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Aprii gli occhi, percependo uno strano bagliore che mi sfiorava la pelle come una dolce carezza del buongiorno. Un risveglio un po' insolito che mi fece rendere conto che, dopo varie chiacchiere sugli argomenti più disparati, avevamo dormito per tutta la notte in un taxi. Erano bastate una manciata di banconote e la frase "Ritorni in questo luogo solo quando sarà mattina presto". Ma cosa importava in che luogo fossimo, se si aveva la giusta compagnia a farti perdere la concezione del tempo? Sollevai la testa che era posata sulla spalla di Sean, solida ma comoda, mentre lui si era allungato di traverso sullo schienale del sedile. Quella posizione doveva essere terribilmente scomoda. L'ambiente circostante era proprio come quello di mesi prima, nel taxi che mi aveva condotto per la prima volta in quella magica città, solo che ora ero in compagnia di un amico con il quale avevo riempito il veicolo di parole per parecchie ore. Cercando di non svegliare Sean, mi ricomposi con un certo torpore alle braccia e mi raggomitolai contro il finestrino. La vista di Los Angeles, in quel preciso istante, a cavallo tra la fine della notte e le prime luci dell'alba, era veramente mozzafiato. I colori oro, rosa e azzurro del cielo si fondevano con quelli grigi della strada su cui sfrecciavamo e le verdi catene di colline, in un'esplosione di colori che non lasciava più intendere quale fosse l'intruso. Rimasi per diversi minuti a fissare lo scenario oltre il vetro rapita, come un neonato che apre gli occhi per la prima volta, con quegli imponenti palazzi, la costa, la natura incontaminata che mostrava un forte contrasto con la città e una Los Angeles come non l'avevo mai conosciuta. Il taxi aveva un odore pungente, un misto di pelle di sedili e polvere; tuttavia, una fresca brezza salina proveniva dal Pacifico. Stavamo percorrendo un tratto della Sunset Boulevard per poi immetterci in una strada secondaria che ci avrebbe riportato a destinazione, quando qualcosa oltre il ciglio della strada catturò la mia attenzione. Di fronte a me c'era la strada a doppia corsia e, parallelamente, ce n'era un'altra uguale. Oltre quel labirinto di strade si stagliavano alcuni negozi e palazzi bassi di massimo tre piani, tipici della zona residenziale, circondati da un praticello verde e qualche aiuola con palme. Spendere una manciata di secondi ad osservarli segnò il mio destino in maniera permanente.

Una strana sagoma campeggiava sul tetto di un palazzo. Mi stropicciai gli occhi per eliminare i residui del sonno, convinta che fosse solo un effetto della luce o un uccello che aveva trascorso la notte sul tetto. Non solo mi accorsi che non era così, ma notai anche che l'ombra non era affatto immaginaria e... sì, prese la rincorsa e saltò da un tetto all'altro, destreggiandosi tra i cornicioni con noncuranza. Fu come se avessi preso una scossa elettrica. Con il fiato corto, mi ritrassi spaventata dal finestrino. Cercai di riprendere il controllo della mia mente, la potevo quasi sentir sprofondare in un baratro di panico e nauseanti fantasie, e imposi a me stessa di non guardare in quella direzione, perché avevo già troppe assurdità per la testa. Ma ovviamente non lo feci. A quanto pare avevo un'attrattiva speciale per certe situazioni. Mi bastò gettare un'altra occhiata fugace con la coda dell'occhio per accorgermi che ora le sagome erano addirittura due. Adesso la prima, più slanciata e agile, brandiva qualcosa in mano e sfogava tutta la sua forza contro la sagoma nettamente bassa, goffa e indefinita. Chi era quel pazzo che all'alba, mentre Los Angeles ancora avvolgeva i suoi abitanti in un sonno conciliante, si metteva a giocherellare a parkour sulle loro teste? La vaga sensazione che quel "qualcuno" fosse Nakir si mise in circolo nelle vene insieme al sangue e raggiunse il cuore, facendolo sobbalzare ad un ritmo irregolare. Non me lo sarei fatto scappare di nuovo. Sean stava ancora dormendo e avrei potuto benissimo svegliarlo, gridandogli in piena faccia: "Buongiorno, devo salire su un palazzo perché probabilmente c'è un maniaco che mi perseguita. Addio", ma non mi sembrò il caso. Non pensai a cosa si sarebbe chiesto al suo risveglio, sarei caduta nella fitta trappola dei ripensamenti. Fu un attimo. Fermai il taxi, aprii lo sportello e corsi fuori dalla vettura con il cuore in gola.

Superare le prime due corsie non fu affatto difficile, dal momento che le vetture erano in coda dietro al semaforo rosso. Probabilmente Sean si era svegliato con lo sbattere dello sportello, probabilmente il tassista mi stava inveendo contro e le persone nelle altre macchine stavano osservando la mia espressione allucinata come se avessi appena visto un fantasma, ma non potevo permettermi di voltarmi indietro. Con un balzo mi catapultai nel bel mezzo della strada dove altre macchine saettavano a tutta velocità, prese com'erano da una fretta inimmaginabile. Schizzai di fronte ad un taxi lasciandomi il suono del clacson alle spalle, ma ben presto, proprio quando mi mancavano un altro paio di metri per raggiungere il marciapiede opposto, un altro clacson mi costrinse a fermarmi e il muso di una macchina mi sfiorò il polpaccio. Il rumore della frenata che si consumò sotto gli pneumatici mi colpì i timpani con violenza, tanto che per un attimo sentii solo un anonimo ronzio. Venni sbalzata in avanti e, per non volare via, puntai i palmi contro il cofano. Non so dove trovai il coraggio di guardare negli occhi l'uomo che era al volante, con il volto che era una maschera di rabbia, spavento e shock. Con una fitta di dolore alla gamba gridai "Scusi!" e ripresi a correre, puntando dritta verso i palazzi.

Quale poteva essere il modo più semplice e veloce per raggiungere il tetto? Non potevo di certo accedere dal portone, e se avessi sostato ancora a lungo su quel marciapiede in bella vista, qualcuno mi avrebbe sicuramente acciuffata e portata alla polizia della contea di Los Angeles. Effettuai in fretta il giro del palazzo per essere meno esposta e scoprii che esisteva una scala antincendio sul retro. Nell'aria c'era puzza di umido che proveniva da alcuni cassonetti dell'immondizia. Poggiai le spalle al muro per riprendere fiato e mi sostenni con le braccia sulle gambe. Il petto si alzava e abbassava al ritmo del cuore, agitato per la paura e per la corsa. L'adrenalina pompava in ogni parte del mio corpo. Con le gambe ancora tremanti, salii la scala lasciandomi alle spalle un gradino dietro l'altro. Una volta in cima mi issai su con circospezione.

Gettai un'occhiata in giù. Mi separavano veramente molti metri dal terreno, così mi voltai di nuovo e cercai con tutte le mie forze di non pensarci. Non soffrivo di vertigini, ma un cambiamento così rapido di altitudine mi fece sentire priva di protezione. Ero quasi allo stesso livello del sole, potevo percepirne il calore vivo che mi irradiava il volto.

Un rumore metallico contro la superficie del tetto mi deconcentrò da quella visione paradisiaca. Mi voltai di scatto. Il respiro mi morì all'altezza del petto, tutte le emozioni si mescolarono fino a diventare indecifrabili. Perché l'avevo fatto? Fino a poco tempo prima non mi sarei sognata di parlare con uno sconosciuto, figurarsi inseguirlo su un tetto e rischiare la vita spiaccicata sotto una macchina! Di fronte a me c'era quella stessa ombra sfuggente che avevo inseguito per tutto quel tempo. L'unico problema era che non mi sembrò affatto un'ombra: possedeva consistenza. Non era affatto come gli incubi che ti fanno risvegliare nel cuore della notte, no, era molto peggio. Il ragazzo era piegato a terra e nella mano stringeva una strana spada, diversa da quelle che si vedono di solito nelle raffigurazioni dei cavalieri: l'elsa era molto solida e fittamente ricamata con disegni e spirali, mentre la lama era più sottile alla base e alla punta andava leggermente incurvandosi. Tra la fine dell'impugnatura e l'inizio della lama vi era incastonata una pietra nera a forma di fiore, probabilmente una rosa, dalla quale spuntavano due ali, quella di destra bianca e la sinistra nera. Lo strano liquido viscoso e nero simile a petrolio la impregnava e colava in piccole gocce sul tetto, formando una macchia che andava allargandosi pigramente. Sentii il ragazzo digrignare piano i denti, poi, forse stufo di aspettare quel processo che sembrava protrarsi in un tempo infinito, si alzò. Mossi un passo indietro per quel gesto improvviso, ma la paura mi impedì persino di respirare. Ora che era nella mia stessa posizione era ancora più alto e snello di quanto già non sembrasse. Provai l'assurdo desiderio di vedere quelle braccia, contratte per il peso della spada, che erano ben nascoste sotto il solito giubbino nero. Il cappuccio mi mostrava solo un vago contorno offuscato. Ma volevo veramente guardare negli occhi colui che mi perseguitava da tutto quel tempo? Non ne ero convinta. Incurante di essere stato sorpreso con una spada nella mano, accennò ad un impercettibile movimento verso di me, ma poi invertì la rotta, mi diede le spalle e mosse qualche passo nella direzione opposta. La sua indifferenza mi irritò e sollevò al tempo stesso. Non volevo averci niente a che fare e il fatto che possedesse un'arma non mi tranquillizzava affatto.

Che piano avevo? Non ci avevo pensato.

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