Sicurezze.

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Mi svegliai frastornata dalla luce invadente che entrava dalla finestra. Il letto era duro e scomodo, avvertivo le vertebre della schiena doloranti ma nonostante ciò il mio sonno era durato tutta la notte. Justin sembrava spaventato all'idea di dover dormire con me inizialmente, mi diede le spalle e si addormentò senza fiatare.

Mi lasciò senza parole per un po' quel suo comportamento ma in effetti, non stavamo insieme quindi, che diritto avevo di pretendere di più? Non lo avevo e basta.
"Ariel" la voce calda e impastata dal sonno di Justin attirò la mia attenzione. "Chiudi la finestra" mugugnò coprendosi gli occhi con parte del lenzuolo.
Ridacchiai. Gentiluomo, eh.
Raggiunsi la finestra dalle rele semi aperte e tirai il cordino di stoffa fino a rendere la stanza completamente buia. Tornai al letto a tentoni andando a sbattere con il ginocchio contro il piccolo comodino accanto.
Lasciai che la testa scivolasse sopra il cuscino, osservai Justin. I capelli scompigliati sparsi sopra la fronte, le guancie rossastre per via del caldo eccessivo in quella stanza, le labbra secche e collose. Era però comunque bellissimo, ve lo assicuro.
Lo schermo del mio cellulare posto sopra il piccolo tavolino accanto alla mia parte del letto s'illuminò. Mi passai una mano sugli occhi ed aprii la casella dei messaggi.

Da Nathan:
Buongiorno, bella vita! Dì all'idiota del tuo ragazzo di accendere quello stupido cellulare, l'ho chiamato cinque volte e mi ha sempre risposto la segreteria.
Mi mordicchiai il labbro, il tuo ragazzo.

A Nathan:
Buongiorno, idioti! Primo non è il mio ragazzo e secondo, forse non ti ha risposto perchè non ti sopporta.

Ridacchiai riponendolo con attenzione sulla superficie bianca. Justin non si era mosso di un solo millimetro ma quando tornai a guardarlo i suoi occhi erano socchiusi nella mia direzione.
"Chi era?"
"Nathan" scrollai le spalle. Justin corrugò la fronte. "Non mi credi?"
"Sono geloso delle mie cose" rabbrividii a quelle parole ma allo stesso tempo m'innervosii. Non ero un oggetto, non appartenevo a nessuno e per quando il mio sentimento per Justin fosse forte e complesso non volevo essere posseduta, nemmeno da lui.
"Non ti appartengo" dissi dura.
"Tigre" si avvicinò al mio volto inclinando la testa verso destra. "Indirettamente, sei mia. In caso contrario non mi lasceresti fare questo" mi lasciò senza fiato quando mi baciò dolcemente.
Chiusi gli occhi sentendo ogni muscolo rilassarsi.
Justin si distaccò soddisfatto.
"Non puoi baciarmi a tuo piacimento" sorrise. Invece poteva, ero troppo debole per rinnegarlo e comunque indirettamente anche io desideravo sentire quel magico contatto con lui.
Si lasciò andare nuovamente al cuscino chiudendo gli occhi assonnati, sospirai mordicchiandomi il labbro, perchè doveva essere così sexy anche in occasioni del genere?
Il cellulare s'illuminò nuovamente attirando la mia attenzione.

Da Nathan:
Perdonami, dolcezza ma io e David ormai vi consideriamo i piccioncini di casa.. comunque, David ti saluta. Usa bene quest'informazione. Ci vediamo, piccioncini ;)

Usare bene quell'informazione, e come?
"Era ancora Nathan?" Justin attirò la mia attenzione non appena lasciai che il cellulare tornasse al suo posto, attirandomi al suo corpo con un braccio.
"Si, dovresti rispondergli al telefono" alzò gli occhi al cielo.
"Non voglio sentire quei due rompiscatole anche qui" affermò lasciandosi andare ad una risatina.
Usa bene quest'informazione.
"Oh, David è stato piuttosto carino" iniziai a giocherellare con il lembo della sua maglietta. "Dice di non vedere l'ora di vedermi e che pensa di invitarmi fuori a cena per il mio compleanno" mi mordicchiai il labbro alzando appena lo sguardo sui suoi occhi.
Era serio, quasi confuso, le labbra dischiuse ad ascoltarmi assorto quasi sperasse le mie parole fossero un'allucinazione. Ridacchiai mentalmente, Nathan era un genio.
"Oh, a cena.. che cosa banale" scostò il braccio dal mio corpo portandosi le mani dietro la nuca. "Dovrebbe essere meno banale per sperare di fare colpo su di te" aggiunse roteando gli occhi.
Cristo, Nathan sei un genio.
Era verde dalla gelosia.
"Sai, io apprezzo molto invece. Lo trovo un gesto romantico" portai il peso sul gomito alzando gli occhi al soffitto con aria sognante.
"E non trovi un gesto romantico portarti al mare, ovvio".
Lui mi aveva portata al mare. "O rischiare la vita pur di non metterti nei guai con Tomas, questa sì che è una cosa banale" lui aveva rischiato la vita per non perdere la mia custodia.
Gli portai le mani al petto facendovi pressione, portai la testa nell'incavo del suo collo e ci soffiai sopra con le labbra.
"Sei forse geloso, Justin?" lo stuzzicai passandogli l'unghia dell'indice sul braccio levigato.
"E di cosa? Certo che no. Tu e David state proprio bene assieme" ridacchiai avvicinando le labbra al suo orecchio.
"Stavo scherzando. Mi sono inventata tutto, non mi ha detto che mi porterà a cena fuori" sussurrai. "E inoltre, il mio compleanno è stato il mese scorso".
Gli occhi di Justin rotearono lentamente verso di me. Dischiuse le labbra sotto il mio sorriso soddisfatto prima di afferrarmi i fianchi e portarsi sopra di me. Mi baciò le labbra con foga facendomi ridacchiare durante il bacio.
"Vorrei ucciderti in questo momento" sussurrò mordendomi il labbro.
"Ma non lo farai" rigirai la situazione mettendomi a cavalcioni. "Perchè senza di me non resisti cinque minuti" affermai orgogliosa.
Alzò gli occhi al cielo fermandosi poco dopo a guardarmi intensamente.
"Che c'è ora?"
"Ti rendi conto?"
"Di cosa?" corrugai la fronte.
"Di questo" alzò le braccia al cielo. "Sembriamo due.. ehm, due.." arrossii mentre i suoi occhi evitavano i miei.
"Due piccioncini, si. Come ci definiscono i ragazzi" gli sussurrai ad un nulla dalle labbra prima di lasciarci un bacio a stampo.
"Dio, che cazzo mi hai fatto" si passò le mani tirandosi le punte dei capelli facendomi ridacchiare.
Forse allora tra di noi c'era davvero qualcosa di più.

Le carte vennero pronte nel giro di un'ora, erano le tre di pomeriggio passate quando finalmente i medici ci lasciarono andare, dissero che i punti si sarebbero tolti da soli ma che per qualche tempo Justin non avrebbe potuto fare movimenti bruschi, se solo avessero saputo la verità.
Tornammo grazie ad un taxi all'hotel dove Justin si affrettò a raggiungere la stanza per farsi una doccia. Afferrò una maglietta pulita e si fermò un istante a guardarmi dallo stipite della porta.
"Sai, potresti fare la doccia con me" alzai gli occhi al cielo incrociando le braccia al petto.
"Offerta allettante ma no, neanche morta" ridacchiai spazzolandomi i capelli. Justin si strinse nelle spalle un po' deluso ma sono certa si aspettasse quella risposta.
Non appena si chiuse dentro il bagno mi lasciai andare ad un sospiro, non potevo reggere quella situazione in eterno, non mi sentivo io. Non potevo passare le giornate a baciare Justin come se fossi stata la sua ragazza quando in realtà non eravamo niente. Non potevo passare il mio tempo a sentirmi chiedere di fare la doccia con lui, di dormire insieme, di farci quello che era ancora definito come sesso, non potevo. Era una mancanza di rispetto verso me stessa.
Non m'importava se non si sentiva pronto, avremmo affrontato quell'argomento il prima possibile.
"Ehi, ci sei tigre?" la voce di Justin attirò la mia attenzione. Teneva in mano un asciugamano con il quale si sfregava i capelli scompigliandoli, un altro legato alla vita appena in grado di coprirgli i fianchi e fino a sopra le ginocchia. Le goccioline d'acqua che gli scendevano ancora lungo il petto e le braccia tatuate.
Perchè a me?
"Da quanto sei lì?" balbettai indicandolo.
"Un paio di minuti" scrollò le spalle avvicinandosi a me. "Sembravi ipnotizzata" ridacchiò lasciando cadere il telo di cotone bianco sopra il lenzuolo.
Mi mordicchiai il labbro portando la testa a contatto con la parete fredda del muro mentre Justin si vestiva velocemente.
Come avrei voluto che per sbaglio quall'asicugamano gli scappasse dalle mani e lo lasciasse nudo ai miei occhi.
"Così mi consumi" affermò chiudendo la lampo dei pantaloni. Roteai gli occhi raggiungendolo al centro della stanza. Mi afferrò i fianchi e mi portò al muro iniziando a baciarmi il collo. Non potevo continuare così.
"Justin, fermati" lo bloccai premendogli una mano al petto, si distaccò con aria confusa guardandomi negli occhi. "Non posso continuare così. Devi dirmi in questo momento cosa cavolo siamo io e te, sto impazzendo" cercavo di avere la voce più ferma possibile ma risultava difficile.
Mi guardava serio, quasi quelle parole non gli avessero fatto un grande effetto ma io sapevo solo che non avrei ceduto ancora, non potevo senza avere spiegazioni nonostante sapessi di aver perso la scommessa.
"Credevo ne avessimo già parlato" abbassò il capo diventando improvvisamente cupo. "Cosa vuoi da me esattamente?"
"Sicurezze" volevo solo chiarezze, sentirmi dire senza paura o rancore cosa stava succedendo fra noi.
"Allora sono il ragazzo sbagliato" si distaccò violentemente da me. "Non ho sicurezze per me, mai avute. Non posso di certo darle ad altri, non credi?" deglutii.
Forse era troppo complesso, troppo incasinato.
Anche per una incasinata come me.

Justin
"Sicurezze" mi distaccai di colpo dandole le spalle. Sentivo il battito cardiaco accelerare e il respiro progredire.
"Allora sono il ragazzo sbagliato" mi guardai le punte delle scarpe. "Non ho sicurezze per me, mai avute. Non posso di certo darle ad altri, non credi?" la sentii sospirare mentre si scontrava con la parete dietro di lei.
Era proprio questo che mi faceva paura, che lei avesse bisogno, un bisogno disperato di sicurezze da parte mie. Non ero quel ragazzo, non sapevo dare certezze e stabilità, del resto non avevo mai avuto prima un vero rapporto. Ariel però voleva proprio queste cose, voleva il ragazzo perfetto che non ero e che non sarei mai stato.
"Vado a fare due passi, ci vediamo dopo" la sorpassai chiudendomi la porta della camera dietro le spalle. Non sentivo il bisogno di fare due passi, per me sarebbe stato appagante il solo fatto di uscire per qualche minuto in balcone. Ma, era solo una scusa per distogliere l'attenzione da quella discussione, per scappare da un discorso troppo delicato al momento.

