Claire|| Calla

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Keith dorme profondamente poco lontano da me, mentre io sono distesa sotto alle coperte da un'ora ormai e non riesco a prendere sonno. Non faccio che passare lo sguardo dal soffitto della camera alla sveglia sul comodino a fianco al letto, sentendomi in colpa perché è già l'una di notte e fra poche ore dovrò alzarmi per andare a scuola.

All'improvviso mi viene un'idea. C'è stato un periodo in cui mio padre era talmente stressato per il lavoro che la notte non riusciva a chiudere occhio. Allora, per liberare la mente e rilassarsi, si infilava il cappotto sopra al pigiama, prendeva le chiavi della macchina e guidava per alcune miglia, fino ad arrivare al centro della città. Tornava poi indietro, faceva qualche altro giro intorno al nostro isolato e poi parcheggiava di nuovo la macchina nel vialetto d'ingresso. Ho fatto una cosa del genere solo una volta nella mia vita, ossia quando io ed Harvey ci siamo lasciati ufficialmente. è stata dura staccarsi da qualcuno verso cui per diverso tempo ho indirizzato gran parte dei miei pensieri, timori, battute, sogni, speranze. Io ero come un ghiacciaio e Harvey era parte di me. Ad un certo punto, però, la sua parte ha iniziato a sciogliersi, lenta ma inarrestabile, fino a quando io e lui non ci siamo ritrovati ad essere due stati diversi della stessa materia. Harvey era pur sempre Harvey, ma in un modo diverso rispetto a poco prima.

Ora non so nemmeno cosa mi sia preso, ma so che c'è qualcosa che non va. è come un presentimento, ma molto più reale e imminente, una leggera aura negativa che, seppur sottile, fa sentire la propria presenza.

Senza quasi rendermene conto, mi ritrovo seduta sul bordo del letto. Afferro un paio di scarpe da tennis e il portafoglio con la patente e sgattaiolo al piano di sotto, dove trovo le chiavi della berlina di mia madre appese all'ingresso. Mi infilo il cappotto sopra al pigiama rosso e bianco di Topolino e, stando attenta a fare il meno rumore possibile, esco di casa in punta di piedi, richiudendomi la porta alle spalle con accortezza. Percorro in fretta il vialetto e salgo in macchina, dove accendo subito la luce di cortesia e il riscaldamento. Secondo una scritta sul display, fuori ci sono due gradi sotto zero. Il motore si avvia con facilità e qualche momento dopo mi ritrovo a guidare con calma per le strade deserte e appena illuminate del quartiere. Allungo una mano per accendere la radio e l'istante successivo le note di "Somebody to love" dei Queen si diffondono placide nell'abitacolo. Giunta al primo incrocio decido di svoltare a destra, andando verso la periferia del paese. La tranquillità che c'è tutt'intorno a me, a partire dalla musica e dall'illuminazione soffusa delle strade fino al silenzio della notte fuori dall'auto, pian piano inizia a farsi strada anche dentro di me. Sento le mani sul volante rilassarsi e le spalle abbassarsi. Inizio addirittura a canticchiare fra me e me alcuni versi della canzone.

Ad un certo punto, proprio quando mi sono lasciata completamente andare alla musica e sto mezzo urlando uno degli ultimi versi- Can anybody find me somebody to love?- mi accorgo che c'è qualcosa che non va. Sul ciglio della strada c'è una figura piegata su se stessa, con una piccola pozzanghera, forse di vomito, raccolta ai suoi piedi. Mentre le passo accanto, la persona alza la testa e il suo volto viene illuminato dalla luce di un lampione lì accanto. Quando in quei tratti distorti dalla sofferenza, dalla vergogna e dallo smarrimento riconosco quelli di nientepopodimeno che Jonah Marais Roth Frantzich, freno di colpo. Sono sconcertata. Chissà da quanto tempo è qui, in queste condizioni, da solo. Dove sono i suoi cari amici snob e sbruffoni? Dov'è finito il piglio astuto e sfrontato di Marais?

Apro la portiera e scendo dall'auto, camminando verso Jonah. Non appena mi vede prova a raddrizzare a fatica la schiena e si pulisce un angolo della bocca con il dorso della mano. Rimaniamo a guardarci per qualche istante. I miei occhi increduli corrono sui suoi capelli castani spettinati, sulle sue braccia nude non coperte dalla t-shirt, sui suoi occhi burrascosi, con le pupille talmente dilatate che l'iride sembra esserne solo un sottile contorno chiaro. Mi viene in mente un passo del libro "Amabili resti", in cui la protagonista paragona gli occhi di sua madre all'oceano, non tanto per il colore quanto per la terrificante e spaesante profondità; è così che definirei lo sguardo di Jonah in questo momento.

Apro la bocca per dire qualcosa, ma cosa? Sembra talmente perso che non sono sicura che otterrei risposta, così mi limito a indicargli la macchina.

- Puoi darmi un passaggio fino a casa?- mi domanda con voce rauca.

- Credo che dovresti darti una sistemata prima. Non so cosa mi direbbero i tuoi genitori se io bussassi alla porta nel bel mezzo della notte con loro figlio in queste condizioni pietose.

Nel momento in cui sente la mia voce, Jonah sussulta e prende a fissarmi incredulo.

- Allora, possiamo andare?- domando, iniziando a sentirmi a disagio a causa del suo sguardo che scandaglia il mio viso e il mio corpo.

Jonah annuisce piano, così lo aiuto a camminare fino alla macchina posizionando un suo braccio attorno alle mie spalle. Mi supera in altezza di una buona ventina di centimetri, ma ora è come un burattino nelle mie mani. Lo devo aiutare persino ad allacciarsi la cintura di sicurezza, togliendogli gentilmente l'estremità dalle sue mani congelate e agganciandola. Quando mi avvicino a lui, una zaffata di alcol e dopobarba mi invade le narici, tanto che sono costretta a smettere di respirare per qualche istante, fino a quando non chiudo la portiera e faccio il giro dell'auto per mettermi alla guida. Dopo un'inversione dirigo l'auto verso il centro della città, lasciando alle nostre spalle la periferia. Alzo il riscaldamento di qualche grado e guardo Jonah con la coda dell'occhio. Mai mi sarei aspettata di trovare in queste condizioni uno dei figli di papà della scuola.

Jonah si lascia andare a un lungo sospiro e appoggia la testa al finestrino.

- Vuoi che andiamo a bere qualcosa in città?- mi ritrovo a domandargli, mossa a compassione. So che dovrei mollarlo a casa e tornarmene a letto per non cacciarmi in guai seri con i miei genitori, dato e considerato che sto guidando a velocità sostenuta all'una e mezza di notte con un ragazzo ubriaco seduto a fianco a me. Tuttavia, non so per quale motivo mi sento quasi in dovere di aiutarlo.- Ovviamente con "bere qualcosa" intendo una cioccolata o un tè o comunque niente che abbia a che fare con quella merda che ti sei scolato per ridurti in questo stato.

Jonah sorride e annuisce, bofonchiando un "va bene".

Guido in silenzio fino alla caffetteria in cui sono andata con Harvey l'altro giorno, dato che so che rimane aperta fino a poco prima delle due. La sua posizione centrale le permette infatti di essere il locale preferito di molti adolescenti che vogliono passare una serata tranquilla con i propri amici.

Dopo aver parcheggiato la macchina rovisto nel portafoglio alla ricerca di alcuni spiccioli.

- Vado un attimo dentro a comprarti qualcosa per risollevarti.- mi volto verso Marais.- Tu non ti muovere. Mi ringrazierai domani.

Sto per scendere dalla macchina, quando Jonah allunga una mano e mi tocca una spalla. Io sussulto involontariamente, nonostante il suo tocco sia leggero e delicato, quasi una carezza.

- Tu...- comincia esitante.- Frequenti la mia stessa scuola, vero?

Annuisco.

- Puoi dirmi come ti chiami? Così domani vengo a cercarti per ringraziarti come si deve, perché ora non sono proprio nelle condizioni di farlo.

- Mi chiamo Claire.

- Cal?- ripete lui con voce strascicata.

- Claire.- ripeto.

- Bene. Mi piace il tuo pigiama, Cal.- mi sorride apertamente, come un bambino, mentre guarda i disegni di Topolino sui miei pantaloni.

Nel sentirlo chiamarmi così mi viene in mente la calla, il fiore della bellezza composta. Direi che con il mio pigiama di pile la rappresento alla perfezione.

- Mi stai salvando il culo, dovrò comprarti una casa per questo.- biascica, massaggiandosi le tempie con due dita e contraendo il volto in un'espressione di dolore.

- Non serve, penso che tu ti stia umiliando anche troppo in questo stato di relitto umano. Anzi, sei stato fortunato ad aver trovato me, perché chiunque altro ti starebbe sputtanando su Facebook, mentre io mi sto sputtanando da sola andando a comprarti una cioccolata indossando un pigiama comprato nel reparto bimbi.

Venom// Jonah Marais Why Don't WeDove le storie prendono vita. Scoprilo ora