Capitolo 3

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Cominciò a piovere molto quella sera, fuori il rumore della pioggia era incessante, che batteva ripetutamente sull'asfalto con forza. Io e Johannah eravamo rimaste in cucina ad aspettare che suo figlio rientrasse a casa. Sua madre era molto dispiaciuta per il suo comportamento, mi aveva detto che non capiva il motivo di quella sua reazione, ma era così semplice, non mi voleva intromessa nella sua vita. Solo qualche ora più tardi era ritornato a casa e sembrava essersi calmato, o almeno in parte. Non potevo negare di esserci rimasta un pò male per le sue parole, per il disprezzo con cui le aveva dette, ma aveva ragione. In fin dei conti mi ero davvero intromessa nella sua famiglia e capivo bene la sua motivazione.

Dopo cena ero risalita nella mia nuova stanza, quella che avrei condiviso con quel ragazzo.
Fu molto silenzioso a tavola, la mia presenza non gli andava a genio, lo avevo capito. Era chiaro che la mia presenza lo innervosiva, ma nello stesso momento mi osservava.
Non volevo che si comportasse in quel modo con me. Volevo che le cose tra di noi andassero bene, prima di tutto per Johannah e poi infine per me stessa. Non volevo che mi trattasse in quel modo senza sforzarsi un minimo per far andare bene le cose tra di noi. Avrei condiviso quella stanza con lui, avrei vissuto in quella casa e avrei condiviso ogni cosa con quel ragazzo e non volevo che le cose andassero in quel modo. Speravo che tutto si sarebbe risolto con un pò di tempo, quando avrebbe capito che io non volevo intromettermi nella sua vita, ma solo provare ad essere felice. Quando pensavo a quel ragazzo, la prima cosa che mi riaffiorava in mente erano i suoi occhi ed anche allora che stavo pensando al suo comportamento, nella mia testa era apparsa l'immagine dei suoi occhi, di quell'azzurro così perfetto. Mi avvicinai alla finestra, decisa a non pensarci più, almeno per quel momento. Centinaia di gocce battevano lungo i vetri e offuscavano la mia vista al di fuori. Le strade di quella città, di cui non conoscevo ancora nulla, probabilmente erano allagate. I rami degli alberi dondolavano a causa della pioggia e le persone sarebbero state munite di un ombrello nel tentativo di rimanere asciutte. Guardavo i tuoni e i fulmini che si alternavano, illuminando la stanza e legai i capelli in una coda, prendendo tra le mani il mio diario. Andai a sedermi su di una poltrona, sempre accanto alla finestra e cominciai a scrivere qualche rigo:

Caro diario,

Oggi qualcosa nella mia vita è cambiata. Da questo momento tutto sarà diverso, deve essere diverso se voglio che la mia vita ricominci ad essere al pari di quella degli altri. Vorrei riprendere a sorridere e vorrei che fosse un sorriso vero, credibile. Non vorrei più essere la ragazza triste, che ha perso tutti. Vorrei poter rispondere agli altri che si, sto bene. Ricomincerò da zero d'ora in poi, almeno ci proverò. Cercherò di essere una persona nuova, diversa, non più una persona con un peso sulle spalle, con un terribile passato, una ragazza distrutta dal passato. Vorrei essere una persona viva. Una persona con un passato terribile, ma che continua a vivere, nonostante tutto.

Un tuono improvviso mi fece sobbalzare. La stanza si illuminò più del solito. Era stato un frastuono davvero forte tanto che i vetri della finestra rimbombarono. La penna mi era caduta di mano fino a rotolare accanto ai piedi del letto. Mi alzai per andare a raccoglierla e quando mi chinai e sollevai lo sguardo per un attimo, scorsi Jackson appoggiato all'asse della porta che mi fissava silenziosamente. Le braccia incrociate al petto, lo sguardo duro, continuava a fissarmi. Quando si accorse che avevo notato la sua presenza, si schiarì la voce, si passò una mano tra i capelli ed entrò nella stanza superandomi, senza dire una sola parola.

«Era da molto che mi stavi guardando?» gli chiesi indulgiando, riponendo il diario sotto il cuscino del mio letto.

«Non ti stavo fissando.» borbottò, senza voltarsi, continuando a darmi le spalle.

«Allora cosa facevi davanti la porta, senza dire nulla?» domandai ancora. Si voltò verso di me, ravvivandosi i capelli all'indietro, rivelando occhi del colore del mare. In quel momento potevo ammirarlo meglio rispetto a prima. Magro, alto, uno dei suoi tatuaggi gli copriva interamente il braccio. Mi resi conto solo allora di aver parlato troppo velocemente e di essermi soffermata a guardarlo un pò troppo a lungo. La sua presenza mi aggitava.

«Quello che facevo non sono affari che ti riguardino e tanto meno puoi chiedermi spiegazioni. Questa è casa mia e faccio ciò che mi pare.» sbraitò bruscamente, guardando ancora una volta fuori dalla finestra. Quel suo tono era rabbioso, come quello di mio padre quando tronava a casa dopo aver bevuto e mi picchiava.

«No, certo. Non sono affari miei. Questa è casa tua.» dissi in tono offeso e un pò impaurito per quel suo timbro di voce.

La serratura di casa scattó. Mio padre fece ingresso dalla porta venendo verso me e mia sorella, fece oscillare la cintura tra le mani.
«È colpa vostra ed io ora vi darò una lezione.»

I miei muscoli erano paralizzati. Cercai di calmarmi, lui non era mio padre. Non mi avrebbe fatto del male. Ero al sicuro. Fece un passo in avanti accorciando la distanza tra di noi. Mi guardava stranito dal mio comportamento. Ero consapevole di aver iniziato a tremare per nulla.
Fece un altro passo verso di me.
Un brivido mi percorse la schiena. Provai a fare un respiro profondo, ma i polmoni non me lo permisero. Il panico mi stringeva il petto in una morsa.

Va tutto bene, Emily. Devi calmarti.

«Stai bene?» chiese, facendo un altro passo in avanti. «Sei impallidita.»

No. Non avvicinarti a me.

Un altro tuono illuminò la stanza all'improvviso, mi spaventai inciampando nell'angolo del letto. Persi l'equilibrio e stavo per cadere a terra, ma non toccai mai il suolo, perchè due braccia mi afferrarono prima che io cadessi. Non mi ero accorta di aver socchiuso gli occhi, così lentamente li riaprii fino a trovarmi due occhi azzurri a guardare i miei. Sentivo il suo respiro profondo accarezzarmi il viso. Teneva la mascella serrata e lo sguardo fisso nel mio. Stranamente il suo tocco era delicato. Dava una bella sensazione stare tra le sue braccia. La paura di qualche secondo prima era scomparsa nello stesso istante in cui ero stata afferrata dalle sue braccia.
Ero stata una sciocca a pensare che lui potesse farmi del male. Nessuno mi avrebbe più sfiorata, presa a pugli. Nessuno mi avrebbe più picchiata.

«Comunque, ero venuto per dormire, quindi smettila di scrivere su quella specie di quadernetto e non fare casino. Voglio dormire, come ti ho appena detto.» disse rialzandomi. Si sfilò la maglietta restando a torso nudo. Camminò fino ad arrivare all'armadio e i suoi muscoli si contraevano ad ogni suo passo. Aveva un bel fisico, addominali ben scolpiti e braccia muscolose, quelle braccia che mi avevano avvolto impedendomi di cadere. Tolse le sue converse nere e infilò un pantalone di una tuta, dopo aver tolto anche i suoi jeans scuri e strappati. Lo guardai fino a quando non si accorse che lo stavo facendo e distolsi immediatamente il mio sguardo, imbarazzata.

«Ora sei tu a guardarmi.» sul suo viso comparve un sorriso divertito, che però sparì subito. «Vai a dormire, non startene in camera a fare rumore.» mormorò. «E spegni questa maledetta luce.»

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