Non andatevene. Non lasciatemi anche voi.
Christopher Morgan non riuscì a pronunciare quelle parole. Suo padre aveva iniziato a soffrire di quegli indefinibili, atroci dolori da appena un paio di settimane, ma solo durante gli ultimi giorni la situazione si era precipitosamente aggravata. L'anziano Duca di Morgan stava perendo. Il suo respiro era diventato roco, flebile, le sue labbra sottili e pallide si separavano a malapena per lasciarlo fuoriuscire e sussurrare parole che suo figlio non riusciva a comprendere. Seduto accanto al letto, gli stringevo la mano, troppo deperita e debole perché l'uomo potesse ricambiare il gesto.
La morte è ineluttabile.
Lo sapeva; aveva fronteggiato il velo scuro della donna con la falce nell'anno in cui anche sua madre se n'era andata, nell'anno del Signore 1822, quando lui aveva appena quindici anni. Christopher sarebbe rimasto inesorabilmente solo, dopo che anche suo padre lo avesse lasciato. Solo, con una casa da mandare avanti, servitù a cui impartire ordini, affari politici da issarsi sulle spalle. Ma non era quello, il pensiero che più lo tormentava. Non era il fatto che presto sarebbe diventato il nuovo duca di Morgan. Christopher Morgan, Duca di Morgan, lo avrebbero chiamato. Vostra grazia.Guardava con occhi distrutti il volto sciupato di suo padre, le rughe irregolari che sembravano scavare la pelle come aghi infimi e senza cuore, il sudore che si era incuneato perfino laddove nessun occhio umano poteva vederlo. L'intera superficie della sua epidermide appariva lucida, sotto il bagliore fioco della lampada affissa sulla parete. Non ricordava di aver mai visto il duca in quelle condizioni; Vincent Morgan non era mai stato un uomo dalla ferrea volontà, non aveva mai posseduto particolari doti di spadaccino né aveva mai saputo tener testa alla sua defunta moglie. Si era dedicato a qualcosa di più antico, lontano dai doveri imposti dalla società londinese – i doveri di un duca cui anche suo figlio avrebbe dovuto adempiere –, qualcosa che raramente un aristocratico sfoggiava di sapere fare: comporre poesie. Vincent Morgan era stato un inguaribile, sdolcinato romantico, e aveva dedicato a sua moglie – che aveva amato con tutto il cuore e tutta l'anima – centinaia di poesie, che mai lei aveva avuto la possibilità di leggere. Marissa Morgan, questo il nome della defunta duchessa, non aveva mai apprezzato quel passatempo insulso, definendolo perennemente una totale perdita di tempo che distoglieva l'attenzione del duca da quelli che invece dovevano essere i suoi principali doveri. Per questa ragione, Vincent Morgan aveva mostrato le sue poesie all'unica persona che aveva al contrario saputo apprezzarle: suo figlio. Lui era cresciuto accompagnato dai versi melodiosi scritti dal padre, annegando nella bellezza, nell'atmosfera magica che le parole sapevano creare, nello struggente amore di un uomo che non era mai stato ricambiato.
Adesso, Christopher osservava suo padre andarsene lentamente e il pianto, un pianto che non avrebbe potuto mostrare a nessuno in quella casa, minacciò di farlo crollare. Gli pizzicò gli occhi, incupiti dalla condizione in cui verteva il genitore, e rimase intrappolato nel retro della sue palpebre. Non avrebbe pianto, almeno non finché Vincent Morgan fosse stato in vita. Sapeva che lui non lo avrebbe biasimato.
Un uomo non è un vero uomo se non piange almeno una volta nella vita, gli aveva detto una volta. Lui ricordava il suo sorriso amaro in un giorno di pioggia di tanti anni prima, il sorriso di qualcuno che non aveva mai stretto tra le mani l'amore della donna che amava, e si era poi abbandonato alle lacrime davanti al suo unico figlio. Il Christopher di dodici anni gli aveva domandato perché lo avesse fatto, e quella era stata la sua risposta. Il ragazzo che era allora, aveva imparato che piangere non rendeva un uomo debole, ma al contrario faceva di lui una persona forte, una persona umana che provava emozioni.
Inconsapevolmente, strinse ancor di più quella vecchia mano troppo fiacca, abbandonata verso le sue ginocchia. La notte fonda dominava il paesaggio fuori dalla finestra, risvegliando in lui il senso di torpore dovuto al sonno che sarebbe già dovuto arrivare, ma a cui non avrebbe dato ascolto. Non avrebbe dormito, quella notte. Sarebbe rimasto al fianco di suo padre finché non avesse esalato l'ultimo respiro, e non lo avrebbe lasciato nemmeno allora. Si sarebbe riposato solo più avanti, quando i giorni, tanti giorni, fossero trascorsi e il dolore per la morte del duca sarebbe stato quantomeno sopportabile.
Sbattendo lentamente le palpebre, Vincent fece scivolare il capo verso di lui. «Christopher?» La sua voce era ridotta a un sussurro. Chinò la testa e abbozzò un sorriso. «Sono qui, padre.»
Gli occhi di suo padre, che avevano perduto il consueto bagliore di sempre, si chiusero piano. «Sorridere, Christopher... Ricordatelo. Sorridere è il segreto per l'amore.» La sua mano tremò, scossa dalla profondità che possedeva ancora il riverbero dell'amore che Vincent Morgan aveva provato per sua moglie. Christopher annuì con vigore, trattenendo le lacrime. «Ricorderò ogni parola e la custodirò nel cuore in eterno.» In silenzio, lo sguardo stanco del duca si posò di nuovo su di lui. «Ti voglio bene, Christopher.»
«Ve ne voglio anch'io, padre.» Osservò gli occhi dell'anziano genitore perdere sempre più luce. E infine, quella luce si spense.Christopher baciò la mano del duca, e si abbandonò alle lacrime, che scivolarono silenziose lungo le guance, scavando e imprimendosi nella pelle come un marchio. «Ve ne voglio anch'io» continuò a ripetere, mentre l'orologio sulla mensola del camino produceva quello che sembrava un incessante, diabolico ticchettio. «Ve ne vorrò per sempre.»
Non avrebbe saputo dire quanto tempo fosse rimasto a vegliare sul corpo senza vita di suo padre, sotto la luce flebile di una vecchia lampada, accompagnato dal rumore infernale dell'orologio che non ne aveva voluto sapere di tacere. Forse erano trascorse delle ore, perché il cielo non era più buio, ma rischiarato da un tenue indaco striato di rosa. L'alba, pensò. Il momento migliore che una giornata potesse avere. Aveva sempre adorato l'aurora, con i suoi colori tenui e delicati, come l'eco delle poesie di suo padre, l'eco di un amore profondo che lo aveva segnato nell'anima. Quella mattina, però, non riuscì a trarne la solita bellezza. Aveva tenuta stretta così a lungo la mano di Vincent che pensava non sarebbe mai riuscito a lasciarla andare. Suo padre era morto, e quella consapevolezza lo mortificava, gettandolo in una spirale di irrealtà e confusione da cui sembrava non esserci alcun ritorno. Non poteva essere, tentava di convincersi. Fino a poche settimane prima aveva composto i suoi versi, avevano riso insieme, avevano parlato, tutto era stato come doveva essere. E adesso era giunta la terribile realtà, e Christopher si sentiva solo, come se non avesse più alcun appoggio, alcuno stimolo per andare avanti.
Sullo scrittoio di suo padre, in biblioteca, c'erano ancora tutte le sue poesie, disseminate sull'intera superficie. Sorrise, suo malgrado. Il duca non era mai stato un uomo per cui l'ordine contasse qualcosa, e così non era suo figlio. Una volta avevano scherzato sul fatto che gli sarebbe servita una moglie dedita alla pulizia e le cure maniacali della casa. Lui non sperava di trovarla. Se si fosse innamorato, si era convinto, sarebbe stato di una donna dallo spirito libero, capace di ribellarsi se solo avesse tentato di scavalcarla. Non una donna come sua madre, però. Marissa Morgan era stata troppo rigida, troppo altezzosa... La sua futura sposa, quando fosse giunta, avrebbe dovuto avere una natura più passionale.
Ma a quello, decise, avrebbe pensato più avanti.
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- IN REVISIONE - Loving Juliet.
RomanceWest Sussex, 1837 Juliet Palmer è la semplice figlia di un baronetto di campagna e paventa il giorno in cui dovrà sposarsi, conscia del fatto di non essere all'altezza delle belle fanciulle dell'aristocrazia londinese. Da sempre immersa in libri e...