Imboccai in fretta la rampa di scale e scesi velocemente sino alla hall prima di raggiungere la strada principale.
Sentire l'aria entrare nei polmoni con regolarità mi tranquillizzò.
Presi il cellulare e composi il numero di Nathan.
"Ehi, fratello!" rispose quasi immediatamente. "Finalmente ti decidi a farti sentire". Finse una voce seria e arrabbiata ma sapevamo entrambi che non lo era.
"Scusa, abbiamo avuto qualche problema con la missione" altroché.
"Avete fallito di nuovo?"
"No ma, piuttosto qualche contrattempo"
"Ma state bene?" non volevo allarmarli, stavo bene.
"Va tutto alla grande, vi racconteremo non appena torneremo a New York. Ho bisogno di parlarti di una cosa" iniziai a camminare lungo il marciapiede senza una meta, con il solo obbiettivo di allontanarmi.
"Di che si tratta?"
"Ariel" lo sentii ridacchiare all'altro capo del telefono. "Non ridere, sono in crisi. Non so che fare" si fermò solo dopo pochi secondi facendomi segno di proseguire. "Diciamo che da qualche tempo ci siamo avvicinati, mettiamola così" fu come se avessi potuto vedere il suo viso fare una smorfia confusa.
"Avvicinati del tipo?"
"Del tipo che siamo andati a letto assieme, Nathan" alzai gli occhi al cielo.
"Cristo" imprecò. "E quando è successo, a Los Angeles?" c'era un veto, un veto mortale a riguardo ma che importava? Lo avevamo violato così tante volte che quasi non ci pensavo più.
"No, mentre eravate in missione quella notte. Ma non si è opposta, non l'ho costretta" mi affrettai a chiarire. Non ero uno stupratore o qualcosa del genere.
"E allora qual'è il problema?" lui faceva sempre tutto facile, era quella la grande differenza fra noi due.
"Il problema non c'era fino a dieci minuti fa" esclamai sedendomi su una panchina lungo il viale.
"Non ti seguo" nessuno ci era mai riuscito perciò non mi sorpresi troppo.
"Insomma, andava tutto bene. Il nostro rapporto era strano, ci baciavamo di continuo ripetendoci mentalmente che ciò non aveva senso ma ci andava bene. Ora però vuole certezze, vuole sapere che intenzioni ho, capisci?" sospirò.
"Justin, lo sai meglio di me" chiusi gli occhi lasciandomi andare ad un sospiro di frustrazione. "Tutte le ragazze vogliono sicurezze, inoltre, se vi siete spinti tanto in la forse gliele devi. Non credi anche tu?" si d'accordo. Ma non avevo mai dato certezze a nessuno.
"Non so che cazzo mi stia succedendo" feci passare le dita fra i capelli alzandoli ulteriormente. "Dovrei davvero provarci secondo te?" fece per rispondere che lo frenai nuovamente per l'ennesima frase detta più a me stesso che a lui. "Lei mi piace ma, non mi sono mai impegnato con nessuna in quel senso".
"Lo so ma lo hai detto anche tu che Ariel è diversa. Persino Tomas se n'è accorto, se fosse come tutte le altre non sarebbe ancora lì con te perché sarebbe in affidamento ad Award. O hai forse scordato cos'hai rischiato per lei?" rabbrividii.
Avevo quasi perso di vista il fatto che per lei avessi rischiato la vita.
"Non l'ho scordato. Ho solo paura che sia una fregatura, non ho esperienza in relazioni e per quel che mi riguarda lei è piuttosto lunatica" ridacchiammo. "Potrebbe durare meno di due giorni" conclusi con una scrollata di spalle.
"E se anche fosse? Sarebbe un'esperienza. Dov'è finito il Justin Bieber senza paura, quello che si butta a capofitto senza pensarci? Ora che serve, sembra sia sparito" dichiarò.
Non era sparito, era solo confuso. Non se ne sarebbe mai andato.
"Forse hai ragione" strinsi il labbro fra gli incisivi mentre mi accendevo una sigaretta per alleviare la tensione.
"Io ho ragione. Andiamo, lo hanno capito tutti che vi piacete, perché non potete mettere da parte l'orgoglio per una volta? Specialmente tu" corrugai la fronte mentre lasciavo che il fumo mi uscisse dalle labbra.
"Io?"
"Pronto, sei scemo?" quasi gridò. Mi ricordò mio padre. "Lei te lo ha detto dieci minuti fa che è cotta di te e che vuole iniziare una relazione altrimenti non ti avrebbe chiesto sicurezze. Il fesso da convincere ora sei solo tu" scoccai la lingua.
Io il fesso della situazione mi era nuova, io ero quello che si faceva rispettare, quello una spanna sopra gli altri. Non ero il fesso.
"No, ti sbagli" inspirai il fumo tornando a camminare verso l'hotel a passo lento. "Non sono il fesso perchè ho capito cosa fare".
"Mi auguro sia la scelta giusta, allora" non aveva intuito la mia scelta ma, non glie l'avrei nemmeno detto. Sentivo un formicolio di tensione e incertezza attraversarmi ogni singolo centimetro di corpo percorribile.
"Grazie, fratello"
"Se non ci aiutiamo fra di noi" sorrisi. Eravamo come una famiglia, nessuno ci avrebbe mai divisi, tranne la morte.
"Un'ultima cosa" il tasto dolente. "Credi ci sia qualcosa fra David e Ariel?" lasciai cadere la sigaretta a terra calpestandola con la suola della scarpa. Non mi sarei mai messo in mezza, era il mio migliore amico insieme a Nathan e se aveva intenzione di fare qualche passo avanti verso Ariel beh, mi sarei fatto da parte.
"David ha un debole per lei ma non credo sia ricambiato, non farti seghe mentali ora" ridacchiai. La finezza.
"Ci vediamo domani"
"Ciao, fratello"
Quando la telefonata si chiuse ritornai alla realtà, ritornai a Los Angeles dopo aver viaggiato per quei brevi minuti fino a New York con la mente. Mi mancava quel posto, mi mancava sentire la voce dei ragazzi, camminare accanto a Central Park la domenica mattina, eravamo lì da così poco che mi sembrò assurdo essere in preda ad un attacco di nostalgia.
Volevo abbandonare New York ma ormai laggiù c'era la mia nuova famiglia, una famiglia di delinquenti ma anche una famiglia di persone oneste, più o meno. Almeno Nathan e David lo erano.

Aprii la porta della stanza ruotando la maniglia verso destra, era aperta. La luce del grande lampadario di cristalli era accesa, il mio sguardo ricadde sul divano che affiancava il piccolo tavolino. Ariel se ne stava seduta, la testa china su delle carte poste sulle sue cosce, le guardava seria, interessata e quasi ammaliata.
"Ehi, che sono quelle?" mi avvicinai inclinando la testa verso di lei ma, non si mosse. Restò immobile continuando a passare le dita sulle righe stampate d'inchiostro sulla carta. "Allora?" le sedetti affianco.
Ariel spostò il foglio passando a leggere quello sotto, mosse le dita della mano sinistra alzandola in aria, nella mia direzione come a dirmi di stare zitto. Non passò molto che sospirasse e le piegò fra le mani prima di riporle dentro la cartellina che solo allora notai aperta sopra il tavolino.
"Tomas ha mandato degli ordini" esordì dandomi le spalle. Perchè non mi guardava negli occhi? "Dice che in centrale hanno qualche problema da quando ha perso un paio di uomini in una missione di questa settimana. In poche parole faremo tutti degli straordinari, ecco" si raccolse i capelli distrattamente in una coda di cavallo che lasciò cadere sulla spalla sinistra.
"Sii più chiara, che straordinari?"
"Beh" esordì. "Sei mai stato ad un ballo in maschera ad esempio?" inarcai un sopracciglio e negai con la testa. "C'è una prima volta per tutto" si strinse nelle spalle.
"Così dicono" confermai.
"Comunque, ci andremo mercoledì, fra tre giorni esatti. Sarà l'ultima missione prima di concederci una pausa per il giorno dei ringraziamento" fece qualche passo in avanti mentre terminava di parlare. Afferrò la felpa sullo schienale della poltrona e se la infilò lasciandosela abbastanza aperta da far intravedere ancora la canotta che indossava.
"Leggiti l'attestato" indicò la cartellina sopra il tavolino davanti a me. "C'è scritto tutto e francamente non c'è molto da capire. Leggi l'ultimo paragrafo, è sufficiente" concluse mordicchiandosi l'unghia del pollice.
Annuii dando una rapida occhiata ai fogli, li avrei letti con calma una volta rientrati a New York, nella mia stanza, in santa pace.
"Ehi, ehm.." attirai la sua attenzione passandomi la mano dietro la nuca nervosamente. ".. per il giorno del ringraziamento, sei ancora dei nostri vero?" ero convinto per qualche motivo che avrebbe fatto la stronza e mi avrebbe dato un due di picche.
Ariel sospirò guardando fuori dalla finestra il mare che si scorgeva in lontananza. Avevo capito che lo amasse.
"Non sono quel tipo di ragazza" disse. Teneva un tono basso quasi non ci tenesse troppo a farsi sentire. "Se mi prendo un impegno lo mantengo perciò sì, verrò a Stratford con voi" sorrisi.
"Con me" corrugò la fronte.
"Nathan e David? Ero certa venissero"
"Oh, anche io" mi alzai affiancandola di qualche metro guardando fuori dalla vetrata. "Ma, credo sia giusto che vadano dalla loro di famiglia. E' l'unica occasione che hanno per rivederli insomma, Dav non vede sua madre da quasi un anno e mezzo, nemmeno lo scorso anno è potuto passare per il ringraziamento" doveva fare una missione ma quello era un dettaglio che preferivo evitare. "Non me la sento di prendermi la responsabilità di distruggergli anche quest'occasione" alzai le spalle.
Ariel fece una smorfia abbassando lo sguardo.
"Non sarebbe un peso per lui accompagnarti, ne sono certa".
Okay, è l'ennesima scusa per stare da solo con te e allora?
"Non lo so" e non m'importava. "Non me la sento comunque" sulle sue labbra si formò un sorriso poco rassicurante.
"Non ti senti molte cose, Justin" mi diede le spalle e si chiuse in bagno senza lasciarmi il tempo di rispondere.
Perchè doveva fare così la stronza? Perchè non poteva solo aprire gli occhi e rendersi conto che ero un idiota, che ero pazzo di lei ma non sapevo come dirlo?
Quando uscì dal bagno al posto dei leggings indossava dei pantaloncini da basket e la felpa era stata rimpiazzata da una t-shirt che sfoggiava una scritta giallo fluorescente che diceva: "Sono bella, problemi?"
Sorrisi senza accorgermene.
"Vado a fare una corsa, devo sfogarmi" disse guardando l'orologio che teneva al polso. Afferrò il cellulare e lo infilò nella tasca prima di dondolarsi leggermente sui talloni come a controllare che le scarpe sportive che indossava fossero abbastanza confortevoli.
"Possiamo andare insieme" non avevo voglia di correre ma dovevo parlarle.
Ariel sospirò prima di mordersi l'interno guancia.
"Voglio stare da sola, devo assimilare un po' di cose" accennò ad un sorriso sforzato che però non ricambiai. Il suo era troppo finto per credere anche falsamente che fosse vero.
Aprì la porta della camera e dopo aver aspettato un paio di secondi uscì stringendo le mani in due pugni ai lati del corpo.
Mi lasciai scivolare sul divano portandomi le mani fra i capelli.
Avevo paura di aver rovinato tutto, che non mi avrebbe più guardato come prima, che si fosse decisa a dimenticarmi, che non volesse più sapere niente di me.
Non prendetemi per ipocrita ma l'unica cosa alla quale riucivo a pensare era alla scommessa. Non sapevo se l'avrebbe mantenuta.
Passarono meno di dieci minuti che presi il cellulare dalla tasca e aprii la casella messaggi il più in fretta possibile.

A Ariel:
Non riuscirei a dirtelo in faccia anche perchè non mi guardi perciò ho pensato che un messaggio sarebbe stato l'ideale. Almeno lo dovrai leggere, credo. Comunque, prima di partire ti ho promesso che ti avrei portata a cena fuori, qui a Los Angeles. Forse ci somigliamo allora, perchè anche io mantengo le promesse.  


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Ciao tigri, vi è piaciuto il capitolo? Non fate le lettrici silenti, ditemi cosa ne pensate.

Al prossimo capitolo,

All the love,

S.

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