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I condotti di alluminio tremarono, producendo uno stridore poco confortante che parve rimbombare per tutta la metropolitana. Se fossi stata certa di essere sola, avrei pensato ad un terremoto, ma sapevo che la causa era un certo demone di nome Agares. Quando si arrabbia, un demone può avere una forza talmente sovrumana da sgretolare un muro e ridurlo in polvere? O forse sradicare una colonna di cemento armato?

Non sapevo quanto tempo era passato, le mie percezioni erano completamente alterate. Forse cinque minuti, due o uno, durante i quali mi ero persa nelle tenebre dei miei pensieri ed ero riuscita a riemergervi solo grazie a quello scossone. Ora regnava il silenzio più totale. Cominciai a gattonare nel condotto, stando attenta a non fare rumore con il coltello che stringevo nella mano. Per quanto ne sapevo, Agares poteva anche essere sotto di me; questo pensiero mi fece rabbrividire e così lo scacciai in fretta. Continuai a percorrere quello strettissimo tubo rettangolare per tutta la sua lunghezza fino a quando non intercettai con i palmi l'irregolarità di una seconda grata identica alla prima. "E ora cosa faccio? Proseguo o mi calo giù? E se questo condotto dovesse portare ad un vicolo cieco?" Restai a fissare quella piccola superficie della grandezza di una mattonella, solo io e l'impercettibile suono del mio respiro. Sapevo che, per quanto plausibile, Agares non mi aveva seguita, stava solo tentando di farmi diventare paranoica. Un'ondata di paura mi penetrò il corpo, ma con la stessa rapidità mi sforzai di tramutarla in coraggio. Non potevo permettergli di farmi giocare al suo gioco. Mi sarei fidata del mio istinto. Di certo non sarei rimasta lì a marcire. Diedi un'ultima sbirciatina tra le fessure, poi aprii la grata e mi calai giù. Il salto era di circa quattro metri, ma cercai di non pensarci troppo. Ero salita sul tetto di un palazzo, potevo benissimo affrontare un'altezza del genere. Mi aggrappai con le mani al bordo e rimasi lì appesa in quel modo, cercando di colmare la distanza che rimaneva tra me e il suolo. Il silenzio che mi avvolgeva era al contempo inquietante e rassicurante; solo in quel momento notai una strana striscia di sangue nero che macchiava il pavimento sottostante, come di trascinamento, e mi colse la nausea. Oscillai con i piedi un po' avanti, un po' dietro, abbastanza impacciata, fino a quando non chiusi gli occhi e mi lasciai cadere. Il ronzio divenne più insistente che mai, poi cessò. Prima ancora che me ne potessi accorgere ero atterrata cadendo in avanti sulle ginocchia, ma ero integra. Mi rialzai barcollando e feci un piccolo giro su me stessa, alla disperata ricerca dell'uscita. C'erano scalinate, uscite d'emergenza, immondizia, luci al neon, indicazioni, ma la mente era così in subbuglio che non distingueva le scritte. Invece, mi ritrovai a fissare tutto tranne quello che avrei voluto vedere.

Uno scalpiccio di suole bagnate, accompagnato da un ormai familiare tintinnio di cerniere e cinghie di giubbini, mi fece voltare con il cuore in gola. Da dietro un angolo comparvero tre figure: Nakir, Paris e Blake. Non mi concessi del tempo per chiedermi come avessero fatto a trovarmi, dove fosse finito Agares o se lo avessero ucciso, agii d'impulso come al solito. Estrassi il pugnale e glielo puntai contro, nonostante i diversi metri di distanza. Mi sentivo lacerata dentro e le mie emozioni si stavano trasformando in diffidenza verso qualunque cosa, persino la mia stessa ombra.

«Addison! Santo cielo, come stai?» Paris usò una premurosità che mai le avevo sentito prima, ma io la respinsi senza troppi complimenti. «Sei ferita?»

Quello stesso terrore che mi increspava il viso si diffuse agli arti, che presero a tremare. «Uscite dalla mia vita. Ho solo... ho solo bisogno di stare da sola.» La mia presa si fece più salda sull'impugnatura, con la paura che qualcuno da dietro mi potesse sfilare il pugnale dalle dita. Prima di poter anche solo intercettare l'espressione delusa e incredula sul loro viso, mi girai e iniziai a correre verso la prima uscita di emergenza che mi capitò a tiro.

Nakir scattò dietro di me, anche se Paris provò a bloccarlo. «Per quanto tempo ancora avrai intenzione di ostacolarmi? Risolverò tutto.»

«Come hai fatto fino ad adesso?» lo rimbeccò Paris. «Mi sembrava già abbastanza spaventata e infuriata.»

Con uno strattone violentissimo Nakir si liberò, facendola barcollare all'indietro. Paris non lo aveva mai visto così infuriato, o meglio, non lo aveva mai visto trattenere così tanto la rabbia. In genere l'indifferenza aveva la meglio.

«Non venirmi a dire cosa devo o non devo fare, non quando si tratta di Addison! Nessuno la conosce meglio di me. Pensavo che avvicinandovi a lei mi avreste aiutato, invece no. State rendendo tutto più difficile di quanto non sia già. Tornatevene alla Confraternita, perché se avete intenzione di aiutarmi così state sbagliando di grosso.»

E dopo quella doccia gelata Blake, che fino ad allora era rimasto in silenzio, rispose secco: «Vai da lei. Non te lo impedirà nessuno. Ma sappi che al tuo ritorno non so se ci sarà ancora un posto per te nella Confraternita.» Girò le spalle zoppicando e fece per andarsene, ma poi puntò di nuovo lo sguardo in quello infuriato di Nakir e precisò: «E per quanto mi riguarda, giusto perché tu lo sappia, fino ad oggi ho fatto tutto questo per Addison, non per te.» 

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