Jonah

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Secondo la psicologia, quando si subisce un trauma molto grave il cervello si comporta come una scatola: chiude dentro l'esperienza negativa e la lascia in un angolo di quella grande discarica di desideri infranti e di traumi chiamata subconscio. In questo modo quel pensiero negativo non torna più a torturarti, perché il tuo cervello adotta questo sistema di auto difesa per cui rimuove quel ricordo particolarmente doloroso.

Io, però, non voglio dimenticare. Non voglio dimenticare niente, tanto meno l'esperienza che mi ha spaccato in due, mi ha rimescolato internamente e poi mi ha ricucito frettolosamente, non permettendomi più di essere lo stesso.

Mia madre è morta il giorno del mio ottavo compleanno. Era un'infermiera e, a causa degli straordinari, stava tornando dall'ospedale verso le due di notte, quando una macchina guidata da un ragazzo ubriaco invase la sua corsia a velocità folle e la centrò in pieno, uccidendola sul colpo.

Quando la polizia fece visita a casa nostra, mio padre mi spedì in camera mia, ma io mi appollaiai in cima alle scale e origliai la conversazione tra lui e il tenente Keller. Le mie orecchie da bambino sentirono cose che farebbero venire la pelle d'oca ad un uomo adulto. Ancora oggi ricordo quasi a memoria ogni singolo dettaglio riguardante la scena del crimine raccontato dal tenente.

Questo perché non voglio dimenticarla. Non voglio che il mio cervello rinchiuda in una scatola l'esistenza di quella che è stata, seppur per soli otto anni, la persona più importante della mia vita. In più, mia madre era l'unica a cui avevo rivelato il mio segreto, che tutt'ora mi perseguita in ogni singolo istante della mia vita, facendomi vivere ogni giorno sul chi va là. Pensavo che forse, essendo infermiera, avrebbe trovato una soluzione. Ma ci sono aspetti della nostra intimità che appartengono solo a noi e per questo non esistono delle cure.

Qualcuno bussa al finestrino della mia macchina. Alzo lo sguardo dal mazzo di fiori poggiato sul sedile del passeggero e incrocio lo sguardo torvo del guardiano del cimitero.

Schiaccio un pulsante sul cruscotto e il finestrino si abbassa di qualche centimetro.

- Se devi entrare, ti conviene muoverti.- mi avverte burbero il custode, indicando col mento il cancello in ferro battuto che conduce all'entrata del cimitero. - Non hai sentito della tempesta di neve che sta per arrivare? O sei troppo occupato a guardare il tuo riflesso nello specchietto retrovisore?

- Giusto, non ne ho nemmeno bisogno. Lei forse dovrebbe darsi un'occhiata allo specchio- lo sfotto con tono divertito osservando le ispide e folte basette che gli incorniciano il faccione rotondo.- Stasera in televisione danno Harry Potter e la pietra filosofale. Provi a guardare la scena in cui arriva Hagrid, sono sicuro che si riconoscerà in lui.

L'uomo mi guarda corrucciato, come se stesse soppesando l'idea di tirarmi giù dalla mia Bentley e usarmi come punch ball. Tanto lavorando al cimitero saprebbe come far sparire in fretta il mio cadavere.

- Fa' come ti pare, io tra cinque minuti chiudo.- borbotta invece il custode prima di allontanarsi sui suoi passi.

Lo tengo d'occhio attraverso lo specchietto retrovisore, aspettando che sparisca dietro al cancello dell'ingresso. Dopodiché tiro su fino al collo la zip della mia giacca a vento e prendo in mano il mazzo di fiori con più riguardo di quando ho tenuto in braccio il figlio neonato di un amico di mio padre. Scendo dall'auto e mi dirigo verso l'entrata laterale. A passo spedito attraverso il sentiero che serpeggia fra le tombe, mentre la ghiaia scricchiola sotto alle mie scarpe. Salgo i tre scalini che portano alla zona esterna coperta del cimitero e proseguo fino a metà della passatoia. Venendoci ogni mese, ormai conosco questo percorso meglio dello spazio camera- cucina in casa mia.

Mi soffermo sulla fotografia incorniciata di mia madre, chiedendomi come sarebbe oggi. Probabilmente i suoi occhi azzurri sarebbero un po' più spenti e stanchi, i suoi capelli avrebbero qualche filo grigio e la sua fronte sarebbe un po' più segnata; tuttavia, sono sicuro che le sue labbra sottili sarebbero comunque sempre distese in quel sorriso riassicurante, che la notte, quando i sogni si distorcono in incubi da far accapponare la pelle e si depositano nella mia memoria mescolandosi agli altri ricordi reali, io ricerco nelle vecchie fotografie di famiglia custodite nel comodino.

Rimuovo i fiori appassiti dal vasetto accanto alla foto e li sostituisco con quelli che ho appena comprato. Chiudo gli occhi, mormoro qualche preghiera e poi lancio un'ultima occhiata alla fotografia di mia madre.

- Ci vediamo il sedici gennaio.- le sussurro.

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È quasi mezzanotte. Fuori il vento sembra sfogare tutta la sua rabbia contro la finestra della mia camera, perché non sento il vetro tremare così dal terremoto di due anni fa.

Non riesco a prendere sonno con tutto questo baccano. Allungo una mano fuori dalle coperte e recupero dal comodino il cellulare e le cuffiette, nella speranza che un po' di musica possa essermi d'aiuto.

Mi infilo le cuffiette, mi rigiro nel letto per l'ennesima volta e mi raggomitolo su me stesso come un riccio, precipitando finalmente fra le braccia di Orfeo.

È raro che io non faccia sogni strani o che non abbia dei veri e propri incubi.
Infatti, sogno che Christina, la ragazza di Corbyn, mi chiede di uscire insieme a lei qualche volta. Noi due da soli.

- Sei fidanzata con il mio migliore amico.- ribatte perplesso il me stesso del sogno.

Christina sorride maliziosamente e allunga una mano verso il mio viso. Con un'unghia smaltata di nero percorre la linea della mia mascella, del collo, delle clavicole.

Le stringo il polso, impedendole di proseguire.

Lei apre la bocca per replicare, ma io scuoto la testa. Prima che abbia il tempo di fare dell'altro, Christina scompare e io mi sveglio di soprassalto.

Fuori c'è ancora buio e la musica continua a rimbombarmi nelle orecchie. Tolgo le cuffiette e sposto le coperte, sedendomi sul bordo del letto. Mi prendo la testa fra le mani, confuso e turbato.

Non mi ricordo più cosa ho appena sognato. Non appena ho riaperto gli occhi, la scena è esplosa in una miriade di frantumi come un vaso di cristallo scagliato contro un muro di pietra e tutti quei frammenti si sono spostati in un angolo remoto della mia mente, luogo al momento non accessibile ma che si farà vivo molto presto nei momenti meno opportuni.

Ormai succede ogni notte, ma non ho ancora imparato a conviverci. O meglio, non so farlo da sobrio e lucido. Con il sospiro di chi ormai fa qualcosa non più per piacere ma per abitudine, mi alzo e mi dirigo verso la scrivania. Apro il secondo cassetto, estraggo un pacchetto di sigarette e ne accendo una. Mischiate al tabacco ci sono delle foglie di marijuana sbriciolate.

Dopo le prime boccate, infatti, inizio già a sentire i nervi distendersi e le spalle rilassarsi. Vado a sedermi sul davanzale interno, distendendo le gambe. Socchiudo gli occhi e prendo un'altra boccata, appoggiando la testa al muro e godendomi questo fugace attimo di serenità, una breccia di luce nella foresta oscura della mia mente.

Venom// Jonah Marais Why Don't WeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora