Claire || Lisianthus

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Sto finendo di recidere il gambo di alcune viole, quando sento tintinnare le decorazioni di vetro posizionate sopra alla porta del negozio.

Alzo lo sguardo sul nuovo cliente: si tratta di un uomo sulla cinquantina, tutto impettito in un completo gessato dall'aria costosa. Si passa una mano fra i capelli brizzolati, mettendo in mostra un paio di grossi anelli d'oro infilati nell'anulare e nel medio. Si guarda intorno con aria piuttosto annoiata, anzi, quasi seccata.

- Buongiorno.- lo saluto con un sorriso.- Posso aiutarla?

L'uomo avanza verso il grande bancone di legno al centro della stanza, facendo sbattere con noncuranza la ventiquattrore contro la sua gamba destra ad ogni passo.

- Avrei bisogno di un mazzo di rose.- dice con fare sbrigativo, sbattendo sul bancone una banconota da cinquanta dollari.

- Va bene un mazzo da quindici rose rosse medie?- domando, osservando la banconota e cercando di rifare mentalmente i calcoli per essere certa che il prezzo rientri nel budget.

Sì, in teoria per quarantacinque dollari si può comprare un mazzo da quindici rose. A volte mi confondo con il Lisianthus, che assomiglia alle rose ma è più economico.

- Sì, sì, faccia lei.

Dal modo di fare spiccio di questo cliente, è evidente che non gliene frega un piffero dei fiori. Il solo fatto che abbia scelto le rose fa capire che non è particolarmente ferrato in materia, che vuole solo fare bella figura e non gli interessa minimamente sapere se si può personalizzare il mazzo e renderlo un po' meno "formale".

È così che io chiamo le rose: "fiori formali". Tutti le conoscono, le regalano e le vorrebbero ricevere, ma sono estremamente sopravvalutate. Ci sono così tante tipologie di fiori da donare in base alle specifiche occasioni, che sostituirli sempre con delle rose significa sprecarle.

Per esempio, per esprimere la passione si buttano tutti sulle rose. Sbagliato. Il fiore della passione è la passiflora.

Questo per dire che, volendo, dal basso dei miei diciassette anni potrei benissimo prendermi gioco dell'altezzoso cinquantenne che mi sta di fronte, semplicemente creandogli un mazzo di Lisianthus e poi spacciargliele per rose.

Il cliente si siede su una delle poltroncine arancioni posizionate verso la vetrina. Se avesse voluto iniziare una conversazione, avrebbe scelto la poltroncina gialla rivolta verso il bancone.

Mi pulisco le mani sul grembiule macchiato di terra e sposto da un lato le viole che stavo recidendo prima. Nel retrobottega trovo le rose che mi servono e le appoggio sul piano di legno. Recido le estremità dei gambi più lunghi fino a che non sono tutti più o meno uguali, poi li lego tutti insieme con un grosso nastro argentato. Avvolgo le rose in una delicata retina dello stesso colore e infine perdo un po' di tempo per ravvivare i petali e le foglie.

Richiamo il cliente con un colpetto di tosse. Lui si alza immediatamente e viene a prendersi il mazzo, borbottandomi di tenermi il resto come mancia. Dopodiché se ne esce dalla bottega senza nemmeno salutare e senza nemmeno darmi il tempo di chiedergli se voleva che inserissi un bigliettino tra i fiori.

Con un sospiro, inserisco i soldi nel registratore di cassa e mi volto per lanciare un'occhiata al grande orologio da parete appeso dietro al bancone. Sono le sei e mezza, ormai il mio turno è finito. Vado nel retrobottega per avvisare mia zia, la proprietaria del negozio, che me ne sto andando. Lei mi saluta di rimando, ma è così concentrata a compilare l'inventario che non sono sicura che abbia sentito sul serio ciò che le ho detto.

Ad ogni modo, mi sfilo il grembiule, raccolgo da sotto il bancone il mio zaino di scuola, mi metto il cappotto e apro la porta facendo tintinnare i tubicini di vetro soffiato.

Una ventata gelida mi scombina i capelli e mi fa rabbrividire nonostante il maglione pesante e il cappotto. Mi caccio le mani in fondo alle tasche dei jeans e mi incammino verso casa, mentre i lampioni iniziano ad accendersi sfarfallando ai lati della strada.

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Dopo cena aiuto mia sorella con i compiti di aritmetica. Deve fare degli esercizi per domani e mi fa vedere il suo quaderno pieno di cancellature e scarabocchi, con dei risultati cerchiati qua e là. Sbirciando il libro, trattengo un sorriso divertito nel notare che tutte le soluzioni sono numeri inferiori a dieci, mentre a mia sorella escono frazioni sotto radice elevate alla quarta.

- Keith, come ti sai complicare tu la vita, nemmeno Colin Singleton in Teorema Catherine.- sospiro, buttandomi sul letto con il suo quaderno e una penna. Mangiucchio il tappo della Bic mentre scorro in fretta i calcoli in cerca dell'errore.

Lei mi osserva rimanendo seduta alla scrivania. Si sposta di lato per togliersi dal cono di luce prodotto dalla lampada appoggiata lì vicino e finge di ascoltarmi quando prendo a spiegarle dove ha sbagliato nelle varie espressioni. Mi accorgo del fatto che non mi sta prestando la minima attenzione perché se ne sta in silenzio, col volto verso la parete.

- Keith, potresti ascoltarmi un attimo?- sbotto spazientita alzando gli occhi dal suo quaderno.- Ho milioni di altre cose da fare, eppure sono qua che cerco di aiutarti. Credimi, potrei dirti di arrangiarti e andare a finire i miei compiti di matematica, che solo a leggere i testi dei problemi mi viene voglia di lanciarmi di testa contro la parete di una camera blindata, ma si dà il caso che...

- Puoi anche andartene in camera tua, mi aiuta Rick.- mi interrompe con aria di superiorità, mostrando il cellulare che poco fa ha catturato tutta la sua attenzione.

- E chi diavolo è Rick?

- È uno che ho incontrato al corso di pianoforte.- mi spiega con nonchalance. Poi abbassa la voce fino a ridurla a un sussurro e si protrae in avanti, neanche stesse per rivelarmi i codici nucleari degli Stati Uniti d'America o il mistero della Gioconda.- E ha pure uno skateboard.

- Wow, è proprio un ragazzaccio.- ironizzo, chiudendo il quaderno e mettendomi seduta sul bordo del letto.

- Non devi dirlo a mamma e papà, però.

- Non glielo dico solo perché sarebbe imbarazzante ammettere che mia sorella di undici anni ha una vita sentimentale più attiva della mia.

Lei arrossisce dietro ai suoi grandi e spessi occhiali neri e mi fa la linguaccia.

- È tutta colpa di nostra madre.- scuoto la testa rassegnata.- Nel suo albero genealogico c'è una zitella ogni due donne, quindi se nostra madre si è sposata e tu sei già a caccia di bambini con lo skateboard, indovina un po' chi è destinata ad un vecchio e panciuto gatto grigiastro?

- Anch'io vorrei un gatto.- si lamenta Keith.

- Eh no, donna.- le punto un dito contro.- I gatti sono dati in dotazione alle zitelle come i manganelli alle guardie nei musei. Non puoi togliermi questo diritto.

Keith scoppia a ridere e scuote la testa, mentre io le do la buonanotte ed esco dalla camera.

Venom// Jonah Marais Why Don't WeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora