Allen
Sto aspettando appoggiato al cofano della macchina da almeno un'ora. Dopo aver accompagnato Cheyenne a casa mi sono diretto a Brooklyn. Non sono un tipo ansioso, anzi, generalmente prendo la vita molto alla leggera, anche dopo il divorzio dei miei e tutti i problemi che ne sono conseguiti, sono sempre stato un tipo tranquillo, ma l'unica che riesce a rivoltarmi da capo a piedi è mia sorella. Amy dà voce a tutte le mie ansie, preoccupazioni e paure. Ho sempre il terrore di sbagliare con lei, che io possa dire o fare qualcosa che la rovini per sempre, oppure che abbia un problema e non me ne voglia parlare... insomma, mi preoccupo molto più per lei che per me stesso, o per qualsiasi altra persona sul pianeta.
Il litigio di ieri non mi ha dato tregua nemmeno per un secondo, per cui ho deciso di offrirmi volontario per andare a prendere Amy a casa della signora Parker. Mia madre sembrava sorpresa, e sono sicuro che abbia colto uno squilibrio fra noi, ma non si è intromessa. Batto con il piede per terra mentre attendo che arrivi. Di sicuro si aspetta di vedere la mamma, perché erano d'accordo in questo modo, per cui sono certo che farà una scenata trovandosi davanti me, ma voglio chiarire la situazione, non sopporto di andare avanti con tutto questo. Un'altra mia caratteristica è che sono schietto, forse troppo. Non mi piace tirare le cose per le lunghe o girare attorno ai problemi, vado sempre dritto al punto.
Quando il portone del palazzo si apre raddrizzo le spalle e mi preparo al peggio. Amy, con ancora il volto sorridente, lo chiude alle sue spalle, ma quando alza la testa e vede me la sua aria gioiosa viene spazzata via da una folata di vento gelido. Si ferma e mi scruta. Nei suoi occhi c'è un misto di furia e delusione, tristezza e ira... credo che vorrebbe prendermi a calci, e non glielo impedirei.
«Ciao, Amy» le dico quando fa un passo sicuro in direzione della macchina. Siamo troppo simili, la sicurezza non ci è mai mancata.
«Dov'è la mamma?» chiede gelida.
«Ha mandato me.»
Alza gli occhi al cielo e mi oltrepassa, raggiunge il lato del passeggero, apre la portiera ed entra in macchina. Già che non sia fuggita verso la metro è un buon inizio.
«Vuoi stare lì impalato o ce ne torniamo a casa?» mi sollecita affacciandosi dal finestrino. Il suo volto innocente, ancora da bambina, è teso, i lineamenti sono marcati e gli occhi azzurri sono diventati blu a causa delle emozioni negative.
Non dico nulla e ingoio un sospiro, poi salgo in macchina di fianco a lei. Metto in moto dopo averle lanciato un'occhiata fugace. Ha in tutto e per tutto l'atteggiamento di chi è piccato: braccia conserte, sopracciglia aggrottate, labbra contratte e sguardo scocciato.
«Per quanto pensi di tenermi il muso, Amy?» mi sforzo di mantenere un tono pacato, ma la domanda mi esce comunque in modo aggressivo. Lei assottiglia lo sguardo senza girarsi verso di me e alza gli occhi al cielo. Sta facendo il gioco del silenzio. Non voglio crederci. Sa che mi manda il sangue al cervello.
«Oh andiamo, sul serio? Va bene, non parlarmi, che grande soluzione! Sei proprio matura, sì, proprio matura, congratulazioni!» ringhio, poi sbatto una mano sul volante. Lei sobbalza, ma non replica. Odio quando le persone mi ignorano. Preferisco il dialogo, anche le urla se fosse necessario, ma di sicuro il silenzio è la cosa che detesto di più, non risolve i problemi, anzi li amplifica. E mi fa incazzare.
Guido infuriato fino a casa, quando arriviamo spalanco la portiera e la richiudo con un tonfo. Marcio verso l'ingresso e vado dritto al piano di sopra, ignorando mia madre che mi richiama. Sbatto la porta della mia camera, tiro un calcio al cestino di fianco al letto e mi lascio cadere su di esso con la testa fra le mani. Il cuore mi pulsa nelle tempie, il sangue ribolle nelle vene e il respiro è affannato. Detesto questo momento, il momento della realizzazione. Quello in cui ti rendi conto di aver fatto una cazzata. Mentre la fai sembra la cosa più giusta che tu possa fare, sei convinto che le tue ragioni siano valide e che non te ne pentirai per nulla al mondo, ma cinque minuti dopo già ti sei ricreduto. È quello che mi è successo ieri, dopo aver fatto sesso con Val, la "collega" di mio padre. Ero soddisfatto e sicuro che per nulla al mondo me ne sarei pentito, ma l'espressione ferita di Amy mi ha fatto cambiare idea. E anche oggi, dopo averla trattata in quel modo, convinto di aver ragione, adesso mi sento una schifezza, perché non avevo ragione. Se qualcuno si mette sulla difensiva, l'attacco non è mai la scelta migliore.
Non sono una persona orgogliosa, ma ormai non ha senso tornare di sotto, dovrei anche dare spiegazioni a mia madre e non ne ho voglia, so che finirei per fare l'ennesima cazzata. Questo dimostra che le mie preoccupazioni nei confronti di Amy sono fondate, perché io stesso le faccio del male, e se sono io il primo allora anche gli altri si sentiranno autorizzati a farlo.
Trascorro una buona mezz'ora sdraiato sul letto, per un momento considero addirittura l'ipotesi di fare i compiti per passare il tempo, ma la scaccio con la stessa rapidità con cui è arrivata. Stamattina sono anche andato a correre, e la stanchezza post festa e allenamento si comincia a far sentire. Cullato dal calore che proviene dai termosifoni, sento la tentazione di chiudere gli occhi e fare un pisolino, e lascio che sia così, mentre tutti i pensieri cominciano a scivolare lontani.
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Misfits - Disadattati
Storie d'amoreCheyenne Leroy è la figlia perfetta: brava a scuola, frequenta ragazzi educati e di buona famiglia, ha amiche popolari e ha già in tasca una borsa di studio per Harvard. O almeno è quello che credono i suoi genitori. In realtà Cheyenne non sopporta...