Pronta a tutto "Quarta parte"

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<Com'è potuto accadere?> Il volto di Sherman era sconsolato. <Come abbiamo fatto a non accorgerci di nulla?> Chiese infine frustrato al maggiore, di fronte a lui.

Era la prima volta che il generale si mostrasse così affranto, di fronte a suoi uomini. Sherman cercava sempre di evitare che il suo operato, nonché la sua fermezza, venissero intaccati dagli elementi esterni. L'esercito di Los Angeles, per essere comandato con certezza e stabilità, richiedeva che la mente e lo spirito fossero forgiati e plasmati con solide lastre di acciaio: per poter reggere e sostenere ciò che quel mondo aveva da offrire. Sapeva che quei soldati, comandati da lui stesso, avevano bisogno di una figura forte e salda, che non si lasciasse contaminare dal mondo spietato che si stendeva oltre le mura. Eppure, faccia a faccia con il maggiore, non riuscì a trattenere i propri tormenti.

<Avrei dovuto immaginarmelo che prima o poi le nostre difese sarebbero state superate. In parte è colpa mia Thomas: non sono stato abbastanza coscienzioso. Ho dato per scontato fatti che in realtà richiedevano una maggior cautela. E adesso pago per la mia vacuità.>

<Signore, con tutto il rispetto, cerchiamo di evitare questi sensi di colpa. Come ben sa: struggersi non può portare altro che ulteriore afflizione.>

<E l'afflizione porta al dolore.> Continuò il generale. <E dopo il dolore viene infine la morte.> Concluse cupo in volto.

<Esattamente.> Disse Thomas. <Signore lei non c'entra niente con tutto questo casino. Sappiamo benissimo che gli unici responsabili sono quei figli di puttana. E tra l'altro le ricordo che dobbiamo ancora trovare delle prove concrete, che confermino ciò che stiamo cercando.>

Sherman annuì pensieroso, concorde con il suo collega.

Erano passate già quattro ore da quando la squadra era partita per l'esterno: sapeva che ce ne sarebbero volute un altro paio, per completare la missione e tornare così alla comunità. Sperava che spedire con loro il mercenario fosse la stata la scelta più saggia; lui si fidava di Manfredi e del suo intuito. In tutti quegli anni di collaborazione non l'aveva mai deluso, ne tanto meno ingannato. Per quanto criptico ed enigmatico fosse, il mercenario era garanzia. Tuttavia, nonostante si fosse in parte abituato all'atteggiamento ambiguo dell'uomo, c'era una cosa che lo aveva lasciato fortemente perplesso. La richiesta che Manfredi quella sera fece al generale, quando apparì come uno spettro dopo ben sei mesi di silenzio, senza sue notizie; una volta in disparte, fuori dalla sala verde. Il mercenario disse poche e rapide parole, lasciando interdetto Sherman. Ciò che l'uomo rivelò prima di andarsene fu, oltre a riferire che secondo lui Los Angeles era infestata da spie, disse: "avrò bisogno della ragazza." Dopodiché, lesto si incamminò lungo il corridoio della base, lasciando il generale basito e confuso.

Che voleva Manfredi da quella recluta? Perché aveva bisogno della ragazza? Per caso la conosceva? O forse c'era altro sotto? Sherman tentò di trovare risposte alle sue domande, andò perfino di persona a indagare sulla faccenda, tenendosi la cosa soltanto per se. Chiese a mercanti e cittadini che conoscevano quantomeno di vista il mercenario, se avessero scorto o sentito qualcosa, che magari potesse aiutare la sua ricerca di informazioni. Ma, come già si aspettava, nessuno gli fu di aiuto.

I mercanti si divertivano a raccontare le solite storie fuorvianti, e dissimili dalla realtà. La parola di un commerciante, si diceva che valeva quanto cento persone: siccome ciò che udivano, spesso veniva raccontato e tramandato ad altre centinaia di persone, ma con dettagli e sfaccettature differenti dalla storia originale. E così, il significato o l'avvenimento che diede luce al racconto, si perdeva inevitabilmente in un mare sconfinato. Pertanto, Sherman non riteneva affidabili tali voci. Tuttavia, ritené opportuno fare almeno un tentativo, poiché quella faccenda era troppo strana.

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