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BRADLEY

Le cose che non ti aspetti arrivano senza programmi, in una comune giornata. Erin è arrivata nella mia vita, in un momento abbastanza particolare. Non ha chiesto il permesso. Non ha neanche bussato alla porta del mio cuore. È entrata con irruenza, con i suoi occhi spenti e freddi, con quel carattere chiuso, la mente in disordine e l'infelicità tatuata sotto pelle. Per me, il suo arrivo, è stato un piccolo miracolo che non voglio sprecare.
Ho tutta l'intenzione di vivermi attimo dopo attimo, senza avere rimpianti. Voglio impegnarmi davvero. E so che sarà dura convincerla di non essere come gli altri, ma sono disposto a giocarmi tutto pur di dimostrarle che faccio sul serio.
Per la prima volta mi sento vivo. Mi sento deciso e pronto a portare avanti un qualcosa in cui sto iniziando a credere senza riserva. E so che con ogni probabilità a rimetterci il cuore sarò solo io, ma non ho nessuna intenzione di rinunciare. Preferisco una ferita profonda nel petto che ignorare quello che sento.
Erin attende una mia risposta preparandosi a qualsiasi cosa. Lo vedo che non ha mai smesso di soffrire. Noto anche che aspetta tormentandosi il labbro. Che cosa si aspetta che dica?
«Ci tengo anche i vestiti», esclamo.
Il suo sorriso e poi di nuovo quella sua espressione concentrata, quasi nervosa, mi fa capire che dobbiamo parlare seriamente di questo argomento, di chi sono. Che ne ha bisogno per superare qualcosa che si annida dentro la sua testa.
I miei occhi vagano intorno. La luce del sole rende i suoi capelli pieni di sfumature più chiare mentre i suoi occhi sono come l'acqua di un ruscello. Ma ci leggo dentro il tormento. Il bisogno di conoscermi, di sapere se ho un passato da dimenticare come il suo.
Il parco non è di certo il luogo adatto per simili conversazioni. Allora mi alzo dal prato porgendole la mano. «Andiamo a parlare in un posto più tranquillo di questo.»
«Perché hai qualcosa da nascondere? Hai ucciso qualcuno e lo tieni davvero dentro l'armadio?»
Nego trattenendo a stento una risata nervosa. Perché pensa che io abbia qualcosa da nascondere?
Non so se sentirmi offeso. Poi però comprendo la sua sfiducia nel genere maschile. Si è fidata di qualcuno che l'ha fatta sentire inadatta, insicura, indifesa. Il cuore mi si strizza come una pallina anti-stress.
«Potrei essere paragonato all'acqua, trasparente, ma so che non mi crederesti perché le parole sono solo un'arma con cui ci difendiamo o mentiamo. Quindi, preferisco rispondere a tutte le tue domande sedendomi da qualche altra parte, guardandoti dritta negli occhi e mostrandoti il mio mondo.»
La mia risposta sembra incuriosirla e allo stesso tempo agitarla. Sui suoi occhi passa un'ombra di insicurezza che la rende, ai miei, così fragile da farmi paura.
Ha davvero vissuto l'inferno...
Si alza assumendo una posa innaturale. Direi plastica. «Va bene, parliamo. Ma niente scherzi. Voglio davvero sapere qualcosa di te per conoscerti meglio.»
La tengo per mano e lei me lo lascia fare. Ha superato questo primo ostacolo senza esitare o lamentarsi.
Mi fa uno strano effetto camminare così. Non l'ho mai fatto, neanche quando ero adolescente. Credevo che fosse un qualcosa di speciale da fare. Il cercare una connessione con qualcuno usando il tatto. In fondo, è attraverso la pelle che sentiamo con maggiore intensità determinate emozioni.
Guardo le nostre dita intrecciate facendomi beccare come un bambino con le mani dentro il barattolo del miele. Non sorride, fissa la strada davanti a sé.
«Non credere di essere l'unica ad avere problemi di fiducia», le dico, ammettendo in parte qualcosa su di me che non credevo di riuscire a mostrare a qualcuno. Sono sempre stato un po' così, sulle mie. Non sono mai riuscito a dimostrare più di tanto affetto. Il fatto che con lei mi riesce tutto in maniera così naturale, mi preoccupa. Significa che ho perso la testa, il controllo.
Morde il labbro per non tempestarmi di domande. «Perché stiamo tornando al locale?»
Nota ogni dettaglio con attenzione. Non si lascia di certo distrarre. Questa è una delle cose che apprezzo di lei. Dall'altro lato però mi fa capire che sarà dura farla sciogliere quel tanto che basta perché di fidi un po' più di me. Forse ha solo bisogno di capire le mie intenzioni, mi dico. Ma io voglio conoscerla. Voglio continuare ad ascoltare il suono della sua voce, rispondere alle sue provocazioni. Non cerco una distrazione o di usarla per una notte. Cerco lei, persa chissà dove nel suo vagone dei ricordi appesantito dal dolore. Se solo fosse facile raggiungere il suo cuore coperto da così tante lame.
«Perché ho lasciato lì la mia auto.»
Si fa sempre più guardinga. «E dove intendi portarmi?»
Non ho ancora pensato ad un posto. Nessuno sarebbe all'altezza. Poi di colpo penso ad una soluzione. «Visto che casa tua è invasa dalla presenza ingombrante di una persona che attualmente non mi va a genio, ti porto a casa mia.»
Si ferma e per poco le nostre mani non si staccano. «Non sarebbe meglio una zona neutrale?»
Perché è così nervosa?
Fingo di riflettere. «No, devo mostrarti il mio armadio e il posto in cui vivo. Devo anche presentarti qualcuno e se non ti accetta non possiamo continuare a vederci.»
Rimane di stucco e in parte anche male. Questa sua reazione mi fa ridere. «Andiamo, non fare la fifona. Seguimi.»
La tiro a me e barcolla leggermente prima di riacquistare l'equilibrio. «Se non va bene, mi riporti subito a casa», trattiene il fiato entrando in auto.
Allaccio la cintura e noto che ha già inserito la sua. La sua gamba comincia dapprima a muoversi poi a ballare in un su e giù frenetico, segno evidente che è nervosa e ansiosa.
Avvio il motore dell'auto facendo marcia indietro per uscire dal parcheggio. Mi immetto in strada. C'è molto traffico dopo pranzo. Indosso gli occhiali con le lenti scure per schermare gli occhi dal sole e per nascondere lo sguardo che di tanto in tanto si posa sul piccolo esserino che si è appiattito contro il sedile senza dire una parola.
Abbasso i finestrini e lei guarda dall'altra parte come se stesse studiando l'ambiente mentre riflette su qualcosa torturandosi le mani. I suoi capelli svolazzano ovunque e li lega in una crocchia alta disordinata. Poi torna ad immergersi in qualche pensiero senza darmi la possibilità di farne parte.
Quella camicia leggera le stringe i fianchi perfettamente. Mi piace tutto quello che indossa. Anche i tacchi che visti da vicino sono troppo alti per lei.
Gli prendo la mano che sta torturando portandola in grembo. Ha sempre le mani fredde. Non oso immaginare come sarebbe sentirli sul petto nudo e sulle spalle. Sono lisce e oggi odora tanto di crema alle mandorle.
Sento che ha bisogno di una rassicurazione, per questo mi sto comportando da perfetto gentiluomo. Niente battute, niente frasi ad effetto.
«Non ti sto sequestrando», prendo la chiave di casa passandogliela. «Ti sto solo portando in un ambiente tranquillo.»
Lei osserva la scena turbata.
«Così potrai uscire quando vuoi», le spiego facendo cadere le chiavi sulle sue gambe.
Fa una smorfia. «Non è un gioco», replica freddamente, stizzita. Prova a ritirare la mano e la trattengo mentre guido raggiungendo il mio quartiere che si trova nella zona di "Pioneer Square". Il centro storico pieno di botteghe d'antiquariato e gallerie d'arte. Un posto non molto sicuro di notte a causa dei locali sempre pieni di gente che sa come raggirarti, ma caratteristico. Inoltre la parte in cui abito io è una zona sicura. Infatti ci vivono molte famiglie.
«Ti sembra che a me piaccia scherzare su queste cose? Non avere pregiudizi su di me, Erin. Voglio solo metterti a tuo agio, senza pressione. E voglio che ti fidi di me. Per iniziare devo mostrarti dove vivo. Le mie chiavi di casa sono in tuo possesso per qualche ora. Tienile fino a quando non saremo di ritorno.»
Rigira il portachiavi guardandolo quasi altrove con la mente. «Nemo? Adori i pesci?»
«È un souvenir che ho acquistato in un viaggio con mia nonna. Lei ha Marlin.»
«A me regalerai quello di Dory?»
Sorrido intuendo di averla recuperata dal turbine oscuro in cui era caduta.
Mi chiedo se riuscirà mai a parlarne senza soffrire. Se mi racconterà quello che ha vissuto. Se sarà mai in grado di andare avanti, lasciandosi tutto alle spalle.
«Lo vuoi?»
Osserva ancora il portachiavi sfiorandone i contorni. «Mi piace di più Nemo.»
La guardo nascosto dalle lenti scure. «E Nemo sia!»
Si volta per capire se la sto prendendo in giro o se sono serio. Non mi conosce. Io mantengo sempre quello che dico.
Mi giro leggermente verso di lei lanciandone un'occhiata breve ma intensa e si agita sul posto. «Impieghi quindici minuti per raggiungermi», indica la strada. Sta contando?
«Dipende dal traffico e dalla velocità.»
«È bello qui», fissa i quartieri antichi come una turista e capisco che non è mai stata in questa zona. Sono quasi soddisfatto dalla reazione che sta avendo, dopo il breve attimo passato in secondo piano con la questione del portachiavi.
Sollevo la sua mano posando sul dorso un lieve bacio e lei stringe la presa sul labbro.
Arrossisce chiudendo le gambe.
Questa reazione mi stupisce. Devo avere anch'io un certo effetto su di lei.
Trovo un posto libero sotto casa e quando scendo dall'auto aprendole la portiera lei, mentalmente, prova ad indovinare dove vivo. Guarda subito il mio palazzo di mattoni rossi con le ampie vetrate poi girandosi osserva tutto il resto fotografando i dettagli come se non dovesse più tornare.
La conduco davanti il portone di ferro. «A te l'onore!»
A quest'ora i vicini sono soliti uscire di casa con i loro cani. Ci incontriamo spesso per strada. Quando mi vedono con Erin, si limitano a brevi cenni del capo.
È la prima volta che porto qualcuno a casa mia. Una ragazza non è mai entrata nel mio appartamento e non so che cosa aspettarmi.
Prende le mie chiavi scegliendo quella giusta e una volta aperto l'alto portone, la lascio passare. Lei sbircia all'interno mettendo un piede dopo l'altro. Camminiamo lungo il corridoio superando la prima porta per raggiungere la scala. C'è odore di minestrone e disinfettante, segno che uno dei vicini ha finalmente pulito le scale come si deve.
Si sente anche il suono di una tv accesa e dei bambini che giocano. Da questo dettaglio, Erin, non sentendosi sola, prosegue meno tesa. Io, al contrario sembro uno che sta per salire al patibolo.
«Ultimo piano», le dico per non farla fermare al secondo, da questo si sentono delle risate femminili. Raggiunta l'ultima porta mi fermo davanti a lei sentendomi di colpo e senza una ragione ben precisa: nervoso.
«È importante che tu lo conosca, ma non prendermi in giro dopo che avrò aperto la porta», esclamo.
Mi passa le chiavi. «A te gli onori di casa. C'è sempre la scala antincendio per scappare o una finestra», dice mettendo le mani dietro la schiena, intimidita.
Dall'interno sento "Tildo" in avvicinamento. I suoi passi sul pavimento di legno. Non abbaia. Ha sentito che non sono solo. È abbastanza furbo.
Sorrido. «Non urlare», l'avverto aprendo la porta, mettendomi da parte.
«Hai un figlio?»
«Peggio!»
Non appena la porta si spalanca, "Tildo" corre verso di me, si ferma scivolando un momento sul sedere per frenare l'entusiasmo e sedendosi sulle zampe posteriori piega la testa di lato fissando curioso Erin.
Lei prima guarda me poi lui e alla fine sorride ampiamente e abbassandosi, mettendosi in ginocchio si avvicina a "Tildo" che, per la prima volta in tutta la sua vita, si lascia accarezzare senza ringhiare. Le si avvicina persino leccandole una mano. Poi abbaia girandole intorno, annusandola, guardandomi come per chiedermi dove l'ho trovata e se rimarrà con noi.
Chiudo piano la porta, per non farla agitare e poso le chiavi sul mobile facendole vedere dove sono.
«Ciao amico!», saluto il mio cane che adesso mi segue mentre poso il borsone all'entrata.
Erin rimane indietro, sentendosi in colpa per la reazione che ha avuto in auto. «Era lui che volevi presentarmi?»
«Erin, lui è "Tildo". Non chiedermi il perché del suo nome ma si chiamava già così quando è arrivato in casa. Vive con me da parecchio tempo e non ama avere rivali. È come un figlio e un fratello per me. Ma so che ti ha già accettato e questo ha dell'incredibile.»
Inarca un sopracciglio guardandolo. "Tildo" ricambia con la lingua a penzoloni e la coda che muove come se volesse giocare subito con lei.
«Come fai a saperlo?»
Gli passo una pallina. «Lanciala», la incito.
Si mette davanti a me prendendo un breve respiro. Cerca un punto libero della casa dopo avere guardato la parete attrezzata, la libreria, il divano. Alla fine lancia la palla dove non c'è niente, in un angolo. "Tildo" corre a prendere la pallina e gliela riporta abbaiando piano quando la fa cadere tra i suoi piedi. Lei gliela rilancia e quando lui torna si abbassa e lo coccola guardandomi come una bambina.
«Hai capito adesso?»
«Grazie per avermelo fatto conoscere.»
«Volevi trasparenza? Ecco. Lui fa parte della mia vita insieme a lui/lei», dico indicando l'acquario con "Lady black" sul mobiletto accanto al divano di pelle scuro.
Erin si avvicina e lo guarda mettendoglisi davanti. Piega la testa di lato. Picchietta un dito sul vetro ma il pesce la ignora mentre "Tildo" sembra impazzito.
«A cuccia, pericolo pubblico», gli ordino, notandolo troppo entusiasta. Lui va subito a sedersi accanto al divano sul suo cuscino ma freme dalla voglia di giocare.
«Hai una bell'appartamento.»
«Questa è la mia umile dimora da single. Ho fatto del mio meglio per renderlo personale. Al piano di sopra, ovvero sul soppalco, come puoi ben notare c'è la mia stanza. E come puoi vedere, ho un armadio il cui contenuto è ben visibile.»
Si siede sul divano. Sporge la mano accarezzando il mio cane mentre mi sposto in cucina prendendo una birra.
«La dividiamo», rispondo alla sua domanda inespressa sedendomi accanto a lei. Stappo la bottiglia passandogliela dopo averne preso un sorso.
Lei mi guarda in modo furbo. «Così avrai il sapore delle mie labbra sul bordo.»
Annuisco anche se la mia pelle prende fuoco. «È un modo più intimo di baciarsi.»
Ride, beve un sorso passandomi di nuovo la bottiglia.
Mi preparo mentalmente alle sue domande. «Che altro vuoi sapere di me?»
«Sei sposato?»
Corrugo la fronte guardandomi le mani. «Che io sappia no. E non penso di avere figli sparsi per il mondo perché sono sempre stato attento. Non che abbia avuto così tante ragazze.»
Si agita sul posto. «A tal proposito... ex... pronte a ritornare? Pazze che hai lasciato per un'altra che ti hanno rigato la macchina o che ti aspettano?»
Inizio a comprendere qualcosa sulla sua esitazione, sui suoi problemi di fiducia. Non c'è solo il fantasma di quello che ha vissuto a soli diciassette anni, deve avere passato qualcosa che riguarda proprio questo argomento.
La curiosità adesso è tanta ma è lei a fare le domande quindi mi limito a rispondere.
«No, nessuna. Non ho avuto relazioni lunghe e durature e sono finite sempre bene, senza rancore.»
Ascolta con attenzione. Beve un sorso lungo di birra e vado a prenderne un'altra. «La tua famiglia invece? Sei figlio unico?»
«Sono figlio unico, be', lo ero. I miei hanno adottato altri due bambini per aiutare la famiglia di due amici che sono morti in un incidente qualche anno fa e non avevano nessuno adatto a badare a loro. Non li conosco ma so di loro e loro sanno di me. Sono piccoli e pestiferi», inizio bevendo. Immagino i miei mentre si disperano.
Mi piacerebbe chiederle cosa ne pensa ma continuo. «Non vivo con i miei da anni. In realtà mi sono allontanato perché il loro stile di vita non mi piace. Troppo ingessati, pieni di impegni come cene, feste e tanto altro. Preferisco una vita tranquilla. Prima che lo chiedi, appartengo ad una famiglia abbastanza ricca. Non ho mai patito la fame ma dopo i miei diciotto anni non ho più chiesto un soldo a loro, anche se hanno messo mensilmente in banca qualcosa per me, per farmi vivere bene, per avere un futuro. Non ho mai preso un soldo da quel conto e non so se lo farò mai. Ho sempre fatto tutto con le mie forze e sono abituato a cavarmela da solo. Provo più soddisfazione. Sono rimasto qui con mia nonna quando loro si sono trasferiti. Nonna Gio', Gioia, vive non poco distante dal porto, in una bellissima villa. È l'unico parente con cui ho un rapporto stretto.»
Inizialmente ha come una strana reazione. Non parla, sembra quasi altrove. «Con i tuoi vai d'accordo o ti sei allontanato perché ti avevano organizzato un matrimonio combinato o altro?»
Aggrotto la fronte. Che cosa assurda!
«No, non hanno mai fatto niente del genere. Per me hanno sempre voluto il meglio. E nonostante non siano i genitori modello, non hanno mai fatto obiezioni sulle mie scelte. Anzi, mi hanno sostenuto e alla fine hanno capito che sceglierò sempre da solo la mia strada.»
Si rilassa come un palloncino che si sgonfia. Ad un tratto però la vedo come in iperventilazione. Scatta in piedi avvicinandosi alla vetrata, appoggiandosi alla soglia ingobbita. Mi affretto a raggiungerla e ad aprirle la finestra.
I suoi meravigliosi occhi chiari si spengono. Come quando il sole tramonta e arriva la notte tempestando il cielo di stelle. Ma nel suo c'è solo buio pesto. Proprio lei che ha sempre un sorriso da usare, ha appena esaurito la sua scorta giornaliera mostrandomi la bellezza dell'essere fragili.
«È un attacco di panico?»
Annuisce voltandosi, dandomi le spalle. «Scusa...», ansima. «Era da un po' che non mi capitava.»
Inspira ed espira cercando di riprendere il controllo. Non ci riesce e si agita.
«Sto per abbracciarti.»
All'inizio, quando la circondo con le braccia, prova a divincolarsi poi però si aggrappa a me.
«Che cazzo ti hanno fatto?», mormoro sulla sua spalla. Le accarezzo la schiena e lei nasconde il viso.
"Tildo", uggiola avvicinandosi. Percepisce qualcosa, il dolore di Erin. Le posa il muso sulla gamba e lei sussulta.
«Erin, guardami.»
Si divincola. «Scusa, non dovevo venire qui e pretendere delle risposte o farti delle domande tanto personali mentre sono io quella che ha...»
Le afferro il viso. I suoi occhi sono offuscati dalla paura. «È complicato ma te ne parlerò. Ti dirò tutto quello che mi è successo.»
«Non ho fretta. Voglio solo che tu sappia qualcosa in più su di me. Non devi sentirti obbligata o in debito solo perché ho risposto alle tue domande. Ok?»
Annuisce più che insicura. Avvicino il suo viso al mio, premo la fronte sulla sua. «Devi ancora controllare l'armadio», le faccio notare.
Le scappa un sorriso e rilasso le spalle, accorgendomi solo adesso di avere persino smesso di respirare.
Le sue mani sono sul mio petto. «Quindi sei libero? Nessuno ti dice con chi puoi o devi stare... non c'è nessun affare in corso con qualche amico dei tuoi...»
Nego scrollando ripetutamente la testa. «Sono libero. Anzi, rettifico sto cercando di convincere una ragazza a non esserlo più perché mi piace anche se è un po' matta.»
Batte le palpebre. «Non corri troppo?»
Nego ancora una volta. «No, so cosa voglio.»
Inumidisce le labbra deglutendo a fatica. «E cosa vuoi?», la voce le si inclina.
Abbasso il viso. «Devo scendere nei dettagli?»
Finge di pensarci su. «Si.»
Abbasso ancora la testa posizionandomi sulle sue labbra. «Chiudi gli occhi», ordino in un sussurro.
Non fa domande. Si fida. Stringe però le mani sulle mie spalle come per tenersi in equilibrio e avere un appiglio.
«Opzione uno: poso le labbra sulle tue e tu ricambi. Opzione due: continuiamo a rimanere così e