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Con un'altra occhiata veloce, Jimin colse l'ennesima espressione contrariata sul volto di Eveleen; poi, tornò a concentrarsi sulle sue carte.
Le teneva in mano senza sapere con esattezza per quale motivo lo stesse facendo e gli venne in mente che, in fin dei conti, era più o meno quello che faceva con la sua esistenza. Jimin continuava a vivere, ma non capiva con chiarezza quale fosse lo scopo, cosa stesse cercando. Non capiva per cosa si alzasse ogni mattina, si vestisse, facesse colazione e si ostinasse a passare le sue giornate chiuso in quella gabbia.
Jimin non ricordava più perché vivesse o, forse, non l'aveva mai saputo.
Nessuno glielo aveva insegnato, in effetti. Mai nessuno aveva perso un po' del suo tempo a spiegargli per cosa si vivesse, per cosa si respirasse e per cosa si facessero tutte quelle cose che erano tipiche degli umani.
Almeno fino a quando non aveva incontrato Eveleen.
Jimin si rese conto che la sua presenza, in qualche modo, era stata in grado di mettere a tacere le domande che prima gli si affollavano nella mente, facendo rumore.
«Si può sapere perché continui a fissarmi?»
Jimin sobbalzò. Si guardò intorno a scatti, ricordando di essere nella mensa che, durante la giornata, veniva usata anche come sala ricreativa. Non si era accorto che, mentre pensava a lei, aveva preso a guardarla insistentemente.
«Scusami, non volevo.» Abbassò il capo e si morse l'interno della guancia, immerso nel più completo imbarazzo.
Eveleen sospirò, si perse la testa tra le mani e chiuse gli occhi. Stava iniziando a odiare il modo in cui si comportava con le persone che le erano attorno; aveva già discusso con sua madre quella mattina ed era certa che una ramanzina da parte di suo padre non gliela avrebbe tolta nessuno.
Riprese in mano le carte che aveva abbandonato sul tavolo. «No, scusami tu, non dovevo risponderti in quel modo.»
Jimin rimase in silenzio per un po', a riflettere. Voleva evitare di dire qualcosa che potesse far innervosire Eveleen ma, allo stesso tempo, era davvero curioso di sapere il motivo di tanto cattivo umore. Magari, se fosse venuto a conoscenza della causa, avrebbe potuto fare qualcosa. Alla fine, sbuffò.
Eveleen rise. «Che succede ora, marmocchio?»
Erano state parecchie le volte in cui lei gli aveva fatto presente quanto somigliasse a un bambino nei modi di fare e, all'inizio, a Jimin aveva fatto piacere. I bambini gli sembravano dolci e quasi tutti li amavano. Le persone volevano toccare loro la manina o la punta del nasino. Jimin avrebbe tanto voluto un po' di quell'affetto, si sarebbe accontentato anche di una piccola parte.
Sollevò lo sguardo verso di lei e iniziò a mordicchiarsi il labbro inferiore, indeciso su cosa dire. Ora, sentiva un leggero dispiacere, o forse un fastidio, nel pensare che Eveleen lo vedesse solo come un tenero bambino dai capelli biondi e gli occhi grandi.
Dopo averci pensato un'intera notte, Jimin era arrivato alla conclusione che avrebbe tanto desiderato essere visto da Eveleen come uno dei ragazzi con cui lei andava a scuola. O come Michael, per esempio.
«Sei tanto triste in questi ultimi giorni e mi piacerebbe poterti aiutare in qualche modo» disse poi, accantonando i pensieri e facendo vagare lo sguardo per la grande sala. Se l'avesse tenuto fermo sugli occhi di Eve, era certo che non sarebbe riuscito a parlare.
«Non sono bravo in queste cose. Nelle relazioni con gli altri e cose simili, intendo, però vorrei farti sorridere perché non mi piace per niente vederti triste. Ci sto male».
Eveleen, al contrario di Jimin, aveva continuato a fissarlo. Quello che lui le aveva detto le aveva scaldato il cuore e le aveva permesso di sentirsi un po' meglio. Jimin aveva un tale effetto rilassate su di lei; il che era strano, dato che il suo cuore stava battendo come un martello pneumatico.
Eveleen gli sorrise, anche se un po' a disagio. «Non so davvero come ringraziarti, Jimin. Riesci sempre a farmi stare meglio, anche senza fare nulla di particolare. Sinceramente, non so come sia impossibile.»
Ebbe il timore di avere esagerato, ma lui non sembrava affatto dispiaciuto.
Eveleen non aveva dato segno di voler parlare di ciò che la rendeva così di cattivo umore, perciò Jimin decise di cambiare argomento. «Sai, ieri Anne mi ha portato del cibo coreano» le raccontò, sorridendo. I suoi occhi presero a brillare, quando ripensò a quanto fosse stato buono. Era stato il miglior pranzo di tutta la sua vita.
Mentre lo ascoltava, Eveleen raccolse le carte che gli aveva dato e, unendole con le sue, le rimise nello scatolino. «E ti sono piaciuti?» Gli chiese incuriosita, facendogli segno di alzarsi per lasciare la sala che iniziava ad affollarsi.
Jimin annuì vivacemente e si avvicinò alla porta saltellando. «Tanto, soprattutto il Kimchi. Era così buono!»
Eveleen non riuscì a trattenere una risata nel vedere Jimin e, per l'ennesima volta, si ritrovò ad ammirare la genuinità della sua innocenza. «Beh, almeno ora so cosa regalarti per il tuo compleanno» scherzò, mentre procedevano per i corridoi del Glenn.
I raggi del Sole attraversavano i vetri delle finestre creando delle zone di luce sul pavimento grigio e Jimin si divertiva a saltellare dall'una all'altra, stando attento a non toccare le parti in ombra.
Eveleen nascose le mani nelle tasche della felpa. «A proposito, non mi hai mai detto quand'è il tuo compleanno.»
Passò qualche secondo prima che si accorgesse dell'assenza di Jimin al suo fianco e, con le dita attorno sulla maniglia della porta della sua stanza, si voltò confusa.
Lui se ne stava fermo con la testa abbassata e le spalle incurvate. La luce gli illuminava il volto e i capelli sembravano ancora più chiari. Il pigiama bianco, più grande della taglia che sarebbe stata giusta per lui, gli ricadeva morbido sul corpo e le mani ne stringevano in due pugni il tessuto.
A Eveleen venne da pensare che non potesse esistere un essere più bello di quello, perché Jimin era semplicemente questo: bello. In ogni suo lineamento e dettaglio del viso, nei suoi atteggiamenti e nel suo carattere; era bello in ciò che pensava e non diceva, nella sua timidezza e nella sua ingenuità, era bello nella sua stranezza e nel modo in cui si meravigliava per le più piccole cose, quasi insignificanti agli occhi di qualsiasi altra persona. Eveleen ne era affascinata.
Gli si avvicinò allarmata. «Jimin, che succede?»
Scordò le innumerevoli avvertenze sul contatto fisico con i pazienti e gli appoggiò una mano sul braccio, mentre con le dita dell'altra cercò di spostare i ciuffi biondi che gli ricadevano sulla fronte.
I suoi polpastrelli gli sfiorarono la pelle chiara e tante lievi scosse si propagarono nel corpo di Jimin. Trasalì alla strana sensazione e sollevò gli occhi tristi sul suo volto.
«Ehi, va tutto bene?»
Jimin inclinò il capo e continuò a guardarla. Notò, forse per la prima volta, di essere più alto di lei di qualcosa come cinque centimetri e ne fu felice: era sempre stato il più basso e gli avevano fatto capire che non fosse un pregio.
«Sto bene.»
Se fosse una bugia o la verità neanche Jimin lo sapeva. Alcune volte non riusciva a capire come si sentisse e, in quel momento, era come diviso in due. La tristezza e la gioia si scontravano dentro di lui, combattendo una lotta a cui Jimin non poteva porre fine. La prima, scaturiva praticamente da tutta la sua vita, che aveva sempre passato in solitudine. L'altra, nasceva come un germoglio in primavera ed era annaffiata ogni giorno dalla presenza dell'unico raggio di Sole che Jimin avesse mai visto.
Eveleen, però, non era di certo stupida e non impiegò nemmeno mezzo secondo per capire la colossale bugia che lui cercato di rifilarle. Eppure, non disse nulla. Lo prese per mano e lo guidò verso la porta della sua stanza.
Neanche dopo essere entrati lo lasciò andare. Temeva di poter perdere Jimin come fossero stati in un mare in tempesta, dove le forti correnti sottomarine aspettavano solo il momento giusto per trascinarlo via. E poi quel contatto era diventato fin troppo piacevole.
Seduti sul letto, Eveleen si girò verso di lui. «Sai, non sei tanto bravo a mentire, ma se non vuoi parlarmene non importa.»
Jimin non la guardava; la sua attenzione era rivolta alla finestra che, da quando era lì dentro, gli mostrava sempre uno sprazzo del mondo esterno. Lui non aveva mai capito se lo facesse con buone o con cattive intenzioni. Insomma, voleva renderlo partecipe della vita che scorreva, oppure voleva ricordargli costantemente tutto ciò che si perdeva stando rinchiuso in quel posto?
«Però, se- se ho detto qualcosa di sbagliato- davvero, mi dispiace tanto» mormorò Eve, torturandosi le dita della mano libera.
A quelle parole Jimin si voltò di scatto e, con gli occhi sgranati, scosse con forza la testa. Quella parola era stata in grado di farlo smuovere come se il suo intero corpo stesse andando a fuoco e la pelle si stesse carbonizzando.
Sbagliato.
Lui si era sempre sentito così, ogni secondo della sua vita umana, e non voleva che Eveleen provasse la stessa cosa.
I suoi occhi a mandorla andarono a posarsi sulla sua mano ancora stretta in quella di Eveleen. «Mi prometti di non ridere?»
Eveleen sollevò un angolo delle labbra e scosse la testa. «Sai che non riderei mai di te» lo rassicurò, sperando che un giorno non troppo lontano Jimin non avrebbe più sentito il bisogno di chiederglielo.
Jimin prese un respiro profondo e raddrizzò le spalle. «Ecco, il fatto è che io non ho un compleanno.»
Tornò subito con lo sguardo su Eveleen. Nonostante avesse un po' paura della sua reazione, l'ansia provocata dall'attesa era peggiore.
Che lei fosse stupita era impossibile da negare.
Insomma, Jimin doveva pur essere nato, no?
Era lì davanti a lei e quello implicava il fatto che un determinato giorno, di un preciso mese, di un anno qualsiasi, Jimin doveva essere venuto al mondo.
Ciò che non si spiegava era come lui non potesse conoscere la sua data di nascita. I suoi genitori non avevano mai festeggiato con lui il suo compleanno? Sicuramente non era nato al Glenn, quindi dei parenti doveva per forza averli.
Si rese conto che Jimin non le aveva mai parlato di com'era la sua vita prima di entrare lì dentro. Ricacciò indietro la curiosità, perché quello non era il momento adatto per chiedere.
«Ma devi averne uno! Tutti hanno un compleanno e dovrebbe sempre essere una bella giornata. Si festeggia il fatto che sei nato e che, per un certo numero di anni, hai superato tutti gli ostacoli che la vita ti ha messo davanti.»
Jimin scrollò le spalle e abbassò di nuovo lo sguardo. Erano quelle le cose che lo facevano sentire diverso e sbagliato, ma sapeva che Eveleen non lo aveva fatto con cattiveria. Immaginava dovesse essere difficile relazionarsi con un tipo come lui.
Ciò che però lui non sapeva, era che Eveleen non lo considerava affatto diverso, bensì unico.
«Forse ho un'idea» iniziò e, quando ebbe tutta la sua attenzione, continuò: «solo perché non hai un compleanno, non significa che non possiamo crearne uno.»
Jimin chinò la testa di lato. «E come facciamo?»
«Mi hai detto che- sì, insomma, che sei una Stella e che sei caduto dal cielo, giusto?» Gli chiese titubante, cercando di apparire disinvolta nel pronunciare quelle parole.
Una vocina nella sua testa continuava a urlarle che quella fosse la scelta più sbagliata che potesse fare e che non era per nulla corretto alimentare i suoi deliri, ma Eveleen decise di ignorarla. Desiderava che Jimin fosse felice, che non sentisse di avere qualcosa in meno degli altri.
Jimin sgranò gli occhi e, anche se all'iniziò si morse il labbro per trattenersi, finì per illuminarsi con un grande sorriso.
Eve gli scostò dalla fronte un ciuffo chiaro. «Facciamo così: il tuo compleanno sarà il dieci agosto, il giorno che porta con sé la notte delle Stelle Cadenti. Che te ne pare?»
Fu in quel momento che Jimin si sentì un po' meno sbagliato.

||Out of the Sky|| P.Jm.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora