurrò piano all'orecchio, mentre mi scostava
delicatamente i capelli dalla spalla.
«Devo essermi sbagliato…» dissi, distogliendo lo sguardo dal suo, determinato a scappare, ma incapace di muovermi.
«Davvero?» disse. «Ti ha fatto sentire come se il suo respiro fosse il tuo»
aggiunse, girandomi attorno, lasciando che le sue parole accarezzassero la mia nuca.
«Non so di cosa stai parlando» mentii, con il cuore che mi martellava nel petto.
«Come se la tua carne e la sua fossero una cosa sola» disse, sfiorandomi con le
labbra la base del collo. Non riuscivo quasi a parlare, avevo il cuore impazzito,
sentivo la mappa accartocciarsi sotto alla suola dei miei anfibi. Mi si parò davanti, con
gli occhi che sembravano trapassarmi, e sfiorò la mia collana di onice.
Chinò la testa e mi baciò il petto. Sussurrò: «Come se fossi a un bacio dall'essere
legata a lui per l'eternità.» Non riuscivo a respirare. Mi strinse, e il mio cuore
sembrava esplodere.
«Lasciami!» gridai, incuneando le braccia tra il suo corpo e il mio per allontanarlo.
La mappa si strappò sotto ai miei anfibi. Jagger cercò di tenermi sotto controllo
con il suo sguardo, ma io mi guardavo le punte dei piedi. Era una mappa di
Hipsterville. I cimiteri erano evidenziati in giallo, e diversi erano stati sbarrati con
croci nere a pennarello.
Poi notai, a poca distanza dal foglio che avevo lacerato, le altre mappe: località
nei dintorni di Hipsterville e Dullsville. Anche lì i cimiteri erano stati evidenziati e poi
cancellati. Lanciai un'occhiata furtiva verso Jagger che cercava i miei occhi. Mi prese
la mano come aveva fatto quella sera al Coffin Club. «Lo troveremo insieme» ricordo
che aveva detto. Poi mi tornò in mente la lettera che avevo trovato nella stanza di
Harry: "LUI STA ARRIVANDO!" Mi allontanai da Jagger e infilai una mano in borsa. Valeva la pena provare. Mi tremavano le dita, mentre cercavo di aprire il
contenitore dell'aglio.
Il coperchio ermetico sembrava chiuso con la super colla. Stavo cercando di toglierlo, quando Jagger fece un passo verso di me.
Corsi fuori dalla porta e lungo il corridoio. Premetti il pulsante del montacarichi e
mi guardai alle spalle. Jagger uscì dalla stanza e cominciò a correre verso di me.
Sentivo la cabina stridere mentre scendeva, ma non la vedevo ancora. Si accese il
numero "3"; poi "2"; infine, "T". «Sbrigati! Sbrigati!» mormorai, premendo il pulsante
a ripetizione.
Sentivo Jagger che si avvicinava. D'improvviso si accese la "S", e la cabina si
fermò davanti a me. Spostai la porta sferragliante ed entrai. Usai tutta la mia forza per
richiudere la porta nell'esatto istante in cui Jagger ci si gettava contro, rabbiosamente.
Mi gettai all'indietro, lontano dalla porta, mentre il suo sguardo catturava il mio.
Lui allungò una mano; si era reso conto che non avevo ancora premuto nessun
pulsante. Io mi avventai sulla "T".
Mentre la cabina cominciava a salire, mi appoggiai alla parete più lontana da lui.
«Spero che ti riesca di trovarlo» gli sentii dire. «Prima che lo trovi io.»

«E tu cosa ci fai qui?» chiese zia Libby quando mi trovò a scrutare il vicolo dalle
tende del suo camerino, alla fine dello spettacolo. «Ti ho chiamata all'intervallo, ma non hai risposto.»
«Mi sa che ero sotto la doccia» dissi io. «Ma volevo vederti.»
«Davvero? Che dolce!» disse, mentre si toglieva il cerone. «Mi sto divertendo un
sacco, ma devo dirti una cosa.» «Sì?»
«Devo tornare a casa, domani.»
«Così presto?» chiese lei, posando la spugnetta da trucco. «Lo so» dissi io, con
rammarico. «Non vorrei andarmene, ma ho ancora tonnellate di compiti da fare.» «Ai miei tempi, le vacanze di primavera erano le sole durante le quali non avevamo
compiti.» «E devo partire presto… prima del tramonto.» «Hai ancora paura dei
vampiri?» mi sfottè lei. La verità era che non ne ero sicura… non sapevo chi o cosa
fosse Jagger. La sola cosa che sapevo per certo era che stava seguendo Harry.
Ero scappato dall'antro di Jagger da pochi minuti, e per un pelo. Se avessi cercato
di scoprire i motivi delle sue ricerche, avrei rischiato di mettere in pericolo me stesso
e anche Harry.
Sapevo che Jagger mi seguiva – mi aveva aspettato fuori dal teatro il giorno
prima, mi aveva intercettato nel vicolo quella sera – e sapevo che se fossi tornato al
maniero, o in uno qualunque dei posti dove sospettavo di poter incontrare Harry,
avrei portato Jagger più vicino al mio amato. Per quanto mi si spezzasse il cuore al
solo pensiero, non avevo scelta. Dovevo lasciare Hipsterville.

ℑ𝔩 𝔭𝔞𝔰𝔰𝔞𝔱𝔬 è 𝔱𝔬𝔯𝔫𝔞𝔱𝔬. Larry Stylinson Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora