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I passi lunghi del Cacciatore mantenevano una distanza costante tra me e lui. Erano quasi dieci minuti che camminavamo senza sosta nel bel mezzo della foresta; non che mi dispiacesse, ma avevo già rischiato di inciampare diverse volte e forse era il caso di risparmiarsi ulteriori ferite. Cercai di orientarmi, ma tutto sembrava terribilmente uguale e quando mi guardavo alle spalle c'era solo la vista dei soliti lugubri pini con i loro rami frondosi protesi come artigli verso il cielo. Nakir sapeva dove stavamo andando, vero?

Non avevamo parlato durante il tragitto e le sue ultime parole continuavano a risuonarmi nella testa come un'eco lontana: Mentre dormivi ho sentito la mancanza dei tuoi occhi innocenti che mi fissavano come se fossi un pazzo assassino. Come sempre, tutto ciò che diceva poteva essere interpretato in due modi –uno positivo e uno negativo- e stentavo a capire quale dei due volesse intendere in quel caso, anche se mi sembrò abbastanza scontato. Dopo tutti i problemi che gli avevo causato, non c'era motivo per il quale si dovesse mostrare gentile o minimamente compassionevole nei miei confronti. Ero un peso per lui, ancora non capivo cosa lo spingesse a trascinarmi dietro come se fossi uno di quei ragazzi appena arrivati a scuola ai quali devi mostrare con molta pazienza come funzionano le cose.

All'improvviso Nakir interruppe quell'escursione senza fine e per la seconda volta feci appena in tempo a scansarmi prima di sbattergli contro. Anche per questo era importante tenere le distanze da lui, per la sua imprevedibilità...

Alzai gli occhi, riparandoli istintivamente dal sole, ma non ce n'era alcun bisogno perché la cosa alla quale ci trovavamo di fronte era talmente alta da oscurarlo completamente. Era una nuda parete rocciosa coperta da rampicanti e piccoli arbusti; era uno scenario maestoso, ma la realtà era che ci trovavamo davanti ad un vicolo cieco.

«Bene, siamo arrivati» annunciò soddisfatto.

Feci un passo indietro per osservare quella parete in tutta la sua altezza e poi mi morsi il labbro inferiore, soffocando un'imprecazione. «Scusami?» dissi con gli occhi sbarrati.

Lui sembrò non ascoltarmi e cominciò a tastare i rampicanti.

«Tutta questa scarpinata per una roccia troppo cresciuta?»

Ma lui si ostinò al silenzio, con quel solito sorriso sghembo ad increspargli gli angoli della bocca. Mormorò qualcosa a fior di labbra che io non riuscii a comprendere, poi alzò la voce rivolgendosi a me: «Su, andiamo.»

«Subito!» mi animai, alzandomi dal masso dove mi ero accasciata. «Quale lato della parete vuoi che scali? Forse ce ne vorrebbe una senza rampicanti, sai, non correremo il rischio di scivolare...» Non era da me fare dell'ironia, soprattutto in situazioni del genere, ma mi venivano in mente centinaia di altri posti in cui voler essere fuorché quello, ad esempio casa mia. La mia vera casa, in Italia, dove si poteva andare a scuola senza la preoccupazione di essere uccisi, dove al massimo dovevi imparare ad evitare un bullo e non un demone invasato con strane idee sul dominio degli Inferi. Ricordavo con nostalgia persino i momenti che più odiavo, come le sgridate dei miei genitori quando tornavo a casa tardi la sera o mia madre che mi svegliava alle otto di domenica mattina con la scusa di dover pulire casa.

«Il mio sarcasmo ha un'influenza negativa su di te» replicò Nakir e mi afferrò delicatamente per le spalle per costringermi a fissare la roccia che c'era davanti a lui. «Concentrati» mi sussurrò ad un orecchio. Al solo suono della sua voce il mio corpo si irrigidì e poi di colpo si rilassò, come sotto effetto di un calmante. «Non è facile da spiegare» proseguì «ma il nostro mondo è fatto solo per chi ha ancora la capacità di immaginare. Tu sai cosa c'è veramente davanti a te. Lo so che può sembrare impossibile, ma devi abbattere le convinzioni con cui sei cresciuta, Addison. Devi guardare oltre l'apparenza di questo mondo.»

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