CAPITOLO 29

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ATTENZIONE: Quasi a fine capitolo, ci sarà una scena un po' cruda. Per i deboli di cuore, consiglio di saltare quella parte e a continuare a leggere il resto. Buona lettura, spero che vi piaccia.  

Mi sveglio con un mal di schiena atroce. Grugnisco dolorante, rotolando da un lato all'altro, non capendo ancora dove mi trovo. Cerco di muovere la mano per strofinarmi gli occhi, ma qualcosa me lo impedisce. Socchiudo le palpebre, guardando i miei polsi, che trovo a mio malgrado incatenati al muro. Mi metto a sedere, cercando di mettere a fuoco ciò che c'è attorno a me. La prima cosa che risalta all'occhio anche se sono al buio, è la sporcizia che mi circonda. Ratti morti si trovano negli angoli della, se così si può dire, stanza. Le pareti sono fatte di mattoni scuri, con inchiodate su di essi dei chiodi ormai arrugginiti. Scorto una sagoma tremante, rannicchiata su se stessa nel lato opposto a cui mi trovo. Cerco di avvicinarmi, ma le catene mi impediscono di muovermi più di tanto. Sbuffo frustrata, cercando di attirare l'attenzione di chiunque si dall'altra parte. "Hey, dove ci troviamo?" aspetto qualche minuto, sperando che mi risponda, ma niente. Agito le mani, creando rumore con le catene che sbattono sul pavimento, tentando in qualsiasi modo di ricevere una sua risposta. "Ti prego, ho bisogno di sapere dove mi trovo" Una voce alla mia sinistra risponde alle mie continue suppliche. <Beh, se tu non l'avessi notato siamo in un seminterrato, incatenate ai muri come delle bestie>

Volgo lo sguardo verso la persona che ha parlato, socchiudendo gli occhi cercando di intravedere la sua di sagoma. Stringo con le mani le sbarre fredde della cella, avvicinando il viso tra le fessure. "Da quanto tempo siete qui?". Nel mentre parlo, mi sembra di star chiedendo informazioni a un essere inesistente, come se stessi parlando con una voce, la quale non appartiene ad alcun corpo. <Io mi trovo in questo posto da ormai un anno, invece la muta che si trova in cella insieme a te, è qui da molto prima. Era già qui quando sono arrivata la prima volta. Gira voce che il signor Stein le abbia tagliato la lingua talmente tanto gridava. Per questo non può risponderti> i brividi si fanno sentire alle sue crude parole. "Chi sarebbe questo signor Stein?" sento la sua risata derisoria farsi largo per tutto il seminterrato. <Davvero non conosci il signor Stein? A quanto pare non sai niente di Miami cara mia> non posso fare a meno di sbuffare infastidita dal suo comportamento <Ok ok, non sei in vena di scherzi ho capito. Il signor Stein, Trotskij Stein, è a capo di tutte le bande criminali di Miami. Ormai da generazioni la sua famiglia va avanti a tenere il controllo su tutta la città di Miami. Mi stupisco del fatto che suo figlio non si sia ancora fatto avanti per prendere il trono come è sempre successo negli anni a venire.> una domanda mi sorge spontanea "Come si chiama suo figlio?" <Dornian Stein>. Al sentire pronunciare il suo nome chiudo gli occhi ricordandomi della gara di qualche settimana fa. Il ricordo di Lauren sdraiata su un letto d'ospedale in coma mi fanno salire il senso di nausea dal profondo dello stomaco. <Conosci il figlio del signor Stein?> "Si..." le rispondo con un filo di voce, non riuscendo ad alzare la voce, e troncando la conversazione.

                                                                                                         ***

Ormai è da un po' che mi trovo in questa cella, forse anche giorni, ma non essendoci una finestra in tutto questo seminterrato, non posso saperlo. La ragazza che si trova in cella con me non ha aperto bocca per tutto il tempo, rimanendo zitta così come Natalina, la ragazza della cella di fronte, aveva previsto quando sono arrivata qui per la prima volta. Io e Natalina abbiamo continuato a fare conversazione tutto il tempo, ricevendo di rimando grida di noia e frustrazione dalle ragazze che si trovano qui con noi, che ho scoperto essere una ventina. Si trovano tutte qui da prima di Natalina, infatti, nessuna di loro si azzarda a parlare liberamente così come io e l'altra ragazza facciamo. Secondo Natalina, tutte loro sono state "addestrate come dei cagnolini". Questa è l'espressione che ha usato per descrivere ognuna delle ragazze, che questa volta, a differenza di tutte le altre volte in cui Natalina non si è risparmiata a prenderle in giro con insulti incessanti che duravano lunghissimi minuti, non hanno parlato, limitandosi ad un silenzio tombale, come se stessero acconsentendo ad un qualcosa che nessuna di loro volevano accettare, ma obbligate a rispettare delle regole disumane. Raramente qualcuno è sceso a controllare come stessimo. Di solito un ragazzo giovane scendeva, presumo sempre nello stesso orario, a portarci del pane ormai duro da giorni, con un bicchiere d'acqua che aveva un sapore amaro. Ci limitavamo a stare sedute a contare le crepe sui muri e sui pavimenti per distogliere l'attenzione da ciò che ci circondava. Si poteva sentire a volte qualcuna delle ragazze tossire o mugolare di dolore. Le catene che sbattevano tra di loro, erano l'unico rumore che non smetteva per un secondo di risuonare nelle rispettive celle. Anche le chiacchiere che ci scambiavamo io e Natalina, cessavano per un certo periodo.

The Last Word: Goodbye (Camren)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora