q u i n d i c i: "il sole non sorge, per me"

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Nathan's pov

23 APRILE 2039, 15:22:04 PM

Sono passati mesi, dalla mia prigionia.
Non posso dire con certezza quanti.
Ho perso la cognizione del tempo.
Non vedo il cielo da talmente tanto tempo, che rischio di dimenticarmi come sia fatto.
Ogni giorno, mi prendono e mi portano al laboratorio, vengo legato.
Torturato, a lungo.
Ogni sera, faccio ritorno nella mia cella.
Al buio, al freddo.
Già, con il Painsaver, oltre al dolore fisico, sento anche il freddo.
Così come il caldo, come qualunque altra sensazione.
Sono diventato un umano.
A tutti gli effetti.
Lo odio.
La vita qui è l'inferno in terra.
Mi portano allo stremo delle forze.
Mi fanno raggiungere il limite sopportabile.
Ad un passo dall'autodistruzione.
Ad un passo dal suicidio.
Poi, si fermano.
Mi permettono di riprendere fiato.
Il mio sistema torna normale.
E ricominciano.
Ancora, ancora, e ancora.
Ogni giorno colleziono un nuovo taglio, un nuovo livido, una nuova bruciatura, una nuova abrasione.
Non sarebbe un grave problema, per un androide normale.
Ma io, tutto quel dolore, lo sento.
Eccome, se lo sento.
E nessuno potrà aiutarmi.
Nessuno potrà tirarmi fuori.
Ormai, ho smesso di sperare nel ritorno di Charlotte.
La mia sorellina.
Mi ero fatto una speranza.
Ho creduto a lungo, che fosse ancora viva.
Ed invece, sono sempre più convinto che non tornerà mai.
Spero solo che il suo corpicino abbia trovato una degna sepoltura, e che non stia ancora giacendo carbonizzato tra la cenere.
È tutto ciò che chiedo.
Non voglio la libertà, non mi interessa più.
Quel che desidero è che Charlotte abbia trovato la pace che cercava.
La pace che meritava da anni.
La pace che le è stata strappata da piccola.
Con la morte del signor Blake, e la scomparsa della signora Atwood.
Ho smesso di piangere per Charlotte da qualche settimana.
È inutile piangere, diceva lei.
Ed aveva ragione.
Piangere non serve a nulla.
È molto più facile rimanere in silenzio e sopportare.
Sopportare l'impossibile.
E sperare.
Sperare che tutto finisca al più presto.
Io, spero nella Morte.
Che venga e che mi prenda presto.
Non voglio più vivere, in questo mondo sbagliato.

«È ora di svegliarsi.»
Una voce mi tira fuori dall'oblio.
Sento qualcosa di appuntino, nel mio braccio.
«Avanti.»
Non voglio aprire gli occhi.
Voglio essere lasciato solo.
Riaprirli significherebbe ricominciare.
Ricominciare le torture.
Il dolore.
Invece, io prego che mi uccidano, piuttosto che sopportare altri esperimenti.
Rimango immobile.
Forse, se ne andrà.
Sento il suo viso avvicinarsi al mio.
Sento il suo calore.
«Ho detto: è ora di svegliarsi.»
Il suo tono è severo.
Mi spaventa.
Quell'uomo, mi spaventa.
Apro esiguamente gli occhi.
Lo vedo.
I suoi occhi di ghiaccio mi osservano.
Fa un sorriso.
«Finalmente.»
Si allontana, senza distogliere lo sguardo.
«Ho creduto di averti perso.» inizia, «Ma i miei aiutanti ti hanno riportato indietro dall'aldilà appena in tempo.»
A fatica, giro la testa verso il mio braccio, legato con una cinghia di cuoio al letto.
Nella mia pelle è stato infilato un ago attaccato ad una flebo.
Alzo lo sguardo, nella sacca alla mia destra c'è Thirium.
Scende lentamente nel tubo e raggiunge i miei circuiti.
«Hai perso molto sangue e sei svenuto.»
Sospira a pieni polmoni.
Si avvicina al tavolo del laboratorio, afferra il suo fidato blocco note.
Cammina verso il mio letto, mi arriva davanti.
Si siede, a poca distanza dal cuscino su cui poggia la mia testa.
Io richiudo gli occhi.
Ricordo perfettamente quando stavo per perdere conoscenza.
Quando i sensi stavano abbandonando il mio corpo stanco.
Per un attimo, credetti davvero di morire.
Per un solo attimo, credetti davvero di essere finalmente libero.
Mi addormentai con un sorriso in volto.
Invece, sono di nuovo qui, legato a questo materasso d'ospedale, rinchiuso in un laboratorio sotterraneo che sa di urla e pianti.
Per quanto, ancora, non lo so.
Il Dottor Blaine dice che lo scopo di tutto ciò è combattere la Devianza degli androidi.
Non ha intenzione di uccidermi, quando mi ferisce, non danneggia mai biocomponenti vitali.
Vuole farmi raggiungere un livello di dolore mentale e fisico, tale da farmi rigettate il mio stesso programma.
Vuole farmi tornare una fredda Macchina.
Miracolo della scienza, lo chiama.
Quel pazzo.
Quel sadico pazzo.
Quanto vorrei poter usare su di lui tutti i suoi amati strumenti di tortura.
Vedere il suo corpo straziato in una pozza di sangue rosso.
Riapro gli occhi, lo guardo.
Lui fa lo stesso, con un ghigno sul volto.
Porta una mano alla profonda ferita sanguinante, all'altezza del mio stomaco.
Tasta la pelle, piena di segni, piena di sfregi.
Sento la pressione delle sue dita contro i circuiti strappati. Provo fastidio.
Infine, allontana la mano, dopo aver attentamente analizzato ciò che mi aveva fatto.
Il mio sangue macchia il materasso ed il pavimento.
Con una penna presa dalla tasca del camice, anch'esso imbrattato di Thirium, appunta qualcosa sul taccuino.
«Devo ricordarmi di togliere qualche spuntone dalla mazza ferrata, la prossima volta. Non posso più rischiare così tanto.
Dopotutto...»
Rimette la penna in tasca.
«... sei la mia miglior creazione.»
Richiude il blocchetto rapidamente, rialzandosi.
Qualcosa però cade da una delle pagine, atterrando sul pavimento liscio, accanto al letto.
Martin sembra non notarlo.
Si allontana, recandosi verso la porta d'uscita.
«Tornerò quando la flebo sarà finita, e ricominceranno i giochi.»
Dà sfoggio ad una risata folle, mentre richiude la porta alle sue spalle.
Sono solo, ora.
In quelle quattro mura.
Illuminato da numerose lampade a luce fredda.
Mi accecano.
Controllo la sacca di Thirium.
Ne manca poco meno di metà.
Quando l'ultima goccia sarà entrata nel mio corpo, il Dottore, seguito dagli infermieri, tornerà qui.
Passeranno alle torture con l'elettricità, penso tra me e me.
Non vorranno farmi perdere altro sangue, almeno per oggi.
Mi guardo attorno, arreso.
Ho iniziato a sperare di tornare presto una Macchina.
Ho iniziato a sperare che questi esperimenti possano veramente funzionare.
Il prima possibile.
Da Macchina, non potrò più soffrire.
Niente più emozioni.
Niente più dolore.
Voglio tornare una Macchina.
Lo desidero quasi quanto desideri la Morte.
Mentre il tempo sembra essersi fermato, fisso uno spaventoso oggetto poggiato su un secondo tavolo, in fondo alla stanza.
È lì da diverse settimane.
Si chiama Maschera d'Infamia.
È un'antica tortura medievale in metallo, si installa sulla testa del malcapitato, e può avere le più varie forme.
Può raffigurare un maiale, un cane, una smorfia buffa, può anche essere una semplice pressa sulla fronte, come in questo caso.
Lo strumento ha lo scopo deridere l'accusato in pubblico.
Ma non solo.
Soprattutto, di far provare atroci sofferenze.
Stringe come un morso all'altezza delle tempie, causando dolore quasi accecante, ed è spesso munito di aculei affilati che vanno a lacerare la carne intorno al cranio.
Talvolta, uccidendo chi la indossa.
Non l'hanno mai usata, prima d'ora.
E spero rimanga lì a fare la polvere a lungo.
La ferita allo stomaco ricomincia a bruciare.
Provo a distrarmi dal dolore, ma non ci riesco granché.
Non ho molti passatempi, legato qui.
Questo sacro silenzio è l'unico amico che ho.
Profanato soltanto dalle mie urla, durante le torture.
A volte penso a tutti gli androidi che sono stati qui prima di me.
Alla sofferenza provata.
Ora, sono tutti morti.
Morti per le troppe ferite.
Morti per autodistruzione.
E non posso non domandarmi se anche loro fossero arrivati alla mia condizione mentale.
La risposta è sì, ovviamente.
Sarebbe impossibile il contrario.
Mentre osservo il soffitto azzurro chiaro sopra di me, mi torna in mente il foglietto scivolato dal blocco note di Martin.
Sussulto, alzando di poco il busto.
Per fortuna, non vi è nessuna cinghia che lo  blocchi al letto.
È l'unico movimento che mi è possibile fare, dato che braccia e gambe sono legate.
Mi sporgo con la testa oltre il materasso, guardo il pavimento.
La noto subito.
Si tratta di una foto.
Sono raffigurate due persone.
Non riesco a vederle con chiarezza.
Non posso raggiungerla, non posso afferrarla.
Ma posso analizzarla.
Una caratteristica del mio modello, KL700, prima di essere tolto dal commercio, era la capacità di poter analizzare le cose e le persone.
Essendo stato progettato come un androide sanitario, per aiutare la gente in seguito a traumi, l'analisi serviva a monitorare la condizione mentale degli individui a me assegnati.
Analizzavo Charlotte giornalmente, per controllare il suo stato psichico.
Era una bambina così fragile.
Così bisognosa di affetto, da sempre negato.
Gracile, insicura.
Quella bambina, così piccola, ha visto terribili cose che nessuno dovrebbe vedere.
Ha vissuto un incubo nella realtà.
Poi è cresciuta.
Forte.
Diffidente.
Insensibile.
Ma è cresciuta.
Ed ora, non c'è più.
È colpa mia?
Non sono stato in grado di proteggerla?
Queste domande mi distruggono.
E non c'è nulla che io possa fare, per aggiustare le cose.
Gli umani non tornano indietro.
Inizio l'analisi.
In pochi istanti, appare davanti ai miei occhi una tabella di dati.
Li leggo attentamente.
Si tratta di una foto rettangolare molto vecchia, a formato rimpicciolito.
È ingiallita dal tempo, il bordo è macchiato di sangue blu secco.
Sono raffigurate due persone.
Due bambine.
Mi concentro su quella a destra, una graziosa bimba dai capelli scuri.
Non l'ho mai vista.
Poi, passo a quella a sinistra.
Poso lo sguardo su di lei.
Il mio cuore metallico si blocca.
Una sensazione di panico, mista a malessere e disagio, scivola dentro di me.
Sbatto gli occhi più volte, per assicurarmi di aver visto bene.
Non mi sbaglio.
Capelli lunghi, color miele.
Occhi ambra, tendenti al verde.
Volto pallido.
Sguardo intenso.
Piccole labbra, inarcate in un dolce sorriso.
Sei proprio tu...

My Light || Detroit: Become HumanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora