Questioni di debiti.

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Erano le sei di sera passate, il sole stava già calando nonostante fossimo a metà maggio ma sinceramente non era una novità per gli abitanti di Midland, Texas. La nostra era una cittadina così piccola da non essere nemmeno segnata in tutte le cartine, le persone ci definivano gente di campagna. E tutto perchè le nostre case erano circondate da campi e il centro era composto da un ospedale, una scuola, qualche locale e un paio di ristoranti.
Ero distesa sul mio letto da più di un'ora con gli auricolari alle orecchie. Aspettavo mio padre, stava ritardando più del solito quel giorno ma non mi preoccupai, del resto lavorava dall'altra parte della città. La porta della mia camera si aprì e di colpo entrò Natasha, la mia migliore amica. I capelli neri, mossi lunghi fino alle spalle, gli occhi a mandorla marroni e un corpo fantastico dalla carnagione olivastra facevano di lei una delle più belle ragazze della città.
"Come sei entrata?" chiesi lasciando cadere gli auricolari sul letto dopo averli sfilati. Lei sorrise sedendosi accanto a me.
"Tua sorella mi ha fatto entrare" disse indicando la porta.
"Che ci fai qui?" corrugai la fronte. Notai un velo di sorpresa nei suoi occhi ma anche di tranquillità, avevo quella tremenda mania di essere fredda e diretta - decisamente troppo - anche con le persone a me più care. Natasha si strinse nelle spalle giocherellando con i lacci dei pantaloni da basket blu che portava quella sera
"Sai, ho lasciato Oliver oggi" disse abbassando lo sguardo.
"Oh, mi dispiace, Nat" risposi. Oliver era il suo ragazzo da qualche mese, sembrava stessero bene insieme e per quanto sapessi che lei non fosse una ragazza da storie sentimentali durature, beh, speravo fosse la volta buona.
"Ehi, sono stata io a lasciarlo" esclamò. Ridacchiammo cercando di sorridere della cosa. Aveva quella pessima abitudine di far finta di stare bene anche quando moriva dentro.
"E con Dylan?" chiese. Dylan era il mio ragazzo, stavamo insieme da due anni ormai, con lui avevo condiviso tutto ma non ero ancora sicura di amarlo mentre lui pareva adorare chiamarmi con teneri soprannomi da piccioncini innamorati.
"Il solito" scrollai le spalle indifferente. Lei fece una smorfia.
"E' sempre il solito" osservò roteando gli occhi. La guardai storto, diceva sempre che Dylan non era quello giusto ma non le davo ragione insomma, non potevo mandare tutto a monte solo perchè non sentivo le monotone farfalle nello stomaco.
"Siamo una coppia stabile, d'accordo?" protestai alzandomi dal letto.
"Se lo dici tu"  alzò le mani in segno di resa. Sapeva quanto odiassi parlare del mio rapporto con lui, perchè nemmeno io lo sapevo ancora definire. Sapevo che non mi credeva ma non m'importava, non le avrei fatto in alcun modo cambiare idea.
"C'è una festa a casa di Alan questa sera, ci andiamo?" chiese cambiando - fortunatamente - argomento.
"Ingresso libero?"
"Certo e inoltre Alan è il capitano della squadra di football della scuola e promette di portare tutti i suoi amici" sorrisi. Quel dettaglio era evidente che interessasse solo a lei.
"Vuoi fermarti qui per cena?" si guardò l'orologio bianco che teneva al polso prima di tornare a guardarmi, sorrise ma negò con la testa.
"Devo aiutare mia madre in negozio, passo a prenderti con l'auto di mio fratello alle nove" disse raggiungendo la porta. Deglutii, l'ultima volta che aveva guidato l'auto di suo fratello era finita in ospedale con tre vertebre rotte.
"Ehi, tranquilla. Guida lui" mi strizzò l'occhio e le sorrisi, forse non saremmo morte allora. Scendemmo le scale e la sicura della porta scoccò due volte, mio padre era tornato. Non appena entrò corsi ad abbracciarlo.
"Ehi, tesoro" mi baciò la fronte. "Oh, ciao Natasha" aggiunse dandole un' occhiata. Lei non era solo la mia migliore amica ma anche una terza figlia per mio padre.
Dalle scale arrivò Shila, mia sorella. Aveva sette anni e ogni volta che guardavo i suoi occhi verdi rivedevo nostra madre. Se n'era andata quattro anni prima e forse Shila, non se la ricordava nemmeno. Mio padre la prese fra le braccia e la riempì di baci come faceva con me quand'ero piccola.
"Hai fatto tardi" osservai poggiandomi con la schiena allo stipite della porta della cucina.
"Domani andrò a cercare altro lavoro" era l'ennesima volta che glielo sentivo dire in quel mese, sembrava quasi che tutti i lavori fruttassero sempre  troppo poco per lui. "C'è di meglio qui. E poi, non voglio lasciarvi tutto il giorno a casa da sole" sapevo che stava mentendo ma rimasi zitta. Mio padre parlò per una decina di minuti con Natasha, io non interfierii, stavano discutendo della possibilità di andare al college. A me non interessava, non ci sarei andata comunque. Non avevamo mai avuto molti soldi nonostante vivessimo in una bella casa e dopo la morte di mia madre le cose non migliorarono, affatto.
Natasha se ne andò ed io misi la pentola dell'acqua sul fuoco in attesa che mio padre facesse la solita doccia di ogni sera una volta finito il lavoro. Mi chiedevo di continuo se mio padre non mi tenesse nascosto qualcosa, sembrava sempre turbato quando facevo delle osservazioni su ritardi o cose del genere, sembrava fare di tutto per non intrattenere una conversazione troppo lunga con me. Mangiai in silenzio accompagnata dai miei pensieri, di tanto in tanto avvertivo le risate di Shila magari per una battuta di papà ma nient'altro, del resto le chiedeva da quattro anni le solite cose, com'è andata a scuola? E al parco, ti sei divertita? Da quanto mamma se n'era andata la nostra vita era diventata più grigia, più spenta di prima.
Salii le scale fino alla mia camera non appena finii di sparecchiare, mi affrettai ad andare sotto la doccia, forse lì la mia mente sarebbe stata sgombra da qualche pensiero che mi affossava il cervello. Eppure, anche lì la mia mente non faceva altro che pensare a mio padre, premetti con rabbia la spugna contro il vetro della doccia serrando gli occhi, perchè aveva dei segreti con me, con sua figlia, con quella ragazza che all'età di quattordici anni aveva perso la madre a aveva sofferto tanto quanto - e forse di più- di lui? Uscii dalla doccia e mi asciugai il corpo in un piccolo asciugamano di cotone bianco. Aprii l'armadio e presi degli shorts di jeans scuri ed una canotta rossa, contornai gli occhi di una sottile riga nera, riempii le ciglia di mascara e resi le labbra lucide, allacciai il gancetto delle scarpe nere dai tacchi vertiginosi che mi aveva regalato Natasha per il mio compleanno, mi asciugai i capelli e li lasciai cadere lungo la schiena, lisci. Mi guardai un'ultima volta allo specchio ed uscii raggiungendo il salotto. Mio padre mi osservò, incurvando le labbra all'insù.
"Non fare tardi, piccolina" alzai gli occhi al cielo e mi feci lasciare il suo solito bacio sulla guancia che mi dava ogni volta uscisse di casa quasi avesse paura di perdermi da un momento all'altro.
"Ti vogliamo bene" disse Shila, sorrisi e le accarezzai a capelli.
"Anche io" annuii e mi diressi finalmente, alla porta d'ingresso.
La macchina del fratello di Natasha, Albert era già parcheggiata davanti al cancelletto di casa, aprii lo sportello e mi salutò con un cenno del capo. Andai accanto a Natasha che come sempre era bellissima anche quella volta, capelli mossi raccolti in un'alta coda di cavallo, top bianco e minigonna di jeans accompagnata da tacchi a spillo dello stesso color terra dei suoi occhi.
"Risolto?" chiese.
"A che ti riferisci?" corrugai la fronte portando una mano a reggermi il capo.
"A tuo padre, credi che ti tenga nascosto qualcosa?" chiese abbassando la voce, sospirai.
"Forse si, quasi sicuramente" le sue pupille si dilatarono e le sue labbra si dischiusero.
"E non sei curiosa di sapere?"  alzai le spalle, no non lo ero.
"Onestamente ho paura di sapere. Non sono certa di voler conoscere la verità" ammisi. Natasha arricciò il naso e incrociò le braccia al petto.
"Non essere codarda, la paura è.."
"E' la peggior nemica, lo so!" esclamai. "Ma non voglio rovinare tutto. E non usare i proverbi di tua madre con me" dissi puntandole l'indice contro. Sua madre era una cantomante e aveva un negozio di tarocchi e cose varie, qualcosa che avesse a che fare con psiche avevo intuito, da quel che mi raccontava Natasha.
"D'accordo, hai vinto" alzò le braccia in aria ridacchiando. Vincevo sempre, modestamente.
Arrivammo a casa di Alan, era una villa immensa e credo sinceramente che lui fosse tra i ragazzi più ricchi in quella nostra piccola città. La musica si sentiva dalla strada principale e non appena svoltammo l'angolo decine di ragazzi presero spazio nel mio campo visivo. Ballavano tutti. Il cellulare mi vibrò nella tasca dei pantaloni e così lo presi
Un messaggio, Dylan.

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