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Joan è sola. Quando le apro la porta, lei entra in casa senza dire una parola. Sembra guardarsi attorno come se non avesse mai vissuto qua, e una velata espressione di disgusto le si dipinge sul volto, nel constatare lo squallore di questa casa di periferia mal tenuta. In effetti quando lei e Rachel vivevano qua, non era ridotta così male. Almeno credo.
"Vuoi qualcosa da bere?" le chiedo in tono distaccato, da barista.
"No" risponde camminando verso la cucina e sedendosi al tavolo. Indossa una leggera gonna bianca che le arriva sopra al ginocchio e una canottiera rosa pastello. Per un attimo mi appare come un'estranea, un'intrusa in casa mia, con il solo scopo di farmi stare male.
"Ti è tornata la voce a quanto pare"
Parla dandomi le spalle mentre entro anch'io in cucina. Le guardo la nuca confuso e la sensazione di non sapere chi sia diventa ancora più forte. Poi ricordo. Mi ricordo della scusa stupida che mi sono inventato. Mi siedo davanti a lei, senza sapere cosa dirle.
"Rachel non ti ha visto ieri sera. Crede ancora che tu sia ammalato" dice ad un tratto, senza che le abbia chiesto niente. Ma quelle sue parole hanno il potere di sollevarmi dal petto un peso. Almeno uno.
"Ma non sembrava così triste quando gliel'ho detto ieri mattina"
Ora la sua voce è velenosa. Non troppo, velenosa in modo sottile, in un modo tale che ad orecchie esterne potrebbe sembrare una semplice frase detta per farmi sapere qualcosa. Ma mi fa terribilmente male, come migliaia di tagli all'apparenza superficiali ma che bruciano fino all'osso. E lei lo sa. È quello che vuole.
"Non voglio sapere chi erano quei ragazzini, non mi interessa. Sul serio. Non voglio sapere cosa stai combinando"
"Joan loro sono solo i miei vicini..."
"Ho detto che non me ne frega niente, Terrence. Davvero, non me ne frega un cazzo"
È così strano sentirla imprecare, soprattutto con quel tono di voce piatto e robotico che ha adesso. Un tono che non ammette interruzioni.
"Io non ti capisco, Terrence. Non ti ho mai capito credo, ma ora non ha più importanza. C'è stato un tempo in cui in cui fingevo che questo tuo modo di essere, di vivere la vita fosse solo un piccolo particolare trascurabile. Un tempo in cui ti ho amato davvero... che deficiente sono stata"
Nemmeno mi guarda. Ha il mento appoggiato alla mano smaltata di rosso che quasi le copre la bocca, e guarda da un'altra parte come se la mia presenza qui non fosse davvero indispensabile.
"Ho provato a ignorare questo tuo essere, ho anche provato a capirlo ma a vuoto"
Non riesco ad afferrare il suo discorso. Di cosa sta parlando? Vorrei chiederglielo ma ho la gola chiusa come se avessi perso sul serio la voce. Apro la bocca ma non faccio altro che boccheggiare come un pesce morente.
"Mi dispiace solo per Rachel. L'unica cosa buona che tu abbia mai fatto"
Il suo tono da automa si è incrinato, si è fatto strozzato e affaticato. Ho l'impressione che stia per dire o fare qualcosa di tremendo.
"Non può più andare avanti così. Alla fine del mese ci trasferiamo da mia sorella in California"
"Che vuol dire?" balbetto confuso. Le sue parole non hanno alcun senso.
"Vuol dire che sono stufa di te e delle tue cazzate e di questo posto di merda. Ce ne andiamo a Pasadena come avremmo dovuto fare molto tempo fa"
Fa per alzarsi dalla sedia. Io scatto in piedi furioso. Qualcosa dentro di me si è rotto e un fiume di rabbia mi sta inondando il cervello: "Cosa cazzo significa che te ne vai a Pasadena? Non puoi portarmi via mia figlia così, non ne hai il diritto!" sbraito.
"A te non frega niente di tua figlia!" la sua voce è ancora più alta della mia, il suo volto è diventato paonazzo, "non te ne frega un cazzo! A te interessa solo continuare ad intrappolarci nella tua squallida esistenza perché non hai nessun altro al mondo!"
Se mi avesse rotto la sedia in testa mi avrebbe fatto meno male. Sono ammutolito. Mi ha accoltellato al cuore e me l'ha strappato via.
"Non è vero..." biascico con un filo di voce. Dov'è finita tutta la rabbia?
"Sì che è vero, e tu lo sai benissimo. Ma non ti permetterò di trascinarci giù con te" si sistema gonna, si passa una mano sui capelli e si volta per andarsene. La seguo, incapace di parlare. Dì qualcosa mannaggia alla miseria! Dì qualcosa rammollito!
"La prossima volta, tra due settimane, sarà l'ultima volta che vedrai Rachel. Per un bel pezzo almeno"
Apre la porta e il sole quasi allo zenit mi investe prepotentemente. Questa scena non è reale, ecco perché non riesco a parlare. È come uno di quei sogni che mi capita di fare prima di una sessione in tribunale, dove le mie mascelle sono talmente inchiodate che non riesco nemmeno ad aprire la bocca e il giudice e la giuria mi guardano ridendo a crepapelle. Ridendo di me. In questo momento lei è la giuria e anche il giudice ma io sono l'imputato, non l'avvocato. Chiudendosi la porta alle spalle, Joan ha emesso la sua sentenza.

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