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La luce filtrava attraverso la fessura della cassetta delle lettere.

Due occhi verdi scrutarono all'interno e videro una busta bianca.

Alex risollevò la testa e aprì lo sportello della cassetta con la chiave, prese la busta e lo richiuse.

Era leggera e, oltre al suo nome e all'indirizzo della Columbus University in cui lavorava, era presente solamente il logo in rilievo dell'Università della California, Berkeley: in alto sulla sinistra c'era un piccolo cerchio marrone bordato di blu, con al centro un libro aperto nel mezzo, sulle cui pagine bianche erano riportati caratteri indefiniti, tranne il primo, la sola lettera "A", inizio dell'alfabeto, inizio di un capitolo così come di un percorso, di studi e di vita; il libro era sormontato da una bianca stella luminosa e il motto dell'università "Let there be light" era sciolto su un nastro bianco che scivolava in basso, come un segnalibro appena spostato perché si possano leggere tutti i segreti insegnamenti racchiusi in quel libro. "Let there be light". Perché la luce della conoscenza possa risplendere nelle vite degli studenti così come quella piccola stella bianca.

Alex accarezzò le lettere sul logo e i numeri che componevano la data di fondazione dell'università, 1868. Sorrise e si diresse verso il suo ufficio.

Era fine maggio, periodo di esami, e nonostante gli studenti non affollassero più le aule per i corsi, erano in ogni caso ovunque: nelle biblioteche, sui prati e nei dormitori, riuniti in gruppi o concentrati nello studio individuale. Attraversando il parco, Alex guardò una ragazza china su un libro seduta sotto un albero: le ricordò se stessa quando era una studentessa solo pochi anni prima, quando dedicava tutto il suo tempo allo studio anche nelle belle giornate come quella, quando rifiutava un appuntamento con un ragazzo per ricavare la dimostrazione di un teorema di analisi matematica, fino al periodo in cui aveva cominciato a lavorare per il professor Coldridge come assistente nel suo laboratorio di astrofisica.

Liam Coldridge aveva studiato astrofisica alla Columbus dove aveva proseguito con il dottorato e ormai da vent'anni rappresentava il massimo esponente nel suo campo all'interno dell'ateneo. Rimasta affascinata dalle sue teorie durante il corso che aveva seguito al secondo anno, Alex si era rivolta a lui per proseguire la sua carriera e Coldridge le aveva proposto una borsa di studio che le permetteva di fare ricerca lavorando per lui. Grazie a quegli insegnamenti due mesi prima aveva potuto fare domanda per Berkeley, la quinta università più prestigiosa degli Stati Uniti e del mondo per fisica e astrofisica. E ora, a distanza di tre anni dall'inizio della sua carriera accademica, era seduta nel suo ufficio a guardare una loro busta.

Prese il tagliacarte e la aprì. Su un unico foglio le comunicavano di averla assunta per lavorare al progetto gestito dal professor Zackary Miles a partire dalla settimana successiva, sotto la sua diretta supervisione. Gli occhi cominciarono a brillarle per la gioia e la vista a confondersi per le lacrime; dovette leggerlo un'altra volta per assicurarsi che tutto quello che le stava accedendo non era un sogno e che finalmente ce l'aveva fatta.


Il professor Coldridge stava correggendo i test degli studenti quando Alex busso alla sua porta. «Professore, è permesso?»

Coldridge sollevò la testa brizzolata dai fogli. «Ciao Alex, sì, vieni pure. Cosa c'è?»

Alex richiuse la porta alle sue spalle e andò a sedersi davanti a lui. «È arrivata.» gli comunicò emozionata. Coldridge sapeva della sua domanda alla Cal, come veniva chiamata Berkeley per distinguerla dalle altre università della California, e l'aveva spronata a proseguire la sua carriera concorrendo per una posizione migliore, quindi prese la lettera che lei gli porgeva e la lesse. Poi sollevò i suoi occhi neri su di lei e commentò compiaciuto «Zack Miles. Bel colpo Alex, sono davvero felice per te.»

«Grazie professore.» E dopo un momento aggiunse «Per tutto quello che mi ha insegnato.»

Le porse nuovamente il foglio e aggiunse con un velo di tristezza «Una settimana quindi.» Poi sembrò risollevarsi. «D'accordo. Allora in bocca al lupo e cerca di non sparire.» Si alzò per stringerle la mano attraverso la scrivania.


Una settimana più tardi Alex stava lasciando l'aeroporto di San Francisco su un autobus diretto a Berkeley, pensando a quello che la aspettava: avrebbe alloggiato in albergo in attesa di trovare un appartamento; a quel punto si sarebbe fatta spedire il resto della sua roba e avrebbe recuperato la macchina. La mattina seguente aveva appuntamento con il suo nuovo capo. Pensare che avrebbe lavorato per il professor Miles, direttore del dipartimento di fisica e astrofisica della Cal, nonché autore di decine di articoli su cui aveva studiato, la metteva in agitazione ma allo stesso tempo la riempiva di entusiasmo.

Con un panino comprato al volo all'aeroporto cenò sull'autobus che percorreva la superstrada in direzione est. Si accorse di essersi addormentata quando il pullman frenò accanto alla pensilina degli arrivi; la luce rossa delle cifre dell'orologio digitale montato sopra l'autista spiccavano nell'oscurità del mezzo: le ventitré e zero due. Ritirò le due valigie dalla stiva e si diresse verso la fermata dei taxi che a quell'ora però era vuota. Avrebbe dovuto aspettare prima che un'auto tornasse al suo posto dopo l'ultima corsa, quindi si guardò intorno cercando di famigliarizzare con la città. Si spostò lungo il marciapiede trascinandosi dietro le valigie; gli altri passeggeri del pullman si erano già dispersi e l'unico rumore nella notte era quello delle ruote dei suoi trolley sull'asfalto. Si avvicinò ad una delle panchine sul bordo strada e un paio di fari alle sue spalle le illuminò la via; si voltò: un taxi era tornato alla fermata. Riprese quindi i manici delle valigie e gli andò in contro. Quando era ormai a un metro dalla macchina, un uomo con una ventiquattrore e una borsa a tracolla sulle spalle, attraversò la strada e si infilò nel taxi.

«Ehi!» gridò Alex mollando le valigie; bussò al finestrino prima che l'autista mettesse in moto. «Ehi! Aspetti un momento!»

L'uomo abbassò il vetro. «Sì?» Era moro, con curiosi occhi neri e un sorriso disarmante.

Alex rimase un frazione di secondo incantata dal fascino di quell'uomo, lo stomaco contratto, la lingua arrotolata. Poi lo sdegno prese la meglio e si riprese: aveva bisogno di quel taxi e lui glielo stava rubando.

«Questo è il mio taxi.»

«Forse c'è un malinteso.» sembrava spiegarle pazientemente. «Perché, vede?» Lo sconosciuto allargò le braccia come per sottolineare l'ovvio. «Io sono seduto qui dentro, mentre lei è lì fuori.»

Alex lo guardò incredula, ma non voleva demordere. Gli sorrise accondiscendente cercando di cambiare tattica. «Capisco. Probabilmente allora non ha visto che stavo arrivando con le valigie. Ero sicuramente in fila prima di lei. Quindi...» Aprì la portiera. «Le sarei molto grata se volesse scendere. Sono in viaggio da stamattina, sono stanca e non vedo l'ora di...» Lui però la interruppe con un gesto della mano; si affacciò per un momento fuori dallo sportello e le disse «Ascolti, anche se penso che potrebbe piacermi conoscere i suoi programmi per questa notte...» Fece scorrere lo sguardo sul suo metro e sessantacinque, soffermandosi sulle gambe lunghe, sui fianchi arrotondati, sul seno sodo, sul collo affusolato, per poi rivolgerle un sorriso malizioso. «Anche io ho affrontato un lungo viaggio. Quindi se non le dispiace...» Rientrò in auto richiudendo la portiera. «Buona fortuna!» le augurò tirando su il finestrino.

Mentre l'autista metteva finalmente in moto, ad Alex sembrò di vedere un sorriso di soddisfazione affacciarsi sul viso dello sconosciuto. Seguì l'auto che si allontanava, prima con lo sguardo, poi correndole dietro urlando «Ehi! Aspetti!» finché la rassegnazione non ebbe il sopravvento. Rimase lì, al centro della strada, di nuovo sola. Si voltò per tornare indietro dalle sue valigie, uniche, fidate, compagne di viaggio.



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