Erano passate quasi due settimane da quando Emily era stata adottata e il giorno dopo sarebbero cominciate le lezioni al college. Jackson continuò a non rivolgerle la parola, così come continuava ad evitarla, ma più i giorni passavano e più lui si accorgeva che dietro all'evitarla era nascosto ben altro. Non riusciva a cancellare l'immagine dei due occhi color smeraldo di quella ragazza dalla sua mente, eppure si sforzava a farlo, senza però riuscirci. Non riusciva a dimenticarli sin dal primo momento in cui i suoi azzurri sfiorarono quelli dell'altra, sin da quando si accorse del loro colore, un verde che lui non aveva mai visto, un verde che lui non era in grado di descrivere e questo finì in una sorta di odio nei confronti di Emily, perchè lui voleva ammirarli quegli occhi, lo voleva troppo, troppo da far paura a se stesso ed ogni giorno quella voglia cresceva in lui e più cresceva, più Jackson prendeva le sue distanze. Non poteva evitare di guardarla e non aspettava altro che intrappolare lo sguardo dell'altra nel suo, sguardo che sin dalla prima volta era stato capace di togliergli il fiato, capace di far cessare per qualche istante il suo cuore pulsare e riprendere a battere solo qualche secondo dopo, più velocemente di prima. Lui non voleva che sua madre adottasse qualcuno, non voleva che sua madre portasse qualche estraneo in casa sua, ma questa sua contrarietà si sgretolò all'istante in cui si trovò davanti lei, contrarietà che valeva per chiunque altro, ma decisamente non per quella ragazza, non per quella ragazza così innocua, così distrutta dalla vita che lo si leggeva dai suoi occhi tutto il dolore sofferto, non per colei che si trovò di fronte nei giorni prima. Ma nonostante questo, lui, non voleva smettere di starle il più lontano possibile. Non era mai stato colpito così tanto da una persona e non riusciva a capire in lei cosa ci fosse di tanto diverso. Evitarla e non parlarle, questo faceva. Sapeva che sbagliava nel farlo ma quelle sensazioni lo spaventavano.
La cena quella sera fu del tutto un restare in silenzio, come al solito succedeva sempre, e l'unica cosa a riempire quel momento era lo sguardo insistente di Jackson bruciarmi addosso, cosa che mi metteva enormemente a disagio. Non era la prima volta che ciò capitava, così come non era la prima volta che la sua presenza e il suo modo di guardarmi mi mettevano a disagio. I suoi occhi erano così irreali, così maledettamente belli come a sembrare due cristalli intrappolati nel suo sguardo, dello stesso colore del mare, dello stesso colore del cielo, quasi simile al ghiaccio. Percepivo la tensione provocatami da essi in un modo assolutamente estraneo per me, che mi confondeva. Il suo sguardo sembrava non voler mollare la mia visuale quella sera, ma chiaramente era per odio e per null'altro. Sicuramente era il suo modo per farmi capire che non mi voleva in quella casa e non perché c'era un motivo intenzionalmente buono nel farlo o forse, magari analizzando l'idea di voler essere gentile con me e non per disprezzo, ma sapevo che non era così. Le parole scambiate qualche giorno fa con sua madre sul mio arrivo in quella casa, erano tutto fuorché a mio favore. Lui non mi voleva in quella casa, così come non voleva approcciare rapporti con me. Fino a quel giorno però non aveva fatto o detto più nulla contro di me, se non guardarmi insistentemente, sempre, ogni volta che ne aveva l'occasione e questo mi innervosiva molto, mi provocava una strana tensione, agitazione dentro.
L'unica volta in cui mi aveva trattata male fu il primo giorno in cui arrivai in quella casa, da quel momento in poi, da quando era rientrato in casa, fu molto silenzioso nei miei confronti. Alzai lo sguardo nella sua direzione per un breve secondo e quando andai ad incontrare i suoi occhi, quel poco bastò a togliermi il fiato. Non riuscii a reggerlo, non riuscii ad avere, oltre quel breve lasso di tempo, i miei occhi incastrati nei suoi, non sapevo il motivo. Distolsi lo sguardo immediatamente e mi mossi a disagio sulla sedia. Era incredibile ciò che mi provocava, una sensazione che stava diventando decisamente di troppo e mi affrettai a trovare una qualche scusa per lasciare quella stanza, andarmene da lì e scappare in qualche modo da quello che mi stava provocando dentro quella situazione. Scappare da quell'azzurro, un colore che era così legato a me, ma che quella volta sembrava essersi acceso di una nuova luce.«Io, se non ti dispiace Johannah, vado in camera, sono molto stanca e vorrei dormire.» riposi le posate nel piatto davanti a me, senza aver toccati quasi nulla nel piatto e mi alzai. Jackson sollevò il viso verso di me di scatto con gli occhi socchiusi in due fessure.
«Non hai mangiato nulla.» osservò lui. Fui sorpresa. Anche Johannah chiaramente lo era, tanto che lo guardò stranita.«Lo so, non ho molta fame.» la mia risposta risultò un pò frettolosa. Sua madre mi sorrise comprensiva, prima di pulirsi le labbra con un tovagliolo e lasciarlo cadere al fianco del suo piatto. Spostavo il mio sguardo da Jackson a sua madre nervosamente. Quando lui si accorse che lo stavo guardando anch'io, distolse il suo sguardo e iniziò a rigirare il cibo nel suo piatto. «Non hai mangiato mai molto da quando sei in questa casa, per quel poco che mangi capisco perchè sei così magra. Dovresti mangiare di più, non fa bene mangiare così poco.» rispose così disinvolto che per un momento pensai che non fosse lui. Ci guardammo negli occhi ed ecco di nuovo quella sensazione. Lui si mosse a disagio sulla sedia.
«Salgo in camera.» mi girai verso sua madre.
«Va pure cara, ti accompagno alla tua stanza.» disse Johannah alzandosi e raggiungendomi dalla parte opposta del tavolo. Mi posò poi una mano sulla spalla, invitandomi a proseguire verso le scale.
«Buonanotte, Emily.» sussurrò Jackson, lasciandomi di stucco ancora una volta. Era la prima volta che mi rivolgeva la parola senza avere un tono brusco. Quando ero io a farlo, lui mi ignorava completamente ed adesso che avevo smesso di farlo dalla sera prima, era stato a farlo lui per la prima volta.
«Notte, Jackson.» cercai di nascondere la felicità nella mia voce. Poi mi rivolsi a Johannah. «Non preoccuparti, non c'è bisogno che mi accompagni, resta pure a finire di mangiare.» replicai, ma lei scosse la testa contraria alle mie parole e a quel punto lasciai che mi accompagnasse. Quando entrammo in camera, cacciò dall'armadio il mio pigiama, lo ripose sul mio letto e prima di andare via si scusò per il comportamento di suo figlio avuto in quei giorni, così contrario a non voler andare d'accordo con me ed io capii che mi aveva accompagnato proprio per quello, proprio per il suo bisogno di scusarsi con me, anche se quella, in fondo, non era per niente colpa sua. Poi mi disse che era sorpresa per quel.suo cambiamento di quella sera. Nemmeno lei si aspettava che mi avrebbe rivolto la parola.
Mi distesi sul mio letto, senza avere realmente sonno e pensai a come era cambiata in quei giorni la mia vita, a come era cambiata da quando quella mattina di due settimane prima ero salita su quell'aereo. Eppure, alla fine, quello che avevo giurato che non sarebbe mai accaduto, era successo. Ero stata adottata ed ero uscita da quell'orfanotrofio anch'io. Un pò di felicità spettava anche a me e sembrava stesse arrivando, anche se in ritardo, quando ormai la vita mi era già sfuggita di mano e correva troppo veloce affinché io avessi modo di affiancarla. Il dolore mi aveva resa quella che ero, non ero diventata così intenzionalmente, mi stavo solo adattando alla situazione che mi circondava, al dolore che mi circondava. A volte non mi rendevo ancora conto di quello che mi era successo, a volte credevo di essere ancora io, la ragazzina di una volta, con ancora una famiglia, ma invece proprio in quel momento mi stavo guardando intorno in quella stanza e non era la mia vita, non era la mia casa. Non c'era niente che conoscessi in quel luogo, assolutamente niente.
Guardai a lungo la parete di quella stanza e subito pensai a com'era azzurra come i suoi occhi, azzurra come gli occhi di Jackson.
Quel colore mi aveva sempre dato pace, tranquillità, ma quella volta non fu così. L'azzurro dei suoi occhi non mi dava pace, non mi dava tranquillità, ma qualcos'altro. Non sapevo cosa, ma riusciva a darmi qualcosa di molto più grande ed ero spaventata per ciò che mi stava investendo quella situazione, della sensazione che stavo provando.
Cos'era tutto quello?
Cos'era quello che stavo provando?
Le palpebre cominciarono ad abbassarsi lentamente, fin tanto che la parete di fronte a me stava diventando nera, sempre più nera, fino a sparire del tutto. Non feci caso nemmeno al rumore della porta che si aprì, che ero già caduta nel sonno.
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You Found Me [COMPLETA]
RomansaCon un passato difficile alle spalle, Emily Martin affronta la vita giorno per giorno, cercando di non pensare al suo tormentato passato. Una ragazza che ha bisogno di essere nuovamente felice, di trovare quella felicità che le apparteneva prima del...