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Un cinguettio di uccellini mi fece schiudere piano gli occhi. Di solito il mio buongiorno era costituito da una sveglia che suona impazzita e le macchine che sfrecciano sotto la finestra. Con lo sguardo catturai il volante e le mie gambe rannicchiate contro il cruscotto e, investita da un'onda in pieno oceano, i ricordi della serata precedente mi travolsero. Il finestrino era leggermente socchiuso e da fuori proveniva un lieve venticello che trasportava con sé aria pulita, ricca di miriadi di profumi diversi: erba, terra bagnata, fiori... L'odore della vita. Feci per sedermi composta e ai miei piedi atterrò qualcosa di pesante che prima mi copriva come una coperta: la giacca di pelle di Nakir. Come non ricordavo di essermi mai addormentata, così non ricordavo di aver mai avuto freddo, ma la pelle accapponata sulle braccia mi suggeriva tutt'altro. Non sapevo dove fossi o cosa fosse successo mentre dormivo, in più il sedile di Nakir era vuoto. Aprii lo sportello nel panico. Lo spettacolo che si presentò davanti ai miei occhi mi fece arrestare. Mi trovavo in una foresta. La macchina era parcheggiata al centro di uno spiazzo d'erba bagnata che mi solleticò le caviglie. Tutt'attorno c'era un'infinita distesa di alberi –conifere, per l'esattezza- di ogni forma e dimensione, da quelli col tronco più giovane e rossastro a quelli massicci, corrosi, scuri e segnati da profondi solchi, come rughe di vecchiaia. Pini, abeti e soprattutto sequoie. Sollevando la testa, notai che il cielo sotto il quale mi trovavo non era più coperto di nuvole, ma limpido e di un azzurro intenso come non ne avevo mai visti prima probabilmente. I raggi del sole che filtravano attraverso le chiome degli alberi mi colpirono il viso, ma l'aria era molto più fredda rispetto a quando mi trovavo in città e questo mi costrinse a prendere la giacca di Nakir dalla macchina e a infilarla. L'interno era foderato e caldo e il suo profumo mi avvolse facendomi comparire un sorriso sul volto. Per la seconda volta in meno di ventiquattro ore mi chiesi se fossi ancora nei pressi di Los Angeles. Dopo aver trascorso una serata dentro quella metropolitana puzzolente, fui grata di poter respirare una boccata d'aria salubre e così me ne riempii i polmoni. Ero ancora ferma in mezzo al prato, senza sapere dove andare e con il persistente incubo che Nakir mi avesse abbandonata lì, quando volsi lo sguardo verso un gruppo di rocce. All'ombra di un pino, appollaiato lì sopra come un uccello rapace, c'era Nakir. Tirai un sospiro di sollievo e gli andai incontro, attraversando l'erba bagnata costellata di fiori bianchi e azzurri. Un dolore lancinante mi trafiggeva il cranio ad ogni passo e sentivo la schiena indolenzita come se il corpo fosse un unico grande livido, ma la consapevolezza che tra qualche attimo non sarei stata più da sola ebbe la meglio e a denti stretti arrivai ai piedi della roccia. Il ragazzo era seduto, l'ampia schiena leggermente ricurva e una gamba penzoloni nel vuoto. I capelli spettinati, ormai asciutti, erano colpiti in pieno dal sole e formavano un'aureola color bronzo. In realtà ogni parte del suo corpo sembrava emanare bagliori dorati, risplendente di luce propria. Mi bastò battere le palpebre una volta per allontanare quel pensiero.

«Hey, finalmente ti sei svegliata!» Ogni traccia di gentilezza era sparita dal suo volto, soppiantata da quel suo cronico disinteresse per tutti se non per se stesso.

«Oh, buongiorno anche a te.»

Aggrottò la fronte e i suoi occhi si ridussero a due fessure. «E' la mia giacca quella, o sbaglio?»

L'imbarazzo mi tinse le guance di rosso. Anche se le temperature erano basse, Nakir portava la solita maglietta nera a mezze maniche e non aveva per niente freddo. Prima che potessi giustificarmi, mi tese una mano. La guardai con riluttanza, ma non mi mossi. «Tranquilla, non rivoglio indietro la giacca» rise lui. «Però questo non significa che la devi trattare male. Vieni su, ho qualcosa per te.»

