Nobiltà D'Animo - Varietà di Short Stories Vaganti

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Eccoci giunti all'ultima prova del concorso di Animus-ignotus. Vorrei davvero fare un luuungo cappello introduttivo alla storia come sempre, ma questa volta sono giunto al limite. Mancano sei fottuti minuti alla consegna del lavoro! ;-) Quindi, direttamente, vi auguro buona lettura!

Udii improvvisamente un rumore proveniente dall'esterno. Sollevai il capo a fatica, lacerato dal dolore e dai morsi della fame. La grande porta metallica di fronte a me era debolmente illuminata da una scia di luce proveniente dall'esterno.

Il buio che mi attorniava venne squarciato dal flebile tepore di una torcia stretta nella mano delle guardie delle segrete. Non vidi altro con loro: niente cibo, niente acqua. Dedussi che si trovavano lì per lo sfogo, che altro non era se non una sadica sfida in cui vinceva chi mi faceva perdere i sensi prima con una scarica di colpi a mani nude.

Mi sentivo morire, senza forze. Eppure, al solo pensiero di ciò che stava per accadere, mi rizzai in piedi. Avevo ancora in mente le sensazioni dell'ultima volta. Li vedevo più cattivi del solito. Già mi immaginavo sputare sangue ad ogni loro calcio.

«Abbiamo un opossum in cella! Guarda come finge bene!» esclamò la prima guardia.

«Scommetto che riesco a resuscitarlo prima io!» rise il suo compare.

Non capii di che cosa stessero parlando precisamente, non riuscivo a riflettere con lucidità in un momento come quello.

Una lacrima mi segnò il volto per le visioni immaginate allorchè la guardia che mi si era avvicinata sollevò la gamba con intenzioni sicuramente non benevoli. Scoccò il suo colpo e udii un suono sordo. Rimasi perplesso. Perché non avevo percepito il benché minimo dolore? Che cosa era accaduto?

«Mi sa che è proprio morto».

«No, sei tu che calci come una donnicciola. Ti insegno io».

Il rumore che produsse il secondo calcio fu svariate volte più forte. Nella foga del momento non avevo inquadrato che cosa in realtà stessero calciando. Abbassai lo sguardo.

«Mi sa che questo topo di fogna è proprio schiattato».

Spiccai un balzo all'indietro quando vidi il mio corpo inerme disteso a terra, con le palpebre abbassate dal velo nero della morte. Questo spiegava l'assenza di dolore e l'improvvisa energia che mi ha permesso di alzarmi in modo così innaturale. Mi mancò il fiato. Poi mi resi conto che in realtà non avevo fiato. Non respiravo. Mi sentivo inconsistente e incredibilmente leggero, quasi in grado di spiccare il volo.

Non avevano posato gli occhi su di me. Dedussi che non potevano vedermi. Mi spostai di qualche metro. Nulla. Proprio non mi percepivano.

Provai a interagire con loro, cercando di afferrare un braccio a uno dei due. Non appena lo toccai, l'arto si tramutò in ghiaccio, si spezzò, e cadde sul pavimento lercio della cella. Il suono prodotto dal frantumarsi si unì al grido di dolore del malcapitato.

I ruoli si erano invertiti. In quell'istante ero io che guardavo dall'alto fiero il mio aguzzino urlare di dolore. E ci godevo. Mi tornarono alla mente tutti gli episodi in cui mi avevano torturato per gioco. Senza pensarci su due volte gli afferrai il collo in una gelida morsa. Il suo volto divenne una maschera di dolore e si pietrificò con la bocca spalancata, mentre con mia grande soddisfazione il suo ultimo urlo si spegneva.

Il suo compare non ci pensò molto a fuggire, dopo quello spettacolo cruento e innaturale. Mi apprestavo a inseguirlo per infliggergli la giusta nemesi, quando improvvisamente mi voltai, percependo qualcosa.

«Edmond...».

Udii un sussurro di una voce fin troppo familiare. Dolce, calma, affettuosa, calda, la riconoscevo fin troppo bene. Strabuzzai gli occhi quando vidi comparire davanti a me la sorgente di quel tono celestiale. I suoi inconfondibili capelli corvini adornavano il suo capo così delicato. Non vedevo il suo dolce volto da anni, ormai, da quando una terribile malattia me l'aveva portata via.

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