1 DICEMBRE 2038, 15:22:55 PM
Sono passati quattro giorni dal mio arrivo nelle vite di quei due.
Sono stata segregata dentro casa da Hank.
Voleva che io mi rimettessi del tutto, così da poter uscire e fare quello che mi andasse senza rischiare mancamenti e roba simile.
Ha preso tre giorno di permesso dal lavoro per rimanere con me, dedicarmi un po' di tempo.
Questi giorni in sua compagnia mi hanno fatto conoscere una persona estremamente dolce e generosa, seppur da fuori sembri solo un vecchio ubriacone scorbutico.
Ha cucinato per me, mi ha regalato altri vestiti, mi ha lasciato il suo letto.
Ora dorme sul divano con Sumo steso sul pavimento, mentre Connor si limita a gironzolare per casa tutta la notte, oppure attiva l'opzione standby, e per così dire, "dorme" come gli umani.
Sono felice di essere qui, con loro.
Ma è troppo presto per mostrare la mia gratitudine.
Con gli anni, ho imparato a non fidarmi di nessuno, se non di Nathan.
La gente, quando meno te lo aspetti, ti pugnala alle spalle e ti abbandona.
Ti lascia sola, in balia degli eventi.
Ho imparato ad essere indipendente, a camminare sulle mie gambe.
Fin dalla tenera età.
E faccio fatica, molta fatica a credere alle persone.
Alle loro belle parole, ai loro bei gesti.
Mi sembrano solo un'accozzaglia di suoni e azioni senza un peso, importanza.
Non ho ancora completa fiducia in loro, ma voglio loro bene.
Sono importanti.«Quindi vivi qui.» commenta Connor, fissando una piccola casa con un giardino disastrato davanti a lui.
«Già.» rispondo, avvicinandomi alla porta ed aprendola con una semplice spinta.
Non chiudiamo mai a chiave io e Nathan, non abbiamo nulla di prezioso da proteggere.
Entriamo.
Siamo venuti qui per prendere un po' di roba da trasferire a casa di Hank, Connor ha insistito ad accompagnarmi.
È sempre così premuroso, con me.
Non ne capisco il motivo.Gli mostro la casa: un piccolo salone con una vecchia tv con lo schermo crepato sopra un tavolino, libri cartacei impolverati sparsi ovunque, un divano ingiallito. In cucina non vi è quasi cibo, nella dispensa c'è solo qualche barretta energetica ed una vecchia bottiglia d'acqua, il frigorifero è spento. Poi, è il turno della camera di Nathan: un letto, che raramente usa. Una scrivania con giornali elettronici, cianfrusaglie, ed una foto incorniciata, raffigurante lui ed io, anni prima.
Io: sguardo dritto nell'obiettivo, capelli marrone chiaro, lunghi, sciolti e tutti fradici, sorriso a trentadue denti, stringo Nathan fra le braccia.
Lui: in uniforme androide, sguardo su di me, sorriso accennato, ricambia l'abbraccio.
«Bellissima foto.» dice Connor, prendendo in mano il quadretto.
«Eri una ragazzina.»
«Già...» rispondo «Avevo quattordici anni. Nathan era arrivato in famiglia da poco più di un anno.»
La guardo, sorridendo appena.
«Era una giornata di maggio, se non sbaglio.» inizio, «eravamo al parco e faceva un gran caldo.»
Connor ascolta il mio racconto, in silenzio.
«C'era un laghetto con delle papere, lì vicino. Io mi sporsi troppo e ci caddi dentro, per questo i miei capelli sono bagnati, nella foto.»
Risi di gusto, ricordando la scena esilarante.
«Mia madre decise di scattarci una foto perché ero troppo buffa e...»
Mi ammutolisco di colpo.
Ricordare mia madre mi infastidisce.
Guardo il pavimento.
«...E poco dopo scomparve nel nulla, abbandonandomi da sola con Nathan.»
Connor mi guarda serio.
«Non so nemmeno perché te lo stia dicendo, non ti interessa.»
Faccio per spostarmi, andare via.
L'androide mi afferra per un braccio, bloccandomi.
«Mi interessa, invece. Ciò che dici è importante, Charlotte.»
Io guardo a terra.
«Se vuoi parlarne con qualcuno, fai pure.»
«Non ho bisogno di parlare dei miei problemi.» rispondo, secca.
«Tutti hanno bisogno di qualcuno con cui parlare.»
Lo fisso con sguardo di sfida.
Poi sospiro, arresa.
Era inutile discutere con quell'androide.
Torno davanti a lui, senza incrociare il suo sguardo.
Avvicino una mano alla foto, accarezzo con le dita il volto di Nathan, delicatamente.
Inizio a ricordare.
«Era la notte del 13 dicembre 2030, pochi giorni prima del mio compleanno, quando mia madre non fece più ritorno a casa. Vivevamo in un appartamento sulla Allen Park Street, io, lei e Nathan. Avevamo preso quella casa in affitto, ci eravamo trasferite dalla California quando avevo undici anni.»
Mi mordo un labbro.
Odio, odio, odio quella donna.
«Da quando mio padre morì, in quella sparatoria, mia madre perse la sanità mentale. Era distrutta. Riusciva a malapena ad alzarsi dal letto. Io ero abbandonata a me stessa. Lei beveva fino a svenire, tornava a casa strafatta quasi ogni sera, mentre io passavo i giorni a piangere mio padre, da sola, in camera mia.»
Non mi viene più da piangere, ora.
Né per mio padre.
Né per mia madre.
Non provo nulla.
Se non rabbia.
Tanta rabbia.
«Arrivate a Detroit decidemmo di comprare Nathan. Serviva una figura maschile nella famiglia.
Era un androide a basso prezzo, e potevamo permettercelo.
Il suo compito era aiutare me e mia madre a superare il trauma della morte di papà.
Mi accompagnava a scuola, giocava e cucinava per me, potevo raccontargli tutto e lui mi avrebbe sempre dato ascolto.
Al contrario di quella donna.»
Connor continua a fissarmi.
Noto il suo LED sul colore giallo.
Mi sta forse analizzando?
«Nathan divenne come un fratello, per me.
E quando quello stronza se ne andò, lui era tutto ciò che mi rimaneva.»
Stringo i denti.
«Sei sicura che ti abbia abbandonata, e che non le sia successo qualcosa di brutto?»
Domanda lecita.
Ma no, non era così.
«Sono sicura.» dico, con un filo di voce.
«Ci ripeteva spesso, durante i suoi deliri, di quanto fosse stanca di occuparsi di noi. Eravamo un peso per lei. Non mi sorprende che abbia deciso di andarsene.» faccio una pausa.
«Lei ci odiava, lei mi odiava.» concludo, infine, guardandolo dritto negli occhi.
Connor poggia la foto sul tavolino.
Si avvicina nuovamente a me, afferra la mia mano destra, la stringe tra le sue.
«Il tuo livello di stress è al 55%. Non c'è bisogno che tu vada avanti.» afferma, con tono calmo.
Io stringo la mia mano nella sua.
Gli sono grata, per avermi fermata.
Non mi piace parlare del mio passato.
«Vieni, ti mostro la mia camera.» affermo.
Usciamo, per recarci nel corridoio buio, ancora mano nella mano.
Entriamo in una camera sulla sinistra: letto ancora sfatto chissà da quanti giorni, vestiti sparsi sul pavimento, un tavolo con cartacce di merendine, uno zaino scolastico ed altra roba di dubbia origine.
«Scusa il disordine.» dico, mentre mi inginocchio a terra per raccogliere degli indumenti che dovrò portare da Hank.
«Questa è una casa di fortuna... siamo venuti a vivere qui un paio di anni fa, quando trovai lavoro in un bar e potei permettermi di tirare avanti senza usare l'eredità di mio padre.»
«Quindi hai un lavoro?» domanda lui.
Faccio una smorfia, sorridendo.
«Non più, mi hanno licenziata quattro mesi fa per cattiva condotta.»
A Connor scappa una risata.
«Licenziata per cattiva condotta? E cos'hai fatto?»
Mi alzo da terra, con i vestiti in mano.
«Può darsi che qualcuno abbia accidentalmente rigato la nuova auto del capo con una chiave inglese sotto lo sguardo delle telecamere, tre volte...» Connor inizia a ridere.
«...o gli abbia involontariamente fatto cadere del caffè sulla camicia bianca, cinque volte.» concludo.
L'androide continua a ridere, senza fermarsi.
Non lo avevo ancora mai sentito ridere.
«Smettila, Connor!»
No, non smettere.
La tua risata è spettacolare.
Non smettere.
«Scusa» inizia, portando una mano alla bocca «Ma non resisto!»
Scoppiamo entrambi in un rumoroso riso.
Spensierato.
Felice.
È piacevole ridere con lui.
Quando ci plachiamo, rimaniamo in silenzio per qualche secondo.
Subito dopo, Connor si avvicina a me, fino ad arrivarmi davanti.
Mi guarda intensamente.
Con quei grandi occhioni scuri.
Dio, che belli.
Mi viene da arrossire, ma cerco di nasconderlo.
Porge una mano in avanti.
Io rimango immobile.
Infine, afferra gli indumenti che ho tra le braccia.
«Ti aiuto a piegarli.»
Ah.
Giusto, i vestiti.
A cosa pensavo?
Li poggiamo sul mio letto.
Sono quattro paia di jeans, tre pigiami, cinque paia di maglioni lunghi scuri.
Ho poco altro, in casa.
Non posso permettermi chissà che tipo di guardaroba, non avendo nemmeno un lavoro.
Ciò che ho mi basta.
Il ragazzo inizia a piegare i vestiti in maniera improbabile, cercando di concentrarsi.
Io lo fisso.
È buffo come provi a fare l'androide di casa, quando è una macchina da morte.
È buffo anche come sia in grado di freddare un criminale in due secondi netti senza il minimo sforzo, ma sia un completo incapace in qualcosa come piegare dei vestiti.
Certo che è strana, la tecnologia.
«Lascia fare a me...» mormoro, mentre mi piazzo tra lui ed il letto, sotto il suo sguardo confuso.
Appena finito di piegarli con cura, li prendo in mano, mi alzo e li infilo nello zaino posto sulla scrivania.
Mi reco rapidamente verso il bagno, prendo il mio spazzolino, il mio pettine e qualche trucco.
«Non sei costretto a seguirmi come un cagnolino.» affermo, notando Connor costantemente dietro di me.
«Non lo faccio per costrizione.» risponde prontamente «Lo faccio perché voglio.»
Quella frase mi ha messa un po' a disagio, ma mi ha fatto piacere.
Allora anche lui tiene a me...
O forse, è solo molto bravo a mentire.
Arrivo in salone, lui rimane in corridoio.
Controllo il contenuto dello zaino.
Penso di aver preso tutto l'essenziale.
«No, manca una cosa!» rifletto, ad alta voce.
Corro in camera di Nathan, prendo tra le mani la cornice con la foto di noi due.
La accarezzo.
Poi, torno in salone, infilo la foto e chiudo lo zaino.
«Ora è tutto.»
«Tu credi?» domanda Connor, palesandosi dietro di me, d'improvviso.
Mi giro di scatto.
«Penso di sì... perché, cosa manca?» chiedo, confusa.
Lui rimane in silenzio.
Sguardo basso, fare serio.
Il suo LED muta sul rosso.
«Che c'è, Connor?» domando, con un accenno di preoccupazione, posando una mano sulla sua spalla.
Lui rialza lo sguardo, con un sorrisetto.
Io lo fisso, insicura sul da farsi.
Cuore a mille.
Afferra la mia mano, riabbassandola.
Inarca la schiena alla mia altezza.
Cosa sta succedendo?
Avvicina il suo volto al mio, piano.
Lentamente.
Io divento rossa.
Lui sembra sicuro di sé.
Siamo a pochi centimetri di distanza.
Sento il mio stomaco ballare la samba.
Socchiude gli occhi, ed io con lui.
Le nostre labbra si avvicinano....
-DRIIN - DRIIN - DRIIN-
Merda.
Non ora.
Ci allontaniamo di scatto, distogliendo lo sguardo.
Fisso il vuoto, mordendomi un labbro.
Connor afferra il suo cellulare dalla tasca.
Gli androidi possiedono cellulari?
E poi, che razza di suoneria è, quella?
Il LED sulla tempia torna blu elettrico.
«Qui è il Detective Connor RK800 del dipartimento di polizia di Detroit, chi parla?»
«Cristo, Connor. Hai il mio numero memorizzato in rubrica, possibile che tu debba fare questa pantomima ogni fottuta volta?!»
È la voce di Hank.
Mi scappa un sorriso.
«Oh, salve Tenente! Che piacere sentir-»
«Sì sì, tante care cose.» interrompe.
«Ci sono novità dall'FBI, siamo riusciti a scoprire l'indirizzo di John Barrow. Porta il tuo culo in centrale, abbiamo del lavoro da svolgere!»
Detto ciò, riattacca.
«Certamente, Tenente. Sto arrivando......Tenente?»
Allontana il telefono dall'orecchio.
Fa uno sguardo triste.
«Credo sia caduta la linea...»
Io soffoco una risata, mentre con lo zaino in spalla, prendo Connor per mano e corro fuori dalla casa.
Lui corre con me, appena dietro.
Mi giro a guardarlo, ancora rossa in volto.
Lui ricambia, con uno tenero sorriso.Oh Connor, quanto ti...
Spazio autrice
Nuovo capitolo! Scusate il ritardo.
Piaciuto? Che ne pensate del rapporto fra quei due? Potrebbe davvero nascere qualcosa, o la situazione sarà destinata a mutare?
Vi aspetto nel prossimo capitolo che sarà molto più movimentato :33
Si va nella tana del lupo!
A presto ♥️-Fran//Machine
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My Light || Detroit: Become Human
Fanfic[COMPLETATA] - Un androide ed un'umana. Diversa specie, diversa vita. Uniti da una promessa. Per sempre. «Lo salveremo, te lo giuro.»