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Mentre sto guidando per andare al lavoro con dieci minuti di ritardo inizia a farsi strada in me una fredda sensazione di disgusto. Solo adesso con la mente lucida, mi rendo conto del verme maledetto che sono stato. Ho ceduto. Alla fine ho ceduto e ho lasciato che il cazzo ragionasse al posto del cervello. Sono un fottuto pervertito, uno di quelli che buttano in cella con qualche maniaco sessuale in astinenza, apposta per fargliela pagare. Uno di quelli che mi sono promesso di non difendere mai. Eppure una parte di me continua a ripetermi che non ho fatto nulla di male, che non l'ho costretta io a fare ciò che ha fatto, che è stata lei ad insistere tanto. Continua a ripetere che la amo. E anche questo è tutto vero.
Quando si è seduta sulle mie gambe chiedendomi se fosse stata brava con gli occhi luccicanti, l'ho baciata e ho sentito il mio sapore sulla sua lingua.
Hai ragione, non sa per niente di succo di frutta, mi ha detto ridacchiando, ma non è così male, sa di te.
Oh, Dio santo...

Il capo non è in ufficio e nessuno pare far caso al mio ritardo. Appena mi siedo vedo il pacco di scartoffie sulla mia scrivania e mi viene in mente che tra due giorni devo essere in tribunale, a difendere un taccheggiatore recidivo che ormai mi chiama per nome. Lavoro di merda. Gente di merda. Adesso vorrei solo ubriacarmi e dimenticare tutto. Questo è pure il fine settimana dedicato a mia figlia. Credo che chiamerò Joan e mi spaccerò per malato, non mi sento degno di stare con Rachel dopo stamattina.
Il tempo scorre così lentamente che sembra essersi fermato, mi sembra perfino che le lancette dell'orologio appeso al muro siano bloccate. E guardarle dieci volte al minuto non aiuta di certo.
Estraggo il cellulare dalla tasca e scrivo alla mia ex dicendole di essere malato, scusandomi se non la chiamo perché sono rimasto senza voce per colpa dell'aria condizionata in ufficio. Invio. Di' a Rachel che mi dispiace tanto. Invio.
Questo è vero. Vedo che visualizza. Ma non risponde. Per fortuna non posso vedere la sua faccia né sentire la sua voce, ma posso immaginare tutto con una tale dovizia di particolari che se chiudessi gli occhi mi sembrerebbe di averla qui davanti. Dio benedica l'inventore dei messaggi, che ha salvato i codardi e ha evitato loro di dover fare gli uomini per molte volte durante le loro patetiche vite.

In ufficio mi muovo come un fantasma, rispondo agli altri mugugnando. Per un caso fortuito Rodríguez non c'è, non me ne frega niente del perché, basta solo che non sia qua, non credo che ora sarei in grado di sopportarlo. Nessun altro mi rompe le palle, senza di lui a malapena parlo in ufficio. Va bene così.
Penso a cosa potrebbe succedere alla mia vita se tutto questo venisse scoperto. Non so perché ma nel peggiore degli scenari possibili mi immagino morto con un buco in fronte. Non so chi potrebbe spararmi, mister Van Cleef? Non sembra uno a cui importi molto del destino dei figli. La signora Van Cleef? Uno dei due fratelli maggiori? Un cugino? Forse uno zio? O la polizia. Mi immagino i titoli dei giornali, maniaco stupratore muore ucciso da..., mi immagino l'esistenza di mia figlia rovinata, un cambio di nome, di città, di vita. Ma nell'ipotesi più probabile vengo messo dentro: vita finita, carriera distrutta se di carriera si può parlare. Mi ritrovo a cinquantanni a voltare hamburger in uno sporco fast-food di periferia, il mio capo è un adolescente brufoloso, abito in una roulotte e ogni volta che cambio posto devo presentarmi a tutto il vicinato. Salve, sono Terrence Williams, sono il suo nuovo vicino e sono un criminale sessuale. Forse è meglio la morte a questo punto, sarebbe senz'altro meno faticosa. D'altronde tra poco più di un mese Rosemary compirà sedici anni, l'età del consenso in questo Stato. Cosa che comunque non allevia il mio senso di colpa, questo peso opprimente che mi schiaccia ogni volta che sto con Rosy, ogni volta che la guardo, che penso a lei. Adesso più che mai.

Quando esco dall'ufficio sono le sei ma il caldo è comunque soffocante. Mi levo la giacca e la cravatta e le getto sul sedile anteriore della macchina. Non ho voglia di tornare a casa e inizio a vagabondare per le strade affollate dell'ora di punta. Odio il traffico. Sono bloccato in coda, dall'altra parte della città; la mia carriola di macchina ha l'aria condizionata rotta, tutto quello che posso fare è abbassare i finestrini. Inutile. Mi accendo una sigaretta. Davanti a me c'è una macchina con un adesivo attaccato al paraurti che dice Gesù ti guarda. Cazzo spero proprio di no! Alla mia destra invece, un ragazzo messicano di non più di vent'anni con una decappottabile blu e lo stereo al massimo. La musica è ovviamente la merda rap che si ascoltano sempre loro. È assordante, fastidiosa, inutile, mi perfora il cervello. A sinistra uno scuolabus vuoto che non fa altro che sgasare e riempire di fumi tossici l'aria. Sono bloccato all'inferno. Quello che mi merito.

Quando finalmente riesco ad uscire da quella bolgia proseguo senza mèta immerso nei miei pensieri incasinati. È solo per caso che noto un cartellone colorato non troppo grande, che indica più avanti. Luna Park, dice. Le giostre sono in città. E la malsana idea di andarci con Rosemary si fa prepotentemente strada nel mio cervello che in automatico inizia a far scorrere le immagini delle mie fantasie come vecchi film su pellicola, alcune più spinte di altre. Una in particolare mi piace: è uno dei cliché più abusati di sempre, ma l'idea di rimanere bloccati in cima alla ruota panoramica o nel tunnel dell'amore è abbastanza perché le mie viscere si contorcano emozionate. La vedo anche mangiare lo zucchero sfilato e sporcarsi tutta la bocca oppure addormentarsi sulla mia spalla mentre torniamo a casa in macchina...
"Svegliati coglione! Muoviti!"
Quello dietro strombazza così forte che potrebbe scoppiargli il clacson; davanti a me c'é un enorme spazio vuoto e la colonna si è mossa di almeno quindici metri mentre io sognavo ad occhi aperti.

Mi convinco che non si tratta di un'idea tanto brutta quando, una volta arrivato a casa, leggo il messaggio sul telefono. È proprio Rosy che mi dice delle giostre e che mi chiede se possiamo andarci, tutti insieme con i suoi fratellini. È il destino, mi dico. Basta davvero così poco per cancellare in un secondo l'ammasso di pensieri rimuginati per tutto il giorno e il ricordo del fatto incriminato stesso, e per convincermi ad accettare. Debole nella carne e anche nello spirito.

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