5. Pronta a tutto

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Il mercenario rimase a lungo assorto con gli occhi fissi sulla strada, osservando con cura gli edifici segnalati dall'esercito di Los Angeles. Elena da quella posizione non riusciva a vedere gli infetti che le avevano indicato: nascosta e relativamente al sicuro però, iniziò a percepire la loro presenza. La distanza e le mura degli edifici soffocavano i versi degli appestati, facendo si che all'esterno trapelasse soltanto un tono flebile e indistinto. Un gorgoglio sommesso, come racchiuso all'interno di una camera ermetica. Ma nonostante il divario e gli ostacoli che impedivano lo spargersi di quei versi tetri e raggelanti, Elena poteva sentire chiaramente la loro presenza pervaderla fino all'osso, facendola turbare.

Le porte stranamente erano chiuse: anziché essere sfondate o spalancate, come normalmente accadeva quando una miriade di infetti andasse a invadere senza scrupoli un luogo un tempo abitato, gli ingressi invece parevano sigillati. Elena, sebbene la distanza fosse notevole, notò immediatamente la stranezza. Ciò le diede da sospettare, e forse non fu l'unica a notare quella particolarità. Lo sguardo fermo di Manfredi sembrava puntare direttamente gli ingressi serrati, che con diligenza pareva studiare.

Elena osservando il mercenario perso in indecifrabili ragionamenti, decise saggiamente di non disturbarlo. Pertanto, siccome rimasta turbata da tale circostanza, si avvicinò silenziosamente a Mellish.

<Non è strano?> Chiese con un filo di voce, dando per scontato che l'uomo avesse intuito.

Il soldato la guardò perplesso. <Che cosa?>

<Le porte.> Rimase sorpresa. <Non l'hai notato?>

Mellish alzò lo sguardo oltre la macchina dopodiché, non appena intuì, tornò ad osservare Elena.

<Sono tutte chiuse.>

<Appunto... credevo non fossero capaci di chiudersi le porte alle spalle.>

<Infatti non lo sono.> Disse a un tratto la voce dura di Manfredi.

<E allora com'è possibile?> Elena non capiva: cercava una possibile risposta ma ogni volta che credeva di averla scovata, si rendeva conto di quanto improbabile essa fosse.

Manfredi tornò serio a meditare, isolandosi dai due soldati.

I vetri sporchi delle finestre, coperti in parte dalle piante e in parte dalla polvere creatasi con lo scorrere del tempo, impedivano un accurata visione dell'interno. Lo sporco denso sulle vetrate, sparso a chiazze lungo i bordi, appariva talmente concentrato che ne la pioggia ne tanto meno il vento, davano l'impressione di non essere in grado di rimuovere tale sporcizia. Malgrado ciò Elena riusciva a scorgere delle figure, molto offuscate, dondolare all'interno degli edifici. I piani più alti però, restavano un mistero. Il divario che li separava era troppo ampio, per far si che la vista raggiungesse simili altezze. Dal punto in cui era piazzata la piccola squadra, si potevano osservare gran parte degli edifici segnalati: posizionati al centro della strada, nascosti dietro ad una vecchia e polverosa macchina, Manfredi e i due soldati poterono scrutare senza troppe problematiche.

Il mercenario continuava in silenzio a ragionare: passarono minuti interi avvolti dalla quiete del mattino, senza muovere alcun muscolo. Tant'è che Elena iniziò a stufarsi. Perché l'uomo non agiva? Per quale motivo pensava così tanto? La cosa non gli piaceva, forse c'era qualcosa che non lo convinceva e per questo rimaneva fermo a meditare. Tuttavia Elena e il suo compagno avevano un ordine da eseguire e un compito da svolgere. L'esercito di Los Angeles contava su di loro, e al successo che avrebbero portato alla comunità. Era stanca di quella attesa, voleva agire e al più presto; nonostante un timore le premeva la nuca.

Il piano da eseguire era semplice: lei e il suo compagno di squadra, accompagnati o meno dal mercenario, visto l'atteggiamento sempre imprevedibile dell'uomo, dovevano addentrarsi all'interno degli edifici designati e in qualche modo raggiungere gli ultimi piani, affinché potessero calcolare l'ammontare effettivo degli infetti. Ma prima di tutto ciò, avrebbero dovuto eseguire il test.

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