14. Misfits

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Allen

Cinque ore prima

Mi do dello stupido per l'ennesima volta mentre osservo Cheyenne oltrepassare il cancello di casa sua fremente di rabbia. Non dovevo farle quella scenata, non aveva alcun senso. Non so nemmeno perché l'ho fatto di preciso. Solo che quel tizio... aveva una faccia così da idiota, da ricco viziato che sa di poter ottenere tutto quello che vuole in uno schiocco di dita. So bene cosa significa, perché lo sono stato anch'io, e ho avuto quell'espressione per anni, finché non mi sono reso conto che come potevo avere tutto, tutto poteva essermi tolto. Vorrei così tanto scendere dall'auto e scusarmi con lei, ma so che sarebbe troppo infuriata per ascoltarmi, oltretutto la mamma ed Amy mi stanno aspettando, ho promesso a mia sorella che sarei arrivato puntuale a pranzo, e così sarà. Inserisco la marcia e mi immetto in strada, lasciandomi alle spalle Villa Leroy. Poco dopo sono di fronte al mio palazzo, parcheggio l'auto e noto subito che c'è qualcosa di inconsueto. Una Porsche è parcheggiata in un posto che rimane sempre vuoto, non l'ho mai vista, quindi mi sembra strano, ma può essere la macchina di qualche parente delle famiglie che abitano nel condominio. Ancora dubbioso, vado verso l'ingresso e raggiungo il mio piano. Aspetto un paio di secondi fuori dalla porta, quando mi rendo conto che quelle provenienti dall'interno non sono soltanto le voci di Amy e della mamma. Oltre alle loro c'è una voce... maschile. Afferro la maniglia e spalanco la porta, rendendomi a malincuore conto che il pezzo mancante per risolvere l'enigma della Porsche ce l'ho proprio qui davanti.
«Ma che cazzo...» mormoro, sconvolto. Lo sguardo mi cade su mio padre, che non trascorre un Natale con noi da anni, seduto sul divano con un cappello natalizio in testa che ride con Amy di qualcosa. Mia madre, come quando ancora eravamo bambini, li osserva e sorride di sfuggita mentre prepara il pranzo. Mi sento stonare in questo angelico quadretto. È come se per un attimo fossi uscito dal mio corpo e guardassi tutto dall'alto. Quello che hanno costruito dentro casa nostra, dentro casa mia, è un mondo tutto loro, del quale non faccio parte.
«Allen!» Amy esclama il mio nome, ma lo sento ovattato. Quando mi corre incontro e mi abbraccia, non riesco a fare nulla, continuo a osservare mio padre – che adesso sembra a disagio – seduto sul mio divano come se fosse il suo. Sembra cogliere il mio sguardo, perché si alza e si schiarisce la gola.
«Allen, finalmente sei tornato! Ma dove diavolo eri finito?» mia madre si asciuga le mani sul canovaccio, venendomi incontro preoccupata. Non so cosa fare, non so cosa dire, e detesto la sensazione di sentirmi un estraneo in casa mia. Lui non ha diritto di trovarsi qui, questo è il luogo in cui ho imparato a crescere senza di lui, e non voglio che lo insozzi con la sua falsità.
«Hai visto? Papà trascorrerà il Natale con noi, sei contento?» insiste Amy. Finalmente mi risveglio dallo stato di trance, e sposto lo sguardo da mio padre a mia sorella. Sto per risponderle che no, non sono affatto felice, e piuttosto che stare nella stessa stanza con quest'uomo per più di dieci minuti preferirei buttarmi dal ponte di Brooklyn. Nudo. Però, riesco a frenare la lingua, guardo nei suoi grandi occhi azzurri e speranzosi, e in fondo so che per lei tutto questo è importante. D'altronde... è solo una bambina che sogna di vedere la sua famiglia unita. Faccio un grande, profondo sospiro e mi sforzo di annuire e sorridere. Questo è il massimo che posso concederle, ma Amy sembra al settimo cielo lo stesso. Si attacca al mio collo e mi riempie di baci. Mi rendo conto di non aver ancora lasciato il pomello della porta, in caso avessi bisogno di fuggire all'istante. Chiudo gli occhi. Sono solo un paio d'ore, ce la puoi fare. Lentamente allento la presa sul pomello, fino a lasciarlo andare. Sono bloccato dentro questa casa con mio padre. Ho il presentimento che non finirà bene, ma devo fare del mio meglio perché non accada.
«Allora, dov'eri signorino?» la mamma mi punta contro il cucchiaio di legno con cui stava girando il sugo. Guardo mia sorella, confuso.
«Avevo detto ad Amy di riferirti che avrei passato la notte fuori» rispondo, e lei annuisce con convinzione.
«L'ho fatto.»
«Ti stavo solo prendendo in giro, Allen» mia madre ride piano, io invece rimango sgomento. Sono anni che non la sento fare una battuta spensierata. Osservo di sfuggita mio padre, che finge di sistemare una decorazione sull'albero di Natale. Che sia la sua presenza a renderla felice? Non voglio neanche pensarci. Mi dico che è soltanto lo spirito natalizio.
«Ero con un'amica» mi rendo conto che, per come stanno le cose, quest'affermazione è per me innocente, invece mia madre raddrizza le orecchie. Merda.
«Cosa mi sono persa? Da quando in qua hai una ragazza?» l'informazione – erroneamente dedotta – la rende ancora più felice.
«Non ho nessuna ragazza, mamma» bofonchio, imbarazzato. Per sfuggire a questa conversazione vado in cucina, evitando accuratamente mio padre, e faccio finta di controllare il sugo.
«Beh, invece sarebbe ora che ci facessi un pensierino» insiste, non contenta.
«Mamma!» esclamo, con gli occhi sgranati. Sul suo volto prende forma un sorriso che le distende le guance e si allunga fino agli occhi scuri come i miei. Di colpo, il sorriso si addolcisce, e lei alza una mano, che si poggia con delicatezza sulla mia guancia. Con le dita accarezza la ricrescita della barba, senza smettere di sorridere.
«Non mi interessa che tu abbia una ragazza, Allen, ma spero trovi una persona che ti renda felice, perché non c'è sentimento più bello dell'amore verso qualcuno.» Mi schiocca un bacio in fronte e torna a dedicarsi al sugo. Quando lo fa, mi sembra di tornare ad avere dieci anni, la dolce età della spensieratezza. Le sue parole mi toccano con delicatezza, so che sta dicendo una cosa vera, perché l'amore che io provo per lei e, in special modo, per Amy mi riempie la vita, però non credo che si possa amare qualcuno al di fuori della famiglia. O almeno, non mi è mai successo. E forse l'esempio dei miei genitori non è il più indicato, ma è una realtà molto più frequente e vera di quella descritta nei libri o nei film di genitori che si amano immensamente come se ogni volta fosse la prima. E, anche se mio padre è uno stronzo, sono grato di essermi scontrato il prima possibile con la realtà. Ho sofferto per la loro separazione, pensavo che non ne sarei mai uscito, adesso invece tutto quello che è rimasto è rabbia, ma di certo non più dolore. Non mi interessa che mio padre sia assente, piuttosto preferirei non vederlo mai più, e sono certo che anche la mamma vivrebbe molto meglio. L'anello debole è Amy, l'unica che continua a credere che l'amore possa vincere ogni cosa. Da un lato sono felice che sia così speranzosa, significa che sta vivendo una bella adolescenza, ma dall'altro vorrei fosse più realista, perché quando la realtà arriva non vieni avvisato in anticipo, devi essere pronto ad affrontarla. E Amy non lo è, questo è ciò che mi preoccupa di più.
«A cosa pensi, tesoro? Sei molto assente oggi» lo sguardo di mia madre si riempie di preoccupazione. Mi sforzo di essere più loquace, ma non è proprio il Natale che mi aspettavo.
«Posso farti una domanda brusca?» le chiedo, assicurandomi che Amy non sia nei paraggi.
«Certo.»
«Perché papà è qui?»
Lei smette di girare il sugo e sospira. «Sapevo che era questo il problema...»
Aspetto una risposta a braccia conserte. Riprende a girare il sugo. «È da un po' che Amy mi chiede quando sarebbe venuto a trovarci, se sarebbe venuto a trovarci come le prometteva...»
«Non è molto bravo con le promesse, lo sappiamo tutti» la interrompo bruscamente, ma lei mi fa cenno di aspettare.
«L'altro giorno stavo stirando in camera e l'ho sentita parlare con Taylor, le diceva che l'unico regalo che avrebbe voluto quest'anno era passare il Natale in famiglia. E con famiglia non intendeva soltanto noi tre. Capiscimi, Allen, cosa avrei dovuto fare?» I suoi occhi mi supplicano di provare a comprendere, ma non ce n'è bisogno. So cos'ha provato, perché lo sento anch'io ogni sacrosanto secondo sabato del mese.
«Ti capisco, non ne sono felice, ma ti capisco... tu come ti senti al riguardo?» La posizione di mia madre nei confronti di mio padre davvero non la riesco a capire. Non ne parliamo mai, tuttavia se dovessi attribuirle un aggettivo quando si parla di lui sarebbe... indifferente, come se ciò che fa non la toccasse minimamente. Eppure sono stati sposati per un bel po' di anni, io sarei arrabbiato come minimo, visto anche il suo scarso interesse nella nostra famiglia, che comunque è anche la sua.
«Non preoccuparti per me, anzi...» prende dalla lavastoviglie i piatti puliti e me li porge, insieme alle posate e ai bicchieri. «...apparecchia.»
Alzo gli occhi al cielo, ma evito di ribattere. Come sempre ha sviato l'argomento. Mentre metto la tovaglia scuoto la testa, e mi rendo conto che ho preso proprio da lei. Dispongo i piatti e, per la prima volta dopo anni, anche il posto di fronte ad Amy torna a essere occupato. Lo osservo a lungo, confuso, indeciso. Non riesco a definire se tutto questo sia sbagliato o meno. So che Amy è felicissima di avere nostro padre qui, non capisco cosa provi mia madre, ma un altro grande punto interrogativo rimane proprio mio padre. Perché ha accettato di venire?
«Immagino sia da parecchio che questo posto è vuoto, non è vero?»
Alzo di scatto lo sguardo su di lui, dall'altra parte della sedia. Nella sua affermazione non sembra esserci alcuna ironia, piuttosto una certa vena nostalgica, ma non riuscirà a comprarmi con un po' di dispiacere.
«Lo è da tempo sufficiente per renderci conto che non abbiamo bisogno sia di nuovo occupato» rispondo, secco, quasi sbattendo il bicchiere sul tavolo. «Se vuoi scusarmi...» faccio per andarmene, ma lui mi afferra un braccio. «No.»
«No, cosa?» ringhio. Sono anni che non ci tocchiamo e me ne rendo conto soltanto adesso.
«No, non ti scuso.»
«Non prendermi per il culo!» abbaio, e anche se mi sforzo di tenere un tono basso per non destare i sospetti di Amy, fallisco miseramente. Lei, tuttavia, non sembra essere nei paraggi.
«Modera il linguaggio, Allen» mi riprende, in modo sereno, come se fosse un normale padre che discute con il proprio figlio.
«Io non modero proprio un cazzo!» Ma gli ha per caso dato di volta il cervello? «E lasciami!» strattono il braccio, che lui lascia andare.
«Voglio parlarti» continua, sempre con quel tono mite.
«Io no, immagino che i nostri problemi siano risolti» sputo, con amara ironia, e faccio di nuovo per andarmene, ma lui me lo impedisce. Prendo un profondo respiro, per evitare di girarmi e tirargli direttamente un pugno in faccia.
«Sul serio, Allen.»
«E va bene, parla!» esclamo. Afferro una sedia per la spalliera e la tiro indietro, poi mi lascio cadere su di essa, sfinito. Spero solo che la cosa non verta su discorsi sentimentali, perché potrei avere delle difficoltà nel rispondere delle mie azioni. Lo osservo restare in silenzio, e alzo le sopracciglia. È incredulo che davvero io l'abbia lasciato parlare. Vorrei ridergli in faccia, ma mi trattengo. Con lentezza anche lui afferra una sedia e si mette seduto. Si aggiusta il colletto della camicia – per prendere tempo, ne sono sicuro – e poi mi scruta per un paio di secondi.
«Se non hai niente da dire, io non ho tempo da perdere.» Faccio per alzarmi, ma la sua voce mi blocca col culo sulla sedia.
«So che non ho diritto di essere qui, e so che non ti fa piacere. Per quanto tu ti ripeta che la mia è soltanto una recita ben costruita, io voglio davvero bene ad Amy e a te, e anche a vostra madre... mi dispiace di essere stato egoista in passato, ma le cose tra me e la mamma non funzionavano, ero arrabbiato e-»
«E ti sei scopato la tua segretaria, grazie papà, questo già lo sapevo» arrabbiato, mi alzo dalla sedia, lui mi imita.
«Lasciami finire... io non sono andato a letto proprio con nessuno, Allen, ma tu l'hai sempre vista come se io avessi tradito la mamma, il che forse è vero in parte, ma non ho mai avuto altre donne mentre eravamo sposati.»
Non riesco più a trattenermi e scoppio a ridergli in faccia. «Non hai mai avuto altre donne? È vero in parte? Ma che diavolo vai blaterando?!»
«Ho tradito la fiducia di tua madre e la promessa che le avevo fatto quando ci siamo sposati di rimanere insieme fino alla fine, ma non è stata una scelta unidirezionale. Abbiamo scelto entrambi di divorziare.»
«Dopo che tu l'avevi tradita» preciso, lui sembra esasperato. Si porta le mani fra i capelli biondi e li stringe.
«Non ho tradito tua madre!»
«E perché appena vi siete lasciati ti sei fidanzato con la tua segretaria, eh? Ci hai messo così poco a riprenderti dalla separazione?» Quest'uomo oggi vuole essere picchiato. Avevo già accettato a fatica la sua presenza, perché deve sempre rendere le cose complicate?
«Io... io...» balbetta, ma non ha scuse.
«Sì, esatto, proprio come pensavo... hai detto soltanto una cosa vera in tutto questo: non hai il diritto di essere qui.» Metto un punto alla discussione abbandonando la stanza e andandomene in camera mia.
Mi sdraio sul letto e chiudo gli occhi, il cuore mi batte nelle tempie, e non c'è modo per calmarmi. Che odio quell'uomo. Non gli basta aver distrutto tutti i bei ricordi che ho, legati ai luoghi e agli oggetti dell'infanzia, ora deve distruggere anche quelli costruiti a fatica dentro questa maledetta casa, lontana da lui e dalla sua falsità. Qualcuno bussa alla porta, e non ho bisogno di chiedere chi sia, so per certo che dietro il legno massiccio c'è mia sorella. Conosco perfino il rumore dei suoi passi, e so quello che produce la sua mano quando bussa contro la porta.
«Entra, Amy» sospiro, continuando a guardare il soffitto.
«Come facevi a sapere che ero io?» quando apre la porta, nella sua voce c'è soltanto meraviglia. Rido piano.
«Ti conosco.»
Lei entra cauta nella stanza, lasciando la porta accostata, poi sale sul letto e si siede a gambe incrociate. «Va tutto bene?»
«Alla grande» rispondo, sarcastico.
«Guardami, Allen.»
Mi sforzo di fare come dice, e incontro i suoi occhi azzurri contratti dalla tristezza. «Per favore, non roviniamo questo giorno... per la prima volta papà trascorre di nuovo la Vigilia con noi.»
«Che lieto evento!» esclamo, con la schiena mi appoggio alla testiera del letto, lei mi posa una mano sulla gamba, i suoi occhi mi stanno supplicando.
«Ti prego, ti prego con tutta me stessa... cercate di andare d'accordo.»
«Farò del mio meglio» acconsento, alla fine, perché non riesco proprio a dirle di no.
«Grazie, grazie, grazie!» Piena di gioia, si tuffa su di me, stritolandomi fra le sue braccia esili. «Torni di sotto?»
Prima che possa risponderle, la mamma ci precede. «Ragazzi scendete, il pranzo è pronto.»
«Arriviamo» grida di rimando mia sorella, poi torna a posare lo sguardo su di me. «Grazie davvero di cuore, Allen.»
Sospiro, stringendola contro il petto. «Questo e altro per te, paperella.»
La seguo lungo le scale, fino alla sala da pranzo. Senza guardare nostro padre, mi metto seduto alla destra di Amy, che invece lo ha di fronte. Nostra madre si siede davanti a me dopo aver servito il pranzo. Cerco di comportarmi con quanta più diplomazia possibile. Quando voglio lanciare frecciatine o fare battute mi mordo la lingua e conto fino a dieci prima di tornare a respirare. Dal canto suo, papà la smette con le finte manifestazioni di affetto e parla più con nostra madre che con noi, rivolgendo di tanto in tanto qualche parola ad Amy. Forse, se qualcuno ci vedesse dall'esterno, sembreremmo la famiglia perfetta che consuma un allegro pasto festivo, eppure c'è così tanta rabbia e disgusto a questo tavolo. Almeno da parte mia.
Una volta arrivati al dolce, sono costretto ad ammettere la mia sconfitta.
«Io passo» forse sono le prime parole che dico da quando abbiamo iniziato a mangiare, e la sorpresa è così tanta che tutti si girano verso di me.
«Ma... è il tuo dolce preferito!» obietta Amy, prendendone invece una grossa cucchiaiata. In effetti la Charlotte è la mia torta preferita ma, non essendo un amante dei dolci, passo volentieri.
«Puoi mangiare la mia porzione.» Le porgo il mio piatto, Amy non esita ad afferrarlo.
«Se la metti così...»
«Mi ricordo che da piccolo ti abbuffavi di dolci... forse è per questo che adesso non ne mangi praticamente più.» È stato mio padre a parlare. Alzo lentamente lo sguardo su di lui. Il sorriso gli muore sulle labbra, non devo avere una bella espressione. Sento Amy trattenere il fiato di fianco a me, e vedo mia madre assumere un'espressione severa. Dentro di me inizio a contare, questa volta mi tocca arrivare fino a venti prima di calmarmi. Il silenzio è assoluto, non si sente nemmeno l'ordinario rumore dei clacson. Guardo mio padre dritto negli occhi e... sorrido. Tutti tirano un sospiro di sollievo. Non mi ero mai reso conto di essere una tale, imprevedibile bomba. Amy si schiarisce la gola, poi batte le mani, allegra. «Apriamo i regali?»
«Amy!» la rimprovera la mamma. «I regali li aprirai stasera, non all'ora di pranzo.»
«Persegui la tradizione?» scherza nostro padre, rivolgendole un sorriso nauseante. Amy, sin da piccola, non è mai riuscita a resistere fino al Venticinque per aprire i regali, ha sempre scelto di farlo subito dopo il pranzo della Vigilia. Non so perché, ma nessuno gliel'ha mai impedito. In fondo, impedire qualcosa ad Amy è impossibile.
«Sempre e comunque!» esclama lei, poi si alza in piedi, lasciando nel piatto metà dessert. La mamma sospira, esasperata.
«E va bene... apri i regali.»
Amy saltella di gioia e si tuffa sotto l'albero. Con le spalle si appoggia al termosifone e afferra il primo regalo. Sorrido nel vederla così spensierata e felice, alla fine questo pranzo non è stato poi una tortura così insopportabile. Per il sorriso che ha adesso stampato sulle labbra, rivivrei questo giorno per il resto della mia vita. L'affetto che provo per quel terremoto dai capelli biondi è indescrivibile.
«Allen» mormora, senza fiato, dopo aver scartato il mio regalo. Devo ammettere di essermi fatto aiutare da Cheyenne a sceglierlo. Non che io non conosca mia sorella, ma in questo campo è molto più brava lei di me. Si alza in piedi con le lacrime agli occhi e mi getta le braccia al collo. «Stai scherzando?»
Scuoto la testa e le asciugo una lacrima. Amy abbassa di nuovo lo sguardo sulla divisa da cheerleader con i colori della nostra scuola.
«Ma la scuola me ne avrebbe fornita una, non dovevi...» tira su col naso.
«Cheyenne mi ha detto che in genere sono vecchie e usate, dunque ho pensato che avresti voluto la tua divisa personale» le sorrido, lei continua ad alternare lo sguardo tra me e la divisa.
«Per te non è un problema che mi abbiano presa nella squadra?» sussurra.
In realtà la cosa non mi fa stare tranquillo, però ho deciso di fidarmi del giudizio di Cheyenne. «No, anzi fagli vedere di che pasta sono fatti i James.»
Le arruffo i capelli, Amy si lamenta e mi tira uno schiaffo contro la mano.
«Ti hanno presa in squadra? Congratulazioni tesoro! Quando pensavi di dirmelo?» La mamma si intromette, stritolando Amy fra le braccia. «Sono così orgogliosa!»
Alzo gli occhi al cielo e lascio che commentino eccitate questa notizia. Mio padre se ne sta seduto sul divano, in disparte. Vorrei non doverlo fare, ma purtroppo sarebbe maleducazione. Vado verso di lui e gli indico Amy. «La renderebbe la persona più felice del mondo sapere che sei fiero di lei.»
Lui sorride, senza nascondere la gioia per il fatto che sono venuto a parlargli di mia spontanea volontà. Si alza e si dirige da mia madre e mia sorella, dopo avermi dato una pacca sulla spalla. Faccio un gran sospiro e mi appoggio alla porta d'ingresso, scegliendo di osservarli dall'esterno.
A un certo punto, mio padre si allontana e viene verso di me, facendomi cenno di seguirlo. «Ho una cosa per te: ti prego, aspetta a fare domande.»
Confuso, lo seguo lungo le scale del palazzo, fino al parcheggio. Cammina verso la Porsche, e mi rendo conto che è nuova di zecca. Un brutto presentimento inizia a graffiarmi la gola come acido. Mio padre estrae dalla tasca posteriore dei jeans un pacchetto regalo e me lo porge. È piccolo ed elegante.
«Ma cosa...»
«Aspetta a fare domande» ribadisce, poi con un cenno del capo mi indica il pacchetto.
Sospiro e inizio a scartarlo, fino a raggiungere una scatola in velluto nero. Gli rivolgo un'occhiata indagatrice, ma il suo sorriso non vacilla. Quando la apro, ogni buon proposito va letteralmente a farsi fottere. Afferro ciò che contiene e lascio cadere la scatoletta.
«Mi prendi per il culo?» ringhio, sbattendogli la chiave della Porsche in faccia.
«Ho pensato che ti avrebbe fatto piacere avere una macchina tutta tua... mi ricordo quanto a lungo parlavamo della tua futura Porsche e... eccola qui!» Continua a sorridere, speranzoso, ma ormai il suo teatrino è crollato. Ha svelato da solo le proprie carte. Vorrei urlare, infilarmi le mani nei capelli e poi portarle al suo collo. Vorrei dirgli che una bella macchina non compensa affatto tutto quello che ho passato, non compensa l'affetto mancato e l'assenza di un padre, eppure dalla mia bocca non esce un suono. Prima che me ne renda effettivamente conto, il mio pugno destro si schianta sul suo naso. Una fantastica sensazione di leggerezza si sprigiona a partire dalle nocche fino al cervello. Ho sognato così tanto di farlo che non mi sembra vero. Però, ciò che non avveniva nel mio sogno, era la reazione di mio padre.
«Che cazzo di problema hai, Allen?!» grida, portandosi entrambe le mani al naso grondante di sangue. Non me ne pento nemmeno un po'.
«No, tu che cazzo di problema hai! Pensi che una stupida macchina possa comprare il mio affetto? Non mi conosci per niente!» sbraito.
«Ho solo fatto quello che qualunque padre avrebbe fatto per il proprio figlio! Perché devi vedere un secondo fine in ogni cosa?» continua a urlare, e devo ammettere che mi fa piacere vedere che finalmente ha abbandonato quella facciata mite e tranquilla. Il sangue gli imbratta la camicia, che si appiccica al petto.
«Tu non hai il diritto di definirti mio padre! Sei solo un vigliacco, un buono a nulla che non pensa ad altro che non sia se stesso!» Sfogo tutta la mia rabbia, sputandogli addosso gli insulti che mi sono tenuto dentro nelle ultime ore. Cogliendomi totalmente alla sprovvista, mentre sono proteso verso di lui, mio padre raddrizza la schiena e mi tira un pugno dritto contro l'occhio sinistro, che colpisce anche parte del mio naso. Mi porto le mani al viso, sconvolto, non tanto per il dolore quanto per la sorpresa.
Infuriato come non mai, gli lancio addosso la chiave della sua stupida Porsche e vado verso la macchina di mia madre. Mi metto al volante e ingrano la marcia, schizzando via da questo maledetto parcheggio. Che bel modo di festeggiare il Natale, decisamente quello che ci vuole. Non mi preoccupo del sangue che mi cola dallo zigomo, né dell'occhio che sento gonfiarsi sempre di più. Giro per la città, senza avere una meta precisa in cui andare. Di tornare a casa non se ne parla, e mi sono dimenticato il cellulare lì. Non posso chiamare nessuno, né presentarmi da nessuna parte conciato in questo modo, così decido di andare nell'unico posto in cui vorrei davvero essere.
Non appena mi trovo davanti al cancello, mi rendo conto che è una pessima idea, ma ormai sono qui. Suono il citofono e aspetto che risponda. Per dieci minuti tutto tace, e l'unico suono che mi fa compagnia è quello del vento che si incanala fra i grattacieli, spargendo la neve che ha iniziato a cadere un po' ovunque. Indosso soltanto la mia felpa, ma sono così sgomento e confuso per gli avvenimenti dell'ultima ora che non sento nemmeno freddo. Dei passi familiari mi risvegliano dallo stato di trance ma, consapevole dell'aspetto della mia faccia, decido di non alzare lo sguardo.
«Allen, ma che diavolo fai? Sta nevicando!» la voce di Cheyenne è assonata, devo averla svegliata. Incredibilmente, però, riesce sempre a toccare il tasto giusto per farmi tornare il buonumore. O comunque la forza di alzare gli angoli delle labbra. Vedendo che non mi muovo, si avvicina e mi afferra il viso, sollevandolo. «Oh. Mio. Dio. Che diavolo è successo alla tua faccia?!»
Guardo nei suoi grandi occhi verdi, senza sapere cosa dire. Mi pento di essere venuto qui, non avrei dovuto farlo, eppure non sapevo dove altro andare. Leggo la preoccupazione sul suo volto, le punte delle sue dita sono gelide come sempre quando entrano a contatto con la pelle tumefatta del mio viso. Chiudo gli occhi e abbasso lo sguardo, anche solo fare questo piccolo movimento mi fa stringere i denti. Quel bastardo ha ancora forza da vendere, nelle braccia.
«Allen, ti prego, parlami...» Cheyenne mi afferra il volto con entrambe le mani, sollevandolo quel tanto che basta per guardarmi in faccia. La sua espressione mi dice che la situazione è più grave di quello che pensassi, devo essere messo proprio male.
«Entriamo in casa.» Senza aspettare una mia risposta mi afferra per un braccio e mi trascina verso il cancello.
«No» bofonchio, con il braccio libero cerco di farle mollare la presa.
«No, cosa?» chiede, sgomenta.
«Non sarei dovuto venire qui... mi dispiace, Cheyenne» faccio per voltarmi e andarmene, ma lei me lo impedisce, bloccandomi la strada. La neve si poggia delicata sui suoi capelli, e crea un delizioso contrasto con il loro colore rosso. L'espressione che ha dipinta in volto, invece, è tutt'altro che deliziosa.
«Voltati immediatamente e smettila di comportarti da imbecille, James» decreta, dura. Il suo tono non dà la minima idea di poter essere contradetto, così faccio come dice, e in men che non si dica mi ritrovo a seguirla lungo il vialetto.
Villa Leroy all'interno è ancora più grande di quello che immaginavo. La porta d'ingresso si apre su un ampio salone, arredato in stile moderno con un bellissimo tavolo di vetro al centro e delle sedie eleganti disposte intorno. Un altro angolo del salone è arredato con dei divani bianchi, alla parete è accostata una libreria immensa che la percorre per almeno tre metri. La stanza è luminosa, ma a renderla ancora più brillante sono i quadri provenienti da ogni parte del mondo e le piante curate, che hanno fiori sgargianti e colorati. Il pavimento è in marmo, ma è dipinto con colori accesi e vivi. Seguo Cheyenne attraverso degli archi che portano a quello che immagino sia il salotto. La stanza è più piccola – per piccola si intende che è comunque più grande del mio appartamento – e sulla parete alla nostra destra è appoggiata una TV gigantesca, così grande da fare concorrenza a uno schermo del cinema. Davanti ad essa c'è un divano, questa volta nero, su cui tranquillamente entrerebbe tutta la squadra di football. Non faccio in tempo ad ammirare i dettagli, perché ancora una volta la destinazione di Cheyenne non sembra essere questa. Mi volto e la osservo mentre apre una porta scorrevole, e ci ritroviamo in cucina. Cheyenne aggira l'isola che percorre tutta la stanza e si fionda verso il frigorifero, da cui estrae del ghiaccio.
«Vieni qui.» Mi fa cenno di sedermi su uno degli sgabelli di fronte all'isola, lei si siede davanti a me e con delicatezza mi piega indietro la testa, per poi poggiarmi il ghiaccio contro lo zigomo.
«Fa male» mi lamento, il ghiaccio brucia contro la pelle, facendomi stringere i denti.
«Ma va, idiota, come diavolo ti sei ridotto in questo modo?» Con l'occhio buono riesco a vedere che scuote la testa.
Sospiro. «Ho tirato un pugno a mio padre, diciamo che non l'ha presa bene... potrei anche averlo insultato, dopo averlo picchiato.»
Spalanca la bocca. «Allen!»
«Che c'è?»
«Ma... perché? E soprattutto, come lo hai incontrato?»
Cheyenne toglie il ghiaccio dalla mia faccia, si alza e torna con un fazzoletto bagnato, con il quale preme leggermente sul mio zigomo, per togliere il sangue incrostato.
«Ahi» mi lagno, lei alza gli occhi al cielo.
«Parla, James.» Torna a poggiarmi il ghiaccio sulla guancia, con sguardo severo.
Sbuffo. «Mia madre lo ha invitato a pranzo, Amy ci teneva... le cose stavano andando anche discretamente bene, finché lui non ha deciso di mandare tutto a puttane.» Ripenso alla storia della Porsche, e vorrei montare in macchina e tornare a casa soltanto per tiragli un altro cazzotto.
«Cosa è successo?»
«Il bastardo ha deciso di regalarmi una Porsche, come se bastasse una stupida macchina con cui ero ossessionato da bambino per rimediare ad anni di assenza» scuoto la testa, ancora incredulo che abbia anche solo potuto pensarlo.
«E tu lo hai picchiato? Perché ti ha regalato una Porsche?» le sopracciglia di Cheyenne scattano entrambe verso l'alto. È scettica.
«Così la fai suonare molto peggio... non l'ho picchiato per la Porsche, l'ho picchiato perché pensava che un regalo costoso avrebbe compensato la mancanza di un padre» confesso. «Non ha fatto altro che mandarci regali costosi che puntualmente non abbiamo mai usato, da quando ha divorziato da nostra madre. Non ha mai capito che tutto quello che avevamo sempre voluto era solo che... fosse presente» sussurro. Mi sento incredibilmente debole ed esposto a dirle questo, ma non riesco a non farlo. Sento che in qualche modo lei riesce a capirmi. Smette di premermi il ghiaccio contro lo zigomo e mi guarda dritto negli occhi.
«Ti capisco benissimo... ehi, ti ricordo che i miei mi hanno abbandonata qui, a Natale... per l'ennesima volta.»
«Siamo proprio due... non so nemmeno come definirci» scuoto la testa con amarezza, divertito.
«Sfigati?» propone Cheyenne, ma poi si guarda intorno e scuote la testa. «Non mi sembra il termine più adatto.»
«Direi di no... che ne dici di ubriacarci?»
Lei sgrana gli occhi e scoppia a ridere. «Che c'entra questo?»
Alzo le spalle. «Non lo so, ho voglia di ubriacarmi.»
«Non se ne parla nemmeno, Allen!»
«Andiamo... quanto sei noiosa! Sono certo che i tuoi avranno dei vini strabilianti da qualche parte in questo palazzo reale!» la stuzzico, lei sembra pensarci su, ma alla fine incrocia le braccia contro il petto, contrariata.
«Ho detto di no.»
«Una sola bottiglia...» insisto, e la vedo vacillare, ma ha una gran forza di volontà la ragazza.
«Non esiste.»
«Mezza?»
Cheyenne sbuffa, sbatte il piede per terra, e alla fine sospira. «Solo mezza.»
«Oh sì, cara la mia ragazza, così mi piaci!»
«Sì, sì... aspetta qui... Dio, devo smetterla di darti retta!»
«Cosa faresti senza di me?» le grido dietro, canzonandola, e in risposta lei mi rivolge il medio senza nemmeno voltarsi. Scoppio a ridere. Qualche minuto dopo Cheyenne torna nella stanza con in mano un vino francese.
«È uno dei più pregiati che mio padre possiede, sentiti onorato.» Afferro la bottiglia e provo a leggere l'etichetta, ma è tutto in francese, così ci rinuncio e la stappo. Un delizioso profumo aleggia nell'aria, e sembra di trovarsi in un vigneto. Mi ricordo di esserci stato da piccolo, durante uno dei viaggi di lavoro di mio padre in Toscana. Il profumo era così delizioso che faceva venire voglia di staccare i grappoli d'uva direttamente dalla vite e divorarli.
«Amo il vino rosso» dico. Muoio dalla voglia di assaggiarlo. Cheyenne prende due calici e torna a sedersi davanti a me. Verso il vino e facciamo tintinnare i bicchieri.
«Alla tua, allora» dice lei, sorseggiando il vino. A giudicare dalla sua espressione deve essere davvero squisito. Non riesco più a resistere e la imito. Scorre delicato lungo la gola, un'esplosione di sapore che mi riporta definitivamente a quel giorno.
«È buonissimo, Cheyenne!» Non ho mai bevuto nulla del genere. Afferro la bottiglia e me ne verso ancora.
«Woah, vacci piano, tigre... avevamo detto mezza bottiglia» mi riprende, strappandomela dalle mani.
Sbuffo. «Che noia... vuoi trattare così un povero ragazzo pestato?»
Lei non risponde, alza gli occhi al cielo e si incammina verso il salotto. La seguo con un sorriso e le rubo la bottiglia dalle mani quando meno se lo aspetta.
«Tu! Lurido...» vorrebbe suonare seria, ma sta ridendo, dunque è poco credibile. Faccio lo stesso, alzando la bottiglia sempre di più. Rido nel vedere che prova ad afferrarla ma non ci arriva.
«Quanto mi stai antipatico!» esclama infine, incrociando le braccia al petto.
«Ma taci, che se non fosse per me avresti passato la Vigilia da sola!»
«Se non fosse per te starei ancora tranquillamente dormendo sul divano!»
«Tanto mi stavi sognando e... il tuo sogno è diventato realtà» mi vanto, con un sorriso ammiccante.
Cheyenne alza gli occhi al cielo. «Vorrai dire il mio incubo.»
Le verso un altro bicchiere di vino, lei sorride e scuote la testa. «Credo che dovresti tornare a casa, Allen» dice piano.
Sospiro. «Lo so, ma non voglio.»
«A volte dobbiamo fare cose che non vogliamo fare.»
«Tra un paio d'ore torno a casa, te lo prometto... ma ora voglio soltanto gustarmi la nostra mezza bottiglia» le faccio l'occhiolino, e lei annuisce, sconfitta.
«E va bene.»
Inutile dire che non abbiamo bevuto soltanto mezza bottiglia. L'abbiamo finita, e nel giro di un'ora ci siamo ritrovati sdraiati sul pavimento della cucina. Cheyenne si tiene una mano in testa, e sta borbottando qualcosa. La osservo confuso, finché non mi rendo conto che sta cantando una canzone che passa alla radio in questo momento.
«Ho ho ho, bring a bottle of rum
Ho ho ho, cream and whiskey bourbon
Ho ho ho, bring a bottle of booze
We got nothing to lose, ho ho ho.» Diciamo che non è proprio il massimo, visto che non scandisce molto bene le parole, però riesco comunque a capire il testo.
«Allen!» esclama ad un certo punto, tirandosi a sedere di scatto con gli occhi sgranati, come se le fosse arrivata l'idea del secolo.
«Mh?» bofonchio io, rendendomi conto di essere troppo ubriaco per parlare.
«L'ho trovata!» continua, sempre più felice.
«Cosa?» Continuo a non capire. Cheyenne si mette in ginocchio, e non so se è effettivamente lei a barcollare nel farlo o i miei occhi che la fanno ondeggiare.
«La definizione!»
«Eh?»
Alza un dito e muove la testa al ritmo della canzone. È bella quando è spensierata. Cioè, è bella sempre, ma quando i tormenti la abbandonano lo è ancora di più. Cristo, sono proprio devastato.
«Ho ho ho, it don't get better than this
Ho ho ho, in the land of misfits
Ho ho ho, we're all losin' our legs
We got nothing but this, ho ho ho
Dopo aver cantato mi fissa, ma non capisco dove voglia arrivare.
«Perdonami, Cheyenne, ma credo di essere troppo ubriaco per ragionare.»
Sbuffa e a fatica si tira in piedi, aiutando me a fare lo stesso.
«Misfits, disadattati, Allen!» esclama.
Finalmente capisco a cosa si riferisce. Alzo un sopracciglio. «Siamo due disadattati secondo te?»
Lei si porta una mano sul fianco e schiocca le dita. «La mia famiglia se n'è andata lasciandomi qui e tu hai appena preso a pugni tuo padre, inoltre siamo fottutamente ubriachi il giorno di Natale... non credo sia da persone normali.»
«Teoricamente non è ancora il giorno di Natale» preciso.
«E niente... tu sei pignolo come lo schifo anche da ubriaco, ti detesto, Cristo.»
Scoppio a ridere, forse in modo un po' troppo esagerato rispetto a quello che richiederebbe la sua affermazione.
«Forse hai ragione... siamo due disadattati, e sai che ti dico?» mi avvicino al suo orecchio e sussurro: «Non me ne può fregare di meno!»
«Questo è lo spirito!» esclama Cheyenne, poi ride e mi coinvolge in un ballo sfrenato mentre alla radio passa una canzone spagnola.
Andiamo avanti così, ridendo e scherzando, per non so quanto tempo, forse delle ore intere. Non ricordo l'ultima volta che sono stato così spensierato, ma vorrei che questo momento non finisse mai. Purtroppo, però, come tutte le cose belle deve finire, e di preciso termina quando la sbronza comincia a svanire.
Ho un mal di testa allucinante, e Cheyenne sembra messa più o meno come me.
«Cazzo... non credo che abbiamo bevuto solo mezza bottiglia, giusto?» borbotta, con il piede sposta la bottiglia di vino, vuota sul pavimento.
«Direi di no.»
Lei si alza dal divano sul quale ci stavamo riprendendo e lancia un'occhiata all'orologio appeso alla parete.
«Porca merda!» esclama.
Seguo il suo sguardo e sgrano gli occhi. Segna mezzanotte passata.
«Beh... buon Natale» provo a sdrammatizzare, e devo dire che sembra riuscirmi abbastanza bene, perché Cheyenne ride.
«Buon Natale... ormai credo sia meglio se torni direttamente domani mattina.»
Sorrido sornione. «Puoi dirmelo se vuoi che ti faccia compagnia, non ti servono scuse... dopotutto è questo che fanno i disadattati: compagnia ad altri disadattati.»
Cheyenne mi concede la stupenda e rarissima immagine di lei che arrossisce, non so se per quello che ho detto o se per tutta la storia dei disadattati, ma comunque mi fa sorridere. «Ero proprio ubriaca.»
«Io credo di esserlo ancora, perché sto pensando che sei davvero adorabile quando arrossisci» le dico, e lei sgrana gli occhi. All'inizio sembra ancora più imbarazzata, ma quando si rende conto di quello che ho effettivamente detto mi tira un pugno contro il braccio. Gemo.
«Ehi! Non è carino, mi sa proprio che revocherò la mia offerta di ospitarti!»
Rido e le do un buffetto sul naso. «Sto scherzando, Kate.»
Alza gli occhi al cielo e si incammina verso le scale, facendomi cenno di seguirla. Lo faccio e ci ritroviamo al piano di sopra. Una ringhiera circonda tutto il corridoio, esso forma un semicerchio che si affaccia come una specie di balcone sul salone al piano inferiore.
«Questa casa è incredibile» mi lascio sfuggire, senza nemmeno accorgermene. Cheyenne sospira senza voltarsi e apre una porta in fondo al corridoio.
«Non quando ti trovi segregata qui da sola.»
«Ma tu non sei segregata qui da sola» lei si gira, e io le sorrido.
«Hai ragione... beh, accomodati pure.» Mi sorride, io non me lo faccio ripetere due volte. Inizio a sentirmi stanco. Cheyenne mi porge degli asciugamani, e mi dice che purtroppo non ha alcun vestito pulito da darmi. Le rispondo di non preoccuparsi, ma prima di andarsene sembra esitare sulla soglia. Si volta di nuovo verso di me, che sono seduto sul letto, e sospira. «Allen...»
«Sì?»
«Sei sicuro che vada tutto bene?»
Mi guardo le mani. No, non va bene, ma questo non posso dirglielo, non voglio che si preoccupi inutilmente. Alzo la testa e le sorrido. «Alla grande, Kate, ti ringrazio per tutto.»
«Se hai bisogno di me sono in fondo al corridoio, okay?» Sembra ancora incerta, come se avesse paura che possa esplodere in mille pezzi da un momento all'altro. E detesto questo sguardo. Eppure non riesco a non sentirmi confortato dalle sue attenzioni. Ho passato tutta la vita a prendermi cura degli altri, è bello avere qualcuno che per una volta lo faccia per me.
«Va bene, mamma, se vedo qualche mostro vengo a svegliarti» ghigno, lei alza gli occhi al cielo.
«La vena sarcastica non si prosciuga mai, a quanto vedo.»
Scuoto la testa con un sorriso sornione dipinto in volto. Cheyenne spegne la luce dopo avermi augurato una buona notte, poi sento i suoi passi allontanarsi nel corridoio. Faccio un profondo sospiro e chiudo gli occhi. All'improvviso mi sento stanco, e tutto quello che voglio fare è dormire su questa terribile giornata. Mi levo la maglietta e, anche se contro voglia, decido di tenere i jeans. Il materasso si piega sotto al mio peso, e le coperte mi avvolgono con il loro calore. È questione di secondi, e sto già dormendo come un bambino.
Dopo non so quanto tempo, mi sveglio di soprassalto, urlando un «No!» che si esaurisce dopo un paio di secondi. Sono sudato fradicio, me ne accorgo quando mi strofino il volto con le mani. Non pensavo che questo maledetto incubo sarebbe tornato a farmi visita proprio stasera. Era ricorrente quando i miei genitori stavano divorziando, sogno mio padre che si chiude la porta di casa alle spalle e io che gli chiedo di non andarsene. Non so perché abbia deciso di tornare a galla proprio adesso.
«Allen! Che succede? Stai bene?» Mi ricordo soltanto adesso che non sono da solo. Cheyenne si fionda nella stanza, la maglietta del pigiama tutta storta a lasciarle la spalla sinistra scoperta. Attraverso la fioca luce dell'abat-jour incontro i suoi occhi gonfi di terrore.
«Sto bene» affermo. Non sono in vena di battute, anzi non so proprio come spiegarle quello che è appena successo. Cheyenne, cauta, viene a sedersi sul letto, e mi osserva da sotto le lunghe ciglia.
«Cosa è successo? Era un incubo?»
Annuisco, e il respiro torna regolare.
«Vuoi parlarne?»
«Preferirei di no.»
«Vuoi che resti qui?»
Incastro gli occhi nei suoi, è sinceramente preoccupata, non mi sta prendendo in giro. In risposta le faccio spazio nel letto. Cheyenne sospira e si infila sotto le coperte, osservandomi dubbiosa. Un braccio sotto il cuscino e l'altro piegato di fronte a sé, continua a scrutare il mio volto. In genere sono io che lo faccio con lei, e capisco perché la cosa la metta in soggezione.
«Grazie di tutto, Cheyenne» rompo il silenzio, ma preferisco guardare il soffitto. La situazione è vagamente imbarazzante, non ho mai condiviso qualcosa di così personale con nessuno. Anche se non ne abbiamo apertamente parlato, lei ha assistito a uno dei miei incubi, e non posso negare in alcun modo quello che ha visto.
Senza rispondermi, si allunga su di me e spegne l'abat-jour, poi, per l'ennesima volta, mi coglie totalmente alla sprovvista. Si rannicchia contro il mio corpo e mi poggia la testa sul petto. «Non dirlo neanche per scherzo» sussurra. Con il braccio destro la stringo contro il fianco, chiudo gli occhi e mi concentro sul rumore regolare del suo respiro. I pensieri cominciano a divenire sfocati e confusi, e con Cheyenne vicino riesco finalmente a cadere in un sonno senza incubi.

Ciao fiori di campo! 🌻

Un aggiornamento davvero davvero tardi ahahah... è l'una e mezza e domani ho scuola, quindi sarò breve...

Il capitolo è tipo lunghissimo, 7000 parole ragazzi, spero sia il primo e l'ultimo ahahah. Non mi va di dividerlo, quindi ve lo lascio così, tanto lo so che più è lungo più siete contenti ❤️
(Madonna i doppi sensi lol)

Okay basta, sto svalvolando ahah

Cosa ne pensate del capitolo?
I nostri Chellen?

Una domanda importante... cosa ne pensate del padre di Allen?

Io vi saluto perché mi si stanno letteralmente chiudendo gli occhi...

Vi amo 💗

Al prossimo capitolo! 🔜

-A

Misfits - DisadattatiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora