Affronta la paura e distruggila.

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"Tesoro, fai la brava mi raccomando" alzai gli occhi al cielo sotto lo sguardo sereno di mio padre, era la prima volta che mi portava a scuola lui, dopo la morte di mia madre.
Sorrisi sentendo le sue calde labbra posarmisi sulla fronte.
"Andrà tutto bene, sono grande ormai" risposi, lui ridacchiò.
"Avere quattordici anni non significa essere poi così grandi, Ariel" osservò. Corrugai la fronte contrariata, io ero grande e forte.
Se non lo fossi stata come avrei affrontato la morte di mia madre?
"Comunque fra qualche mese compirò quindici anni" puntualizzai. Il suo sguardo s'incupì sotto un falso sorriso.
Ops, mia madre e mio padre si erano conosciuti quando avevano quindici anni. Deglutii mortificata e lo strinsi in un abbraccio.
"Dovresti andare o arriverai in ritardo" mi sussurrò fra i capelli, sospirai ed annuii.
"Si, ci vediamo dopo" guardai Shila con la coda dell'occhio, avrebbe compiuto tre anni la settimana seguente. Giocava con la sua bambola preferita nel sedile posteriore dell'auto in attesa che mio padre la portasse all'asilo. Le baciai la fronte e me ne andai, imboccando la porta d'ingresso della mia scuola.


"Papà!" gridai.
Mi svegliai con il cuore che pulsava, il respiro affannoso e i capelli incollati alla fronte sudata. Chiusi gli occhi di scatto cercando di non pensare a lui ma non appena tornò tutto nero nella mia mente, il suo viso si fece spazio nell'oscurità costringendomi a sollevare nuovamente le palpebre.
Non è successo niente, mi ripetevo.
Ma non era vero, lui era lì e mi guardava con i suoi occhi verdi, mi odiava per quello che stavo diventando o per meglio dire per quello che avevo scelto di diventare.
Un'assassina, una come quei ragazzi che l'avevano ammazzato.
Iniziai a guardarmi intorno cercando di convincermi di essere al sicuro ma in quella situazione, appariva come una presa in giro a me stessa.
Le pareti odoravano di muffa e sapevo che probabilmente mi sarei presto ammalata in quella fredda stanza. Spostai i capelli dagli occhi e guardai l'ora nella sveglia del piccolo comodino in legno accanto al letto.
Le quattro del mattino passate da qualche minuto, tre per la precisione. Non mi restava molto tempo in quella stanza, alle cinque mi sarei dovuta presentare in salotto pronta per l'allenamento.
Portai i piedi a contatto con il pavimento anch'esso in legno, feci pressione nelle gambe infreddolite e mi alzai. Entrai nel bagno aprendo il rubinetto della doccia e in fretta mi spogliai, avevo bisogno di dimenticare.
L'acqua fredda mi fece gemere, non voleva scaldarsi e capii che evidentemente i ragazzi non disponevano di acqua calda. Mi lavai in fretta e non appena uscii mi avvolsi in un asciugamano colorato probabilmente di cotone posto sopra il lavabo.
Indossai l'intimo nero, i leggings del giorno precedente ed una maglietta a maniche corte gialla, presente nel sacchetto di vestiti portatomi da Justin.
Mi guardai allo specchio, ero un disastro per ciò che ero abituata.
Le occhiaie più marcate del solito nonostante avessi dormito abbastanza, le labbra secche, le gote arrossate e i capelli scompigliati. Mi passai le dita fra essi sperando di sistemarli quanto più possibile e in parte vi riuscii, passai la lingua sulle labbra sperando di inumidirle e mi accorsi di essere a corto di liquidi, un forte senso di sete iniziò ad invadermi.
Infilai i calzini ed aprii la porta dirigendomi in cucina.
Non appena svoltai l'angolo incontrai Justin.
Indossava una canotta verde scuro e dei pantaloncini da bascket neri estremamente bassi.
I ragazzi se n'erano andati durante la notte, Nathan era passato a controllare se dormivo e con gli occhi socchiusi lo avevo osservato mentre mi guardava per pochi secondi prima di andarsene.
Justin si accorse di me e mi guardò squadrandomi da capo a piedi.
"Buongiorno" disse senza far trasparire alcuna emozione dal volto. Feci un cenno con il capo avvicinandomi.
"Non so com'eri abituata a casa tua, principessina" disse attirando la mia attenzione. "Ma qui non abbiamo servi o cose del genere" aggiunse. Era una mia impressione o mi aveva dato della bambina viziata?
"Sai, nemmeno a Midland avevo dei camerieri se può interessarti" dissi acida prendendo una tazza pulita dal piano di lavoro di marmo accanto ai fornelli.
"Beh, lì c'è del caffè e.. mh, dovrebbe esserci del tacchino avanzato da David" corrugai la fronte guardandolo. Alzò un sopracciglio bevendo un sorso di caffè dalla sua tazza. "Che c'è?" chiese alzando le spalle.
Alzai gli occhi al cielo.
"Ci sono delle uova?" chiesi, annuì indicandomi il frigo. Lo aprii e presi due uova, portai la padella sul fuoco e lasciai che il loro interno scivolasse sulla superficie calda.
Non avrei mangiato del pane avariato, tacchino e del caffè, mai.
Avevo deciso di fare delle uova strapazzate e chissà, magari con un po' di fortuna ci sarebbe stato del bacon.
"Domani mattina andremo a fare colazione al bar" disse Justin alzando una mano nella mia direzione.
"No, ti prego, non vorrei mai che mi viziassi" risposi sarcastica tornando a sbattere le uova nella padella.
Justin mi sorpassò avvicinandosi al frigorifero, prese un pacchetto confezionato e lo alzò nella mia direzione.
"Bacon?" sorrisi soddisfatta ed annuii prendendolo.
Cucinai anche quello e lo divisi su due diversi piccoli piatti bianchi, presi due forchette e gliene porsi una prima di distribuire equamente l'uovo.
Non so se mi abbia ringraziato, onestamente mugugnò qualcosa ma non sono certa fosse riferito direttamente a me. Iniziò a mangiare in silenzio.
"Sai cucinare, quindi" disse mandando giù l'ennesimo boccone, annuii in silenzio. "A Midland insegnano a cucinare?" domandò. Lo guardai stranita, pareva che la mia città fosse un pianeta alieno per lui abituato probabilmente a New York.
"No, mio padre mi preparava sempre uova e bacon per colazione" mi incupii nominandolo ma avevo utilizzato il tempo corretto, il passato.
Lui non l'avrebbe più fatto, lui non c'era più.
Justin notò il mio cambiamento di umore repentino e prese parola.
"Il mio no" disse spostando lo sguardo altrove come a voler evitare il mio. "Mia madre preparava sempre i biscotti, come se dovessimo differenziarci dagli Statunitensi" inclinai la testa verso destra curiosa. Avrei voluto chiedergli molto, m'incuriosiva parecchio. Ma chi ero per farlo?
"Non sei Statunitense, tu?" domandai ovvia.
"Non dirlo mai a mia madre" ridacchiò. "Canadese, di Stratford anche se non ricordo granchè di quel posto" si rabbuiò di colpo e i suoi occhi si fecero più scuri.
Un brivido mi percorse la schiena.
Capii che l'argomento stava diventando pesante e fastidioso per lui, evidentemente non aveva senso anche per lui che io sapessi della sua vita.
Si alzò mettendo da lavare il piccolo piatto nel lavello, abbassò di poco i pantaloni - quasi ce ne fosse stato il bisogno - e si diresse in salotto, senza dire nulla.
Justin era un ragazzo particolare, mi incuriosiva. Pareva essere il re del mondo dai suoi atteggiamenti ma non so perchè, sentivo che in realtà non era tutto raccontato in quella figura apparente che dava.
In lui c'era di più, i suoi occhi nascondevano misteri su misteri e segreti su segreti, ma non sarei stata di certo io quella che li avrebbe svelati, ne ero certa.
Tornò in cucina risvegliandomi dai miei pensieri, rabbrividii quando notai tenesse una pistola fra le mani, se la mise dentro i pantaloni tenendola salda con l'elastico presente in essi.
"Vieni, è ora di andare" disse senza guardarmi. Mi alzai mentre prendeva delle chiavi dalla credenza e mi guardai i piedi, ero in calzini.
"E come?" chiesi. Mi squadrò e solo allora notò che non portavo delle scarpe. Si guardò intorno per un po' pensando, corse dentro la sua camera e in fretta tornò in cucina, teneva fra le mani delle scarpe da ginnastica, maschili.
"Non sono il massimo, lo so" disse posandole a terra. Accennai ad un sorriso. "Andremo a prendertene un paio" aggiunse aprendo la porta e dandomi giusto il tempo di infilarle prima di uscire e scendere velocemente i piani infiniti di scale.
Raggiungemmo il portone principale d'acciaio del palazzo, parcheggiata sul ciglio della strada c'era ancora la sua macchina, la solita Range Rover nera, aprì lo sportello ed entrò seguito subito da me.
Avviò il motore ed iniziò a sfrecciare sull'asfalto verso una destinazione a me sconosciuta ma che di certo mi avrebbe portato a qualcosa, qualcosa di grande e che -onestamente - mi spaventava.
"Guarda nel cruscotto" disse d'un tratto rompendo il silenzio. Feci come mi era stato detto e vi trovai una pistola, la sfiorai con le dita e rabbrividii. "E' tua, prendila" spiegò.
L'afferrai osservandola da tutte le angolature possibili, il metallo era freddo contro la mia pelle, evidentemente non era stata usata per un po' o era addirittura nuova.
"E così sai sparare?" domandò passandosi incuriosito la lingua sulle labbra. Forse lo pensava avendo sentito che avevo colpito Franc, la sera del rapimento.
"Non so sparare" non ero un'assassina. "E' stata pura fortuna" mi strinsi nelle spalle senza smettere di guardare la strada davanti a me.
Lui ridacchiò.
"Mi sembrava impossibile che una come te sapesse sparare" azzardò cambiando strada. Corrugai la fronte.
"Che vorrebbe dire?" lo sapevo in realtà, ma se me lo avesse detto lui mi avrebbe fatto di sicuro un altro effetto.
"Non offenderti, principessina ma nessuno avrebbe mai paura di te" disse. Strinsi le labbra, sempre la solita storia.
Non potevo essere considerata la ragazza che sapeva farsi valere solo perchè non ero una dura apparentemente, solo perchè sorridevo a tutti, solo perchè avevo gli occhi come azzurri come le santarelline insomma, non potevo per gli altri farmi rispettare. Ero solo una sottomessa e tutto ciò mi irritava, troppo.
"Non chiamarmi principessina, chiaro?" era più un'affermazione che una richiesta ma non mi pentii della cosa.
"Sai, è suonata come una minaccia" osservò guardandomi con la coda dell'occhio. Sorrisi soddisfatta.
Volevo suonasse come una minaccia, volevo capisse che non ero solo la ragazza indifesa senza forze.
"Oh, lo è" ridacchiò alzando le mani in segno di resa, non ero poi così scontroso, a volte. Parve quasi.. umano (?) si, umano è il termine corretto.
Ma quella nebbia, nuvola di foschia grigia non se n'era andata dai suoi occhi, ero certa significasse qualcosa, forse era passare troppo tempo ad uccidere che la faceva comparire.
"Come preferisci, principessina" ma era davvero irritante come persona. Alzai gli occhi al cielo. "Ad ogni modo non credo dovresti preoccuparti di riuscire troppo bene" disse cambiando argomento e anche tono vocale. "A Tomas piaci parecchio" concluse entrando in un parcheggio davanti ad uno stabile.
"Così pare ma onestamente, non ne vedo il motivo" ammisi. Era la verità, sembrava piacessi tanto a Tomas ma non avevo fatto nulla di eclatante per farmi piacere, io teoricamente ero solo un ostaggio e forse, una futura recluta.
"Hai colpito Franc, credo sia per questo" disse Justin scendendo dall'auto. Non risposi, mi limitai ad aprire lo sportello e a raggiungerlo notando si fosse già incamminato verso l'ingresso dello stabile.
Appariva come un capannone abbandonato o qualcosa del genere, di certo non attirava le persone ad andarci.
Justin aprì la porta con un colpo della spalla ed iniziò a camminare.
Non c'erano rampre di scale scale o cose del genere, un piccolo corridoio anticipato sulla sinistra da due porte, affiancate, e uno spiazzo immenso che riempiva il tutto.
Al centro si ergeva un ring da lotta, non molto grande ma non ne avevo mai visto uno prima e quello, mi parve maestoso. Ai lati erano posizionati dei sacchi da boxe, al muri appesi dei bersagli e delle figure nere incollate nel cemento freddo, inquietante.
Sulla sinistra, quasi in disparte e particolarmente vicino alla prima porta c'era una vasca trasparente,con qualche macchia di polvere e aloni ma con l'interno ben visibile e posso dire che quell'acqua fosse stata alta almeno tre metri.
"Allora, iniziamo con le basi" Justin attirò la mia attenzione sfiorandomi la spalla con la sua per sorpassarmi, si avvicinò ai bersagli appesi al muro ed aspettò che lo raggiungessi.
Mi prese la pistola dalle mani e la caricò con dei proiettili presi dalle tasche dei pantaloni prima di ripormela, quell'arma pareva essere divenuta letale in quell'istante ai miei occhi.
Mi convinsi a prenderla e sentii una scossa attraversarmi non appena la ripresi, carica.
"Allora, fammi vedere di cosa sei capace" disse infilandosi le mani nelle tasche facendo passare lo sguardo da me ai bersagli più volte in successione.
Deglutii costringendomi ad annuire.
Alzai la pistola a mezz'aria sotto il suo sguardo.
La mano che la impugnava tremava, il dito a pochi millimetri dal grilletto non stava fermo un secondo e aveva quasi iniziato a formicolare. Guardai il bersaglio chiudendo l'occhio destro per prendere la mira.
Mi morsi il labbro e premetti il grilletto.
Avevo appena sparato.
Il rumore fece eco rimbalzando fra i muri.
Aprii gli occhi solo dopo essermi assicurata che il rumore dello sparo si fosse completamente attenuato fra le pareti.
Avevo mancato il centro del bersaglio di qualche centimetro, ad occhio una decina.
"Non male per essere la tua prima volta, principessina" disse Justin sorridendomi. Cercai di ricambiare ma mi riuscì male, non riuscivo a sorridere dopo aver sparato.
Guardai la pistola fra le mie mani, il metallo stava iniziando a scaldarsi e fu come se stesse trasferendo il suo calore al mio corpo.
"Il gioco è questo: colpisci più bersagli possibili in un minuto" disse lui. Annuii sospirando.
Alzai la pistola e non appena lo notai premere il conta-tempo del cronometro che portava al collo, sparai.
Uno, due, tre colpi. Una pausa di silenzio, il tempo di tornare a respirare e di nuovo, uno, due, tre. Ne mancai due ma non sarei tornata indietro e continuai. Raggiunsi quota dieci quando il tempo si fermò.
Avevo il respiro accelerato e non perchè avessi fatto fatica fisicamente ma perchè non credevo che a livello psicologico fosse così dura.
"Adesso ci divertiamo" disse Justin in un ghigno avvicinandosi alle sagome di cartone nero appeso alle pareti. "Credo tu abbia intuito che se diventerai una di noi a tutti gli effetti prima o poi dovrai uccidere qualcuno perciò, iniziamo da subito" disse.
Avrei ucciso, lo avevo immaginato ma sentirlo dire dava un altro sapore alla frase.
Deglutii senza muovermi.
"Spara" ordinò.
Guardai la sagoma di cartone a forma di uomo, abbastanza alta e magra, come mio padre.
Un brivido mi percorse e non appena alzai la pistola nella direzione di quella maledetta sagoma, vidi il volto di mio padre.
Lasciai cadere a terra la pistola sotto lo sguardo confuso di Justin.
Le mani tremavano, le gambe anche, mi lasciai cadere a terra tenendomi le mani fra i capelli, gli occhi colmi di lacrime di colpo e un solo pensiero, stavo sparando a mio padre.
Ero un mostro.
"Papà!" gemetti in un urlo di disperazione.
Justin si abbassò alla mia altezza sfiorandomi la spalla con le dita quasi a volermi dire di smettere, di stare tranquilla.
"La prima cosa che ti insegnerò è proprio questa" sussurrò ad un nulla dal mio orecchio. "Non piangere mai, non farti vedere debole da nessuno" aggiunse.
Come? Come potevo non piangere, avevo sparato a mio padre, a lui!
"Io non sono forte" lo ammisi io, mi resi conto di essere debole, di avere paura. "Non sono fatta per questa vita" pareva evidente ma lo ammisi senza problemi, io non ero quella.
Stavo diventando un'assassina, un mostro.
Una come quelli che avevano ucciso mio padre e come quelli che presto avrebbero ucciso Natasha.
Ariel Wilson era la ragazza da pizza e film il sabato sera, da chiesa la domenica mattina, da scuola dal lunedì al venerdì e da piscina d'estate.
Non ero un'assassina.
"Nessuno è fatto per questa vita all'inizio. E' una questione di tempo e di abitudine, sta tutto qui dentro" premette un paio di colpi l'indice contro la mia tempia destra senza mai lasciare il tono serio da lui adottato. "Non lasciare alla paura di comandarti, affrontala e distruggila" disse duro.
Sembrava una regola che lui conosceva bene, una legge di quel posto.
Se vuoi sopravvivere, uccidi.
"E come?" lasciai che un'altra lacrima mi rigasse la guancia davanti a quegli occhi color nocciola che scrutavano i miei. "Come posso dimenticare mio padre, come?" chiesi disperata.
"Non posso farti dimenticare tuo padre, solo tu sai come affrontare la cosa" mi passai il palmo della mano sugli occhi cercando di resistere, di farmi coraggio.
Mi pentivo di essermi fatta vedere debole da lui.
Da un assassino.
Dovevo essere forte, non potevo abbandonarmi o Tomas non sarebbe più stato interessato a me e mi avrebbe ammazzato.
"Ma io ti farò diventare il secondo miglior uomo di Tomas" concluse.
Parve una promessa che si era fatto a se stesso. Corrugai la fronte incrociando i suoi occhi. Erano freddi e decisi, come sempre.
"Secondo?" domandai.
Justin annuì tornando in piedi.
"Il primo sono io" mi fece l'occhiolino accompagnandolo con un furbo sorriso impresso sul volto.
Riuscii a sorridere, era strano credere che un ragazzo come lui nonostante la crisi appena avuta da parte mia fosse riuscito a strapparmi un sorriso ma non avevo mai negato di aver visto qualcosa di curioso e misterioso in lui, sin dall'inizio.
Presi fiato, mi alzai raggiungendo la pistola a terra a circa un metro da me, la guardai e Justin con me.
"Lei sarà la tua migliore amica d'ora in poi" disse indicando la pistola. Deglutii.
Migliore amica di un'arma da guerra, che storia.
"Forza, dolcezza" Justin attirò la mia attenzione passandomi un dito lungo la colonna vertebrale con il dito indice della mano sinistra, con quelle dita lunghe ed affusolate che mi fecero rabbrividire. "Spara" disse guardandomi negli occhi.
Mi persi un attimo a contemplarli, quelle iridi nocciola che mi guardavano, quella vena più scura e allo stesso tempo quelle striature verdognole accanto alla pupilla.
Mi passai la lingua sulle labbra e presi fiato.
Spara, Ariel. Spara.
Puntai la pistola contro la sagoma, chiusi gli occhi un secondo.
Sii forte, spara.
Premetti il grilletto, finalmente, il proiettile andò a conficcarsi sulla guancia sinistra del viso della sagoma, Justin mi fece un cenno con il capo soddisfatto.
"Questo pomeriggio torneremo, questo era solo un assaggio per farti capire a cosa andrai incontro" disse prendendomi la pistola dalle mani.
Allungò le braccia verso il mio bacino facendomi trattenere il respiro.
Prese con le dita l'elastico dei leggings allargandoli e mettendomi dentro la pistola, mi guardò incuriosito mentre io, senza respirare, lo fissavo, immobile. Osservando ogni suo gesto.
Ridacchiò lasciandomi andare non appena la stabilizzò fissata nell'elastico e tornò a qualche passo da me.
Ripresi solo allora a respirare.
"Mercoledì mattina ho una missione, niente di complicato per me ma dovrai venire anche tu ora che sei in mia custodia" disse.
Oh no, mercoledì sarebbe stato dopo pochissimo tempo, era già lunedì. La prima missione, la prima guerra.
"Non servirà fare altro se non sparare e direi che sei capace, no?" mi sforzai di annuire sotto il suo sguardo interrogatore.
Fece scontrare i palmi delle mani battendole fra di loro.
"Andiamo a fare compere ora" lo guardai incuriosita.
"Compere?" chiesi seguendolo fino alla porta.
"Direi che ti servono delle scarpe e dei vestiti, non trovi?" mi guardai da capo e piedi ed annuii, eccome se ne avevo bisogno, ero un piccolo disastro.
Uscimmo dallo stabile e per tutto il viaggio in macchina mi guardai le mani, quelle mani avevano appena sparato con una pistola.
Quelle mani sarebbero state la causa di chissà quante vittime.

"Ehi, sai dov'è l'aula di musica?" una ragazza dai capelli neri, raccolti mi si avvicinò scrutandomi con dolci occhi marroni.
"E' la mia classe, tranquilla. Ti ci porto io" dissi sorridendo. Mi tese la mano.
"Sono Natasha" sorrise, sembrava dolce.
"Ariel" la strinsi sentendo le sue esili dita intrecciarsi alle mie.
"Sai.." abbassò lo sguardo arrossendo appena. ".. ho l'impressione che diventeremo grandi amiche" sorrisi e l'abbracciai.
"Anche io"
 

Rabbrividii al ricordo. Avevamo solo dieci anni quando ci eravamo conosciute, quel lunedì di settembre, il primo giorno di scuola. Lei era nuova, veniva dall'Ecuador e con quel suo accento sud americano mi aveva conquistata subito. E infatti, si era rivelata una persona speciale.
Era, lei non ci sarebbe più stata per me.
"Basta pensare a lei" la voce di Justin mi fece sussultare. Come faceva a saperlo?
"Come hai fatto?" deglutii. Avevo la voce che tremava, impunita.
"Te lo si legge in faccia che stai pensando o a tuo padre o a quella tua amica, ho optato per la seconda" alzò le spalle girando il volante ed imboccando una strada secondaria. "Non pensarci più, lo dico per te. Starai meglio, ormai non puoi più fare niente"
Già, ormai il loro destino era scritto ed io non lo potevo cambiare, annuii sospirando quando la sua macchina a distanza di pochi minuti si fermò nel parcheggio di un centro commerciale.  

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