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Nascosta dalle montagne e da una strana coltre di nebbia che si mescola alle nuvole sembrando un unico pezzo di terra incastrato nell'erba, esiste Oakville, uno dei posti più umidi e freddi che io abbia mai visto.
Da questo posto mi sono allontanata all'età di sei anni insieme a mia madre che mi portò con sé arrabbiata e infelice. Non l'ho più rivisto neanche per le vacanze.
E adesso eccomi qui in esilio a causa del mio carattere, della mia lingua lunga e del mio disgusto verso la scelta degli uomini della donna che mi ha messa al mondo.
Detesto questo paesino e detesto attualmente anche lei per avermi spedita come un pacco in questo posto dimenticato da Dio.
Ciò che più mi ripugna è l'aria sempre fredda, l'umidità che si attacca sulla pelle d'estate e la gente del posto: impicciona, bigotta e chiusa mentalmente. Le famiglie presenti sono poche.
Ormai mi ero quasi abituata al caos della città balneare, al sole cocente, alla spiaggia nelle vicinanze e al divertimento. Qui dubito ci sia un cinema o un posto in cui potere stare per divertirsi.
Ma che cosa ne posso sapere?
Ero solo una bambina quando mia madre ha tradito l'uomo della sua vita per uno che l'ha lasciata pochi giorni dopo con una scusa.
Per arrivare a Oakville ci vogliono un paio di ore più altre due su un piccolo autobus sgangherato che puzza orribilmente di vecchio, di muffa e naftalina.
Non mi disturba, se non fosse che odio viaggiare sui mezzi pubblici. Soffro terribilmente il mal d'auto e per questa ragione sto cercando molteplici distrazioni mentre con le cuffie alle orecchie e una gomma in bocca alla menta tento di non sentire la nausea che continua a salire ad ogni scossone.
Mio padre o William Wilson come lo conoscono tutti, è stato informato dei fatti solo qualche ora fa da mia nonna ma si è comportato bene, più o meno. Non sembrava dispiaciuto di sentirla mentre lo avvertiva del pacco consistente che avrebbe dovuto recuperare.
È stata mia nonna a dirgli tutto visto che "l'adulta" di mia madre non vuole più parlare con lui.
Il divorzio, le pratiche, gli incontri, tutto all'inizio è avvenuto a distanza tra loro. Vedevo mio padre per un'ora o due al parco o in spiaggia prima di lasciarlo partire con un enorme magone e un senso di impotenza terribile.
Poi ha smesso. Io ho smesso. Gli assistenti sociali e lo psicologo hanno smesso e la mia vita ha preso una strana piega.
A quanto pare, mio padre è felice di avermi di nuovo a casa con lui. Così tanto che mi ha iscritto subito a scuola, nell'unico istituto presente dove studierò nei prossimi mesi.
Ma questo non è un problema per me. Sono sempre stata brava a scuola. Mi è sempre piaciuto studiare, informarmi, imparare tutto. Mi sono adattata anche nella vita e adesso mi toccherà mettere in pratica ciò che ho imparato in questi anni.
Mio padre non sarà neanche un problema visto che lavora giorno e notte e non è mai in casa. Oltre ad essere il sindaco della piccola cittadina, è anche un medico. L'unico nella zona.
Ho sempre pensato che fosse sprecato per questo ambiente così chiuso e opprimente, ma a lui piace vivere da eremita ed io mi farò bastare questa punizione esilarante e dolorosa per il resto dei miei giorni.
Il pulmino traballa ad ogni buca e per un attimo vengo spinta dalla voglia di mettermi ad urlare di fermarsi al conducente per potere proseguire a piedi, ma mi perderei tra i boschi qui presenti.
Gli alberi sono così alti da offuscare la vista del cielo. È così lugubre intorno da farmi rabbrividire. I colori predominanti sono il verde e il marrone.
Un cervo attraversa la strada velocemente scomparendo dall'altro lato. Era da tempo che non ne vedevo uno.
Inizio a sentirmi in ansia quando noto la prima insegna di legno ai bordi della strada tenuta in piedi da due tronchi levigati.
Non riesco proprio ad immaginare di cosa riusciremo a parlare con mio padre. So per certa che mi farà tante domande evitando ampiamente il discorso "mamma".  Ma sarà difficile nascondergli che in realtà ho sempre odiato questo paesino perché ci stavo male. I bambini erano terribili nei miei confronti e ho ricordi davvero orribili del periodo dell'asilo e delle elementari. La mia infanzia costellata da incubi e sconfitte. Troppe per una bambina dall'animo fragile.
Il primo anno delle elementari poi è stato più che difficile, in ogni senso. Quindi per me andare via a metà anno scolastico è stato in parte un sollievo.
L'autobus si ferma alla stazione di servizio. L'unica presente e pure intaccata dal tempo. Persino le persone che la popolano attualmente sembrano arrugginite e malmesse.
L'autista voltandosi, ci annuncia della fine della corsa chiedendoci gentilmente di scendere augurandoci una buona serata, visto che siamo ormai quasi al tramonto.
Prendo le mie cose scendendo i primi gradini che scricchiolano venendo investita dall'odore di terreno umido ed erba bagnata.
I tizi seduti davanti il piccolo negozio di tabacchi, mi fissano ad ogni passo come se fossi un'aliena pronta a farli fuori.
Evito di guardarli. Arriccio il naso girando intorno per avere la consapevolezza di essere davvero qui, prima di vederlo.
Mi fermo a metà strada. Pochi metri a dividerci.
Non è cambiato di una virgola e, ad essere sincera mi meraviglia che mamma lo abbia tradito per un altro.
Papà è un bell'uomo, di indole pacata. Un po' troppo silenzioso e dedito al suo lavoro ma è un brav'uomo.
Mi sorride staccandosi dalla sua auto sportiva nera tenuta in perfetto stato e a lucido, una delle tante che credo abbia ancora in garage per la sua passione, insieme ai camici e allo sport.
Mi agito internamente avanzando verso di lui come se stessi salendo al patibolo. Mi preoccupa quello che sta pensando mentre i suoi occhi mi fanno una scansione veloce ma meticolosa, facendomi sentire inadatta. Proprio come hanno fatto poc'anzi quegli uomini che continuano a seguirmi con malcelata curiosità.
A volte mi chiedo come sia possibile essere nata diversa dai miei genitori e non fisicamente ma per gli atteggiamenti quindi inerente al carattere e alle ambizioni. Mi sento adottata il più delle volte. Poi ripenso al giorno in cui mio padre ha chiesto il test del dna per assicurarsi che fossi sua figlia a tutti gli effetti e non il frutto di un tradimento andato male e mi tranquillizzo.
«Ciao pulce!»
Mi lascio abbracciare anche se sono un po' impacciata. Il nomignolo appena usato mi rievoca subito alla memoria quei giorni in cui veniva a prendermi a scuola e si inginocchiava aprendo le braccia con il suo sorriso e le sue frasi di circostanza che facevano invidia a tutti gli altri bambini, quelli che mi odiavano.
All'inizio non era un padre assente poi però le cose sono cambiate quando ha iniziato a spostarsi dove veniva richiesto il suo aiuto e mamma ne approfittava per vedersi con le amiche al bar e a quanto pare anche con l'amante, quello di una vita. Poi papà l'ha scoperto, l'ha messa alla prova ed infine l'ha buttata fuori di casa senza pensarci un secondo. Ed io mi sono trovata nel mezzo ad odiarmi, a sentirmi in colpa.
«Ciao», lo saluto goffamente staccandomi in fretta.
Mi guarda attentamente emanando il suo tipico charme e l'odore intenso della colonia che non ha mai cambiato.
«È davvero bello rivederti, Erin», dice indossando gli occhiali da sole nonostante non ce ne sia bisogno, afferrando le valigie. Forse lo fa per non imbarazzarmi. In fondo è da tempo che non ci vediamo e se si aspettava un abbraccio e le solite moine da spostate romantiche si sbagliava di grosso. Non è da me.
«Tua nonna mi ha avvisato che arriveranno altri bagagli in questi giorni.»
Prova a fare conversazione ma so benissimo che a breve sarò costretta a raccontargli la ragione di questo viaggio così improvviso.
Mi stupisce che non sia già passato al dunque. Non è proprio da lui.
Evito di scrutarlo per non richiamare l'attenzione su di me. Infilo i pugni dentro le tasche del giubbotto di pelle.
«In realtà è tutta roba estiva e qualche libro dentro una scatola, niente di adatto», vorrei aggiungere "a questo posto", ma è sottinteso.
Carica in auto i bagagli senza il minimo sforzo. Non sono poi così piene e pesanti. Lì dentro c'è il minimo indispensabile. Quello che ho sempre portato dietro ad ogni trasferimento.
«Vorrà dire che troverai qualcosa di nuovo da mettere in negozio», risponde risoluto come al solito.
Mi guarda ancora un momento. Mi sento a disagio nella mia stessa pelle quando mi fissano. Non so come spiegare ma quando succede per troppo tempo, vorrei strapparmi la carne di dosso per guardarla e capire cosa vedono di sbagliato. Forse sono solo paranoica perché ormai vedo tutto nero, soprattutto le giornate future.
«Che cosa hai fatto ai capelli?»
Per istinto tocco la crocchia scomposta. Come li ricorda?
«L'ultima volta erano tagliati sulle spalle e li avevi biondi. Adesso sembrano lunghi e sono colorati.»
«Qualche tinta. Li ho avuti azzurri, verde acqua, lilla e adesso fucsia sbiadito e li ho fatti crescere», muovo la cipolla rispondendo alla sua domanda inespressa. «L'ho fatto anche per darmi un tocco di colore, visto che vesto sempre di nero.»
«Deduco sia stata tua madre a permettertelo. E quel piercing?»
Sfioro il piercing al naso oltre a quello sull'orecchio leggermente a punta che ho ereditato da qualcuno e che ho deciso di coprire con un anellino argentato.
«Niente di doloroso. Li ho fatti in un centro specializzato mentre ero con degli amici in vacanza. Era da tempo che li volevo.»
Cambia marcia abbassando il volume della radio sintonizzata sul canale sportivo che attualmente non segue. In qualche modo sembra interessato alle poche informazioni che gli sto offrendo come briciole di una vita di cui non ha fatto parte.
Forse lo sto facendo perché possa sentirsi in colpa. Per capire quello che si è perso. In fondo, non sa come ho passato la mia vita negli ultimi anni.
E mentre lo guardo sento dentro divamparmi il fuoco della delusione, il senso di mancanza che ho sempre tenuto dentro cacciandolo all'angolo mostrandomi indifferente.
Non ho niente da dire eppure ho bisogno di lasciare uscire tutto. Dalla prima cosa che ho pensato quando mi ha lasciato andare all'ultima che ho pensato prima di rivederlo. Ma in entrambi i casi, a lasciarci il cuore, sono e sarò sempre io.
«Hanno adottato le misure igieniche spero.»
È fissato con la sterilizzazione degli strumenti e con i germi. È un medico, mi sembra ovvio.
«Si, hanno usato i guanti, i prodotti disinfettanti e gli aghi usa e getta.»
Inumidisce le labbra passando la mano sulla barba curata con qualche filo argenteo. «Ne hai altri?»
«Uno all'ombelico e...» alzo la manica del giubbotto di pelle mostrando il microdermal sul polso. Quando lo muovo la pietra manda piccoli bagliori ovunque. 
Contrae la mandibola. «Altro? Tatuaggi nascosti o...»
Corrugo la fronte. Perché queste domande? Sono un problema per lui?
«Non ancora.»
Dal modo in cui mi guarda capisco che sarà meglio tenere le battute per me e di non fare casini, soprattutto non avere strani colpi di testa nei prossimi mesi. Questo non è di certo il mio territorio, ormai continuo a ripeterlo da quando sono scesa da quel pulmino.
Il viaggio verso la villa di papà procede silenzioso.
Abbasso il finestrino respirando l'aria fresca che filtra dallo spazio tra il vetro e la gomma dello sportello. Fisso la distesa di alberi, qualche tronco coperto dai funghi e dal muschio. È così suggestivo. Ed è così strano essere qui dopo tanti anni.
Superiamo il paesino che sembra essere stato trasformato interamente. Non è più un mucchio di casette antiche ma di abitazioni moderne e colorate seppur rispettando lo stile del posto.
Non faccio una delle tante domande per evitare di prendere discorsi inutili.
Non amo perdermi in chiacchiere, tanto meno fare cose futili e prive di senso.
Alla fine giungiamo a casa di papà.
Vive in una villa apparentemente spaziosa, il che mi solleva.
Non è di certo la stessa casa in cui vivevamo tempo addietro. Sinceramente non mi dispiace affatto. Ciò significa che anche lui alla fine è riuscito ad andare avanti e che le cose in qualche modo sono cambiate nella sua vita, forse in meglio.
«Eccoci», dice sorridendomi uscendo dall'auto dopo avere parcheggiato sul vialetto acciottolato.
Porta subito le mie cose dentro, forse lieto che io abbia con me solo una valigia, uno zaino e un borsone.
Uscendo dall'auto mi giro intorno. Anche qui lo stesso paesaggio. Ville, alberi e verde.
Entro quasi in punta di piedi in casa ritrovandomi in uno stretto corridoio in grado di diramarsi in due stanze con al centro una scala bianca con un tappeto posizionato sopra per non rovinare il legno dei gradini.
Le pareti sono di un comune bianco. Mi sanno tanto di struttura ospedaliera. Un appendiabiti alla mia sinistra a poca distanza un vaso.
L'arco è circondato da due colonne, quando sbircio conduce ad un soggiorno grazioso adiacente alla cucina piccola ma confortevole. Giro la testa e alla mia sinistra trovo lo studio e il bagno.
Papà spunta dalla scala. «Sali, ti mostro la tua stanza», alza il tono.
Reggendomi al corrimano salgo al piano di sopra trovando altre quattro stanze. In una c'è la sua camera da letto mentre la mia si trova in fondo al corridoio.
Sbircio quasi spaventata al pensiero di trovare qualcosa di rosa e invece alle pareti c'è lo stesso identico bianco su un parquet che ha un colore tendente al grigio.
La stanza apre la vista sul giardino regalando anche uno sprazzo del paesino, delle montagne e del bosco. Suggestivo ma non mi è familiare come ambiente.
I mobili dentro la stanza sono in stile moderno. Un letto a una piazza e mezza coperto da un piumone grigio ghiaccio e due cuscini abbastanza enormi. Due comodini ai lati su cui poggiano due lampade. Un armadio a parete abbastanza capiente, un tappeto al centro della stanza bianco morbido. Una scrivania di fianco alla finestra coperta dalla tenta che attualmente svolazza sospinta dalla brezza fredda e una libreria apparentemente nuova e terribilmente spoglia con accanto una poltrona e una lampada alta. Non ci sono quadri o foto. Non ci sono poster. Non c'è niente attaccato alle pareti.
Qualcuno deve avere arredato al posto suo questa casa. Dubito che a lui importi qualcosa degli interni visto che non sembra neanche vissuto questo posto.
L'unica cosa davvero bella è il fatto di avere un bagno tutto mio. Quindi non dovrò condividere niente con nessuno.
Papà ha lasciato le mie cose all'angolo, accanto alla porta.
«Ti piace?» strofina i palmi sempre morbidi.
«Non dovevi prendermi un computer», lo indico sulla scrivania. Un iMac di ultima generazione.
Alza le spalle. «Non sapevo se ne avevi già uno tutto tuo», appare improvvisamente a disagio come se avesse commesso il primo errore.
Per toglierlo dall'imbarazzo perché capisco come deve sentirsi: lo abbraccio, seppur brevemente. In fondo, non è stata colpa sua questa distanza.
«Grazie», non dimentico le buone maniere. «Ho solo un portatile comprato con i soldi guadagnati quando ho aiutato nonna al ristorante.»
Appare meno teso. «Bene, ti lascio ambientare. Se ti serve qualcosa sono di sotto. Si cena dopo le otto.»
Annuisco e rimasta sola chiudo la porta appoggiandomi contro la superficie lasciando uscire un lungo sospiro.
Mia madre la pagherà per tutto questo. Continuo a ripeterlo per non perdermi d'animo.
Rimboccandomi le maniche, sistemo ogni cosa come meglio credo e voglio sentendomi stranamente rilassata.
In fondo non è andata poi così male per come credevo. Non mi dispiacerà stare per conto mio, senza essere obbligata a comportarmi in un certo modo solo per compiacere chi mi sta intorno. E non dovrò sopportare tutti quegli uomini orribili pronti ad approfittarsi di me.
Mi sento quasi sollevata anche se già sento la mancanza del caldo, del rumore del mare, persino di Ryan.
Guardo avvilita dalla finestra. Per pochi minuti mi sento persa e caduta nel passato. Quello di cui ho ancora tanta paura e che andandomene credevo di potere lasciare alle spalle.
Dopo avere fatto una lunga doccia togliendomi di dosso il sudore e la puzza di quel mezzo odioso, nel bagno piastrellato di bianco e nero, con la vasca, il lavandino e il water marmorizzati di un nero pazzesco, scendo al piano di sotto.
Trovo papà ai fornelli. Sta rigirando delle cosce di pollo sulla padella insieme a carote, cipolle e patate.
Attorno c'è un buonissimo odore di salsa piccante. La sua specialità.
A quanto pare vuole impressionarmi cucinando un piatto che preparava spesso la domenica. Il giorno in cui era a casa per il pranzo.
Le maniche della camicia arrotolate, il viso serio e i gesti meticolosi, da chirurgo. Si volta sorridendomi. «Hai fame spero. Sei magra e pallida.»
«Sono sicura di abbinarmi perfettamente all'ambiente», esclamo senza riflettere. «Non amo abbronzarmi», aggiungo.
Papà rimane con la spatola in mano. Riscuotendosi riempie i piatti posandoli sul ripiano dove si trovano due sgabelli alti con il cuscino rosso di pelle.
Lavo le mani poi mi siedo aspettandolo.
Riempie due bicchieri di vino porgendomene uno.
«È davvero bello averti qui. Vedrai che ti piacerà rivedere qualche vecchio compagno a scuola.»
Tracanno il bicchiere sotto il suo sguardo per evitare di sputarlo fuori.
«Come sei riuscito a farmi iscrivere al quinto anno senza problemi?»
Mangia con le mani. Sembra diverso da come lo ricordo. Spezza il pane e poi divide il cibo a piccoli bocconi.
Questo gesto mi mette a mio agio e lo imito insozzandomi le dita di olio e salsa.
«Essere sindaco ha i suoi vantaggi», mi sorride pulendosi le mani. «Non preoccuparti di questo. Hanno visto i tuoi voti e non hanno fatto problemi.»
«Ma sono solo passate poche ore come sei riuscito ad organizzare ogni cosa?»
Inumidisce le labbra corrugando la fronte. Quando lo fa gli si forma una linea marcata tra le sopracciglia.
«Non lo sai?»
Il mio cuore prende a battere frenetico nel petto. Percepisco persino uno strano fischio alle orecchie.
«Sapere che cosa?»
Porta i piatti vuoti dentro il lavandino poi esce dal frigo una torta al cioccolato e lamponi.
«Tua nonna mi aveva chiamato tempo fa avvertendomi che presto tua madre ti avrebbe mandata qui perché riteneva giusto che tu passassi un po' di tempo con me. Non te ne ha parlato?»
Corrugo la fronte sentendo sul petto divampare il fuoco. Mio padre non sa un bel niente ma a quanto pare neanche io dei piani di mia madre di scaricarmi qui.
«Quindi non sai perché sono venuta senza preavviso ma eri già stato avvisato che prima o poi ti avrei fatto visita», la mia non è una domanda.
Papà taglia due fette di torta passandomene una. «Direi di no. Tua nonna mi aveva solo detto che c'era la possibilità di rivederti ed io ho accettato. Sei mia figlia. Vuoi rendermi partecipe di quello che hai fatto?»
Sedendosi accanto a me mi guarda intensamente. «Tua nonna mi sembrava preoccupata quando ci siamo sentiti dopo tanto tempo e ieri è stata alquanto evasiva e sbrigativa. Che cosa hai combinato? Che cosa le ha fatto cambiare idea a tua madre così in fretta?»
Poso la forchetta sul piatto. «Non so se lo sai ma la mamma è a quota sette. Mi sono ritrovata alla sua festa di fidanzamento senza saperlo e ho reagito male perché Harvey, l'attuale compagno di mamma, non merita di essere usato da lei. Così ho fumato con un amico in spiaggia e bevuto e... ho dato accidentalmente fuoco alla casa.»
Non sembra seguirmi perché sto parlando velocemente. «Rallenta. Che cosa hai fatto?»
Sento le guance infiammarsi. «Ho vomitato sulle scarpe di Harvey perché avevo bevuto un vino vecchio e abbastanza forte e fumato qualcosa e accidentalmente sono barcollata in avanti e inciampata, la bottiglia è volata sul barbecue che il nonno aveva acceso. Lo so sembra impossibile nonché assurdo ma è successo tutto in un nano secondo. Così la mamma mi ha urlato contro di essere la sua rovina e mi ha spedita qui. Ma a quanto pare aveva programmato da tempo alle mie spalle ogni cosa e ha solo colto la palla al balzo per starsene da sola con il suo futuro marito.»
Sembra riflettere su qualcosa. Il suo sguardo si è appena indurito. Notando che non ho ancora finito la porzione di torta, alzandosi più che in fretta dice: «La torta la metto da parte per dopo. Se ne hai voglia la trovi in frigo», mi avverte senza reagire.
Quando prova a lavare i piatti lo raggiungo. «Lascia, faccio io.»
«Ok, dammi un momento. Devo fare una chiamata.»
Annuisco e per distrarmi mi metto al lavoro. Sto riordinando la cucina cercando di ambientarmi per non dovere chiedere continuamente dove si trovano le cose quando sento levarsi alta la sua voce. Rimbomba in queste pareti che sembrano fatte di carta.
Asciugo le mani avanzando verso il corridoio lentamente, come una spia. Sbircio dall'arco. La porta del suo studio è socchiusa e la sua voce si sente abbastanza forte. È irato.
Mi siedo sui gradini delle scale ad ascoltare la sua sfuriata.
«Come ha potuto farle una cosa del genere solo per un incidente? Se voleva stare da sola doveva pensarci diciassette anni fa a lasciarla qui e non a farla vivere come una teppista. Non può comportarsi ancora da bambina. Deve iniziare a prendersi le sue responsabilità e capire che è una madre.»
Porto le gambe al petto. Finisce sempre così tra di loro.
«No, no che non ascolto. Ha mandato mia figlia come un pacco postale solo per levarsela dai piedi dopo averla sballottata da un posto all'altro senza mai darle una stabilità. Erin ha capito tutto!»
Sbatte il pugno contro una superficie. Sussulto.
«Si, ho proprio un bel messaggio per lei. Dille che non rivedrà più sua figlia perché non merita di averla. Erin ha sofferto abbastanza!»
Il mio cuore sta battendo violento nel petto.
«No, non tornerà più indietro da quella donna. Farò in modo che le venga tolto l'affidamento.»
Quando lo sento imprecare decido di smettere di ascoltare perché tutto questo sta diventando insostenibile alla mie orecchie e corro in camera mia dove mi rifugio sedendomi sulla soglia di marmo davanti la finestra che spalanco lasciando entrare in camera il freddo.
Qui penso proprio di sistemare un cuscino. Saranno tante le notti che passerò insonni dopo avere saputo la verità. Soprattutto dopo avere ascoltato le parole di mio padre.
Vorrei poter dire che alle delusioni o alle ferite inflitte dalle persone che amiamo tanto prima o poi ci si abitua. Ma nonostante tutto, la verità è che non ci abituiamo mai perché siamo accecati dai sentimenti che continuano a farci vedere il bene nel cuore di chi non ne ha.
Sento due colpetti alla porta. Papà, notando la porta socchiusa sbircia prima di entrare. Osserva come ho reso meno impersonale la stanza ma non commenta sulla scarsità di colore o foto.
«Volevo assicurarmi che stessi bene.»
«Si, stavo andando a dormire. Sono un po' stanca. Quando inizia la scuola?»
«Tra una settimana esatta.»
Annuisco. «Bene. Allora in questi giorni farò qualche acquisto.»
Si spinge verso la porta poi voltandosi dice: «Non pensarci troppo.»
Stupita dalle sue parole mi rannicchio sul letto che odora tanto di ammorbidente ai fiori. Mentalmente mi preparo alla settimana che passerò ad esplorare questo posto e al primo giorno di scuola. La parte che temo di più.

♥️

N/a:
Buona sera, come state?
Ecco a voi il primo capitolo della storia. Dopo essere stata cacciata dalla madre, Erin si è ritrovata in viaggio, sola e con tanti pensieri e paure a riaffiorarle dal passato vissuto insieme a lei e al padre che, non vedeva da anni ormai. La cosa che più teme però è il ritorno a scuola. Che cosa succederà?
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto. Scusatemi per gli errori (ormai lo sapete che non sono una scrittrice). Tornando a noi, vi chiedo di lasciare un voto e un commento e se vi va di inserire questa storia nei vostri elenchi per ricevere gli aggiornamenti.
Grazie di cuore a chi seguirà questa storia e mi aiuterà a farla conoscere più gente.
Buona lettura,
Giorgina❄️

Come crepe sull'asfaltoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora