Lontani Da Me! (Parte 3)

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Emma sapeva di non avere molto tempo a disposizione. Doveva muoversi in fretta. I secondi erano scanditi inesorabilmente e lei aveva già procrastinato abbastanza la sua decisione di intraprendere trepidamente l'opzione numero due.

Mentre pigiava furiosamente sul suo telefono per dirigersi sul social dell'uccellino azzurro la sua mente continuava a proiettare situazioni. Se Giacomo non avesse risposto il palco sarebbe crollato e buonanotte a tutti. Se Giacomo avesse risposto, come avrebbe fatto a fargli capire la situazione?

Il pollice di Emma si diresse immediatamente sui messaggi privati di Twitter, trovando il contatto dal nickname GVarenti in prima linea. Si perse per un'istante a rileggere di sfuggita la breve conversazione della sera prima. Si rese conto di provare nuovamente quella curiosa sensazione di "farfalle nello stomaco".

Cosa doveva scrivere? Quale sarebbe stato il modo migliore per formulare il suo pensiero? Emma non tardò molto a rielaborare i concetti. Scrisse le prime parole che le venivano in mente.

Ciao, Giacomo! Oggi hai da fare? Se per te va bene, ci possiamo incontrare davanti al palaghiaccio tra mezz'ora?

Si diede della stupida. Osservò i messaggi che si erano scambiati la sera prima, in cui lei non faceva altro che esaltare la tranquillità, il calore della casa e la stupidità delle persone che devono per forza uscire sempre, perché altrimenti non sono contente. Invece, con quel messaggio si stava contraddicendo. Tra le righe vi era chiaramente scritto a caratteri cubitali GUARDA COME SONO SPERIKOLATA AD ANDARE A PATTINARE! CHE POVERY QUELLI CHE NON CI VANNO! xD PERKE NON TI UNISCI A ME? xoxo!. Sì, indubbiamente le costava parecchio l'invio di quel messaggio.

Indietro però non si torna.

Emma doveva muoversi. Se conosceva bene sua madre entro qualche secondo avrebbe dovuto sentirla urlare dalle scale.

«Emma, sei pronta?». Puntualissima, come al solito.

«Arrivo!».

Si vestì con una fretta che non aveva mai sperimentato la domenica. L'ansia che aveva addosso in quell'istante l'aveva definitivamente strappata dal tepore del letto e l'aveva costretta brutalmente a mettersi la maschera da ragazza attiva e intrepida. Per ogni capo di abbigliamento messo si precipitava sul cellulare per controllare eventuali risposte, ma ad ogni sblocco frenetico corrispondeva puntualmente una schermata vuota. Quando Emma fu pronta con addosso i canonici jeans e un maglione bianco strappato dall'armadio senza troppi complimenti si diresse immediatamente fuori dalla stanza. Sapeva che non poteva rallentare troppo. Era sul filo della lama, e quella era l'ultima possibilità che sua madre sembrava darle, dopodiché alla libertà e al pacifico riposo avrebbe detto addio.

Guardava ancora lo schermo nero del telefono, sperando in una risposta, quando imboccò la rampa di scale per recarsi al pianterreno.

Avanti, rispondi, perché non rispondi?

Assorta nelle sue preoccupazioni, Emma non vedeva nemmeno dove andava. Bastò un piede messo male per farle perdere l'equilibrio. I pensieri diretti allo sfuggente GVarenti furono immediatamente sostituiti da quella sgradevole sensazione di vuoto che ti fa ricordare di essere una mortale, e come tale basta poco per lasciarci le penne.

Emma cercò disperatamente di riprendere il controllo del corpo agitando furiosamente le braccia, ma cacciò un urlo quando si sentì definitivamente cadere.

«Non si dovrebbe stare al telefonino mentre si scendono le scale, signorina». La voce rassicurante di suo padre Claudio le arrivò nell'esatto istante in cui avvertì la solida presa con la quale riuscì a riprendere l'equilibrio e ad aggrapparsi al corrimano, ansimando ancora per quei pochissimi istanti di vuoto.

«Per fortuna stavo salendo!». Le iridi grige di suo padre la trafissero con un autorevole monito.

«Io... Grazie, papà!» bofonchiò lei.

«Tutto bene, Emma? Sembri agitata! Non sembri dell'umore giusto per incontrare... Il principe azzurro!» ammiccò Claudio, scherzosamente.

Ansimando, Emma riuscì a mollare un sospiro. Lui amava spesso prenderla in giro per il fatto che sua figlia avesse costantemente respinto qualsiasi ragazzo che si era presentato alla porta di casa. Dato il suo atteggiamento, non era di certo un padre iperprotettivo o conservatore che tirava fuori la doppietta ogni volta che un nuovo pretendente si faceva avanti. La cosa che lo divertiva più di tutte era punzecchiarla su un certo Enrico. Il poveretto, innamorato perso di lei, incassava ogni tentativo che Emma sfoderava per allontanarlo, e ogni volta ripartiva alla carica più furente che mai. L'ultima volta si era addirittura presentato direttamente a casa sua con un enorme cesto di fiori che con i pigmenti dei petali formavano in uno strabiliante motivo la scritta "EMMA" seguita da un cuore. Le altre ragazze si sarebbero sciolte per questo gesto, o perlomeno si sarebbero fermate ad ammirare la composizione, gongolandosi con loro stesse per avere fatto colpo su un gradevole esemplare di maschio. Emma, tuttavia, non si era mostrata di quell'avviso. Quando suo padre l'aveva chiamata alla porta di ingresso, per ragguagliarla sull'arrivo di Enrico, lei, giunta dinnanzi al prode cavaliere, aveva alzato gli occhi al cielo e aveva sbattuto la porta in faccia al poveretto con una freddezza artica. Quello, per tutta risposta, aveva svuotato il contenuto floreale sul pavimento della veranda, scaraventandovi con violenza il cesto e andandosene a testa bassa con le mani in tasca.

«Quindi?» domandò Claudio. «Mi ha detto la mamma che lo incontrerai al palaghiaccio! Proprio tu che hai sempre odiato pattinare, che ogni volta che volevo portare anche tua sorella mi facevi dannare! Insomma, questo tipo deve avere un bell'effetto su di te. Come si chiama? Giovanni?».

«Giacomo...» sospirò Emma.

Perché tutti le facevano il terzo grado? Non lo sopportava. In fondo non stava facendo nulla di così trascentale: stava solo andando a incontrare un ragazzo... Che ancora non aveva risposto, e lei bramava una risposta come non mai.

Si accorse di non avere più il cellulare in mano in mano. Emma si tastò le tasche per controllare se per caso lo avesse riposto là. Nulla.

Oh no. No, cazzo, non è possibile.

Voltò leggermente il capo verso il pavimento del pianterreno al di là del corrimano e il suo smarphone era lì. Peggio che mai, il costoso device riposava inerme con lo schermo rivolto verso il suolo. Brutto segno, pessimo segno. L'orrore si dipinse sul volto della ragazza, che si precipitò immediatamente al piano di sotto ignorando i richiami di prudenza del padre. Con una velocità eccezionale si raggiunse il malcapitato oggetto e lo afferrò con la mano tremante. Chiuse gli occhi e voltò lo schermo dalla sua parte.

No, ti prego, non ora.

Quando li riaprì, sussultò. Una voce dentro di lei avrebbe voluti gridare a squarciagola. Una rottura piuttosto evidente era comparsa sul vetro in diagonale. Visto così, a Emma parve lo sfondo della siglia della serie televisiva britannica Black Mirror. Impanicata, provò a sbloccare in modo compulsivo lo schermo del cellulare. Era completamente morto. Sudando freddo, tenne premuto il tasto dell'accensione, sperando in un riavvio, ma la sorte non le veniva incontro. Il verdetto era stato stabilito. Il suo smartphone si poteva dire andato.

Emma udì la voce di sua madre provenire dal soggiorno.

«Vogliamo andare?».

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