Sorrisi e afferrai la sua mano. Mi arrampicai fino ad arrivare alla sua altezza in maniera decisamente goffa, ma lui non sembrò farci caso; piuttosto mi esaminò la mano che ancora stringeva e ne tracciò i profondi tagli che mi ero procurata.

«Sarà meglio coprirli con qualcosa» mormorò turbato. Senza neanche darmi il tempo di accorgermene mi aprì la giacca e ne strappò un pezzo di fodera dall'interno, poi lo ripiegò su se stesso fino a farlo diventare una benda un po' arrangiata e me la avvolse attorno alle nocche. Osservai quella fascia nera che ora mi ricopriva la mano e poi il buco frastagliato che si era aperto nella giacca. «Ma non avevi detto che...»

«Cercherò di non darci troppo peso. Non faccio a brandelli le mie preziosissime divise per chiunque.»

A quella frase, la tensione e il disagio dentro di me si sciolsero. «Mi posso sentire onorata, allora.»

Lo stavo ancora fissando quando mi indicò un involucro che prima non avevo notato. Dentro c'era della frutta: acini d'uva bianca, spicchi d'arance, fettine di mela.

«Non è il massimo come colazione» disse con una scrollata di spalle «ma magari un inizio, no?»

Alla vista del cibo mi venne in mente che non mangiavo da un bel po' e lo stomaco emise un gorgoglio di gratitudine. Afferrai un chicco d'uva e ne assaporai il dolce succo che mi esplose nella gola secca. «Allora, posso sapere dove mi hai trascinata? Avevi voglia di fare un campeggio?»

Nakir inarcò un sopracciglio e addentò un pezzo di mela. «Ti risponderò tra poco.»

«Ma non è giusto!» esclamai. Se fosse stato qualcun altro, mi sarei messa a urlare che volevo tornare a casa, ma con lui non lo feci perché in qualche modo la sua presenza mi trasmetteva protezione. «Me lo avevi promesso.»

«Io non ho promesso un bel niente. E poi imparerai che nella vita nulla è giusto. Esistono solo sbagli. Magari sbagli giusti, ma pur sempre sbagli.»

La serietà di quella filosofia mi aggrovigliò ancora di più la mente. «Non ti seguo.»

Sorrise impercettibilmente e scosse la testa, come a suggerirmi che non avrei mai potuto seguire le sue lezioni di vita, poi sollevò lentamente lo sguardo. Mi rispecchiai in quegli occhi che avevano perso ogni traccia di grigio e ora tendevano di più all'azzurro, forse influenzati dal colore del cielo. Ci affondai completamente dentro, tanto che ebbi paura di perdermici e non poter tornare mai più in superficie. O forse ci ero già affogata dentro da un bel po'. Il suo sguardo poteva essere letale, se non si aveva abbastanza autocontrollo, e di quel passo io sarei stata la sua prossima vittima. Tentò di soffocare un altro sorriso, questa volta imbarazzato. Le emozioni non erano il suo forte. Forse aveva sempre vissuto nella sicurezza dell'invulnerabilità e questo lo metteva a disagio. «Non avrei mai pensato di dire una cosa del genere, ma mentre dormivi ho sentito la mancanza dei tuoi occhi innocenti che mi fissavano come se fossi un pazzo assassino.» Si passò una mano tra i capelli che gli stavano ricadendo davanti agli occhi e con un solo balzo felino scese dalla roccia. Atterrò sull'erba bagnata e si incamminò, lasciandomi lì senza fiato. Mi affrettai a scendere anche io stando attenta a non scivolare; inciampai un paio di volte, ma non ci badai e mi affrettai a raggiungerlo.

«Aspettami! Dove stai andando?»

Come immaginavo non si fermò, ma le scapole si irrigidirono sotto la maglietta ancora un po' umida. La sua risposta mi arrivò attutita, trasportata dal vento, eppure ne colsi una punta di ilarità. «Volevi sapere dove ti ho trascinata o sbaglio?» 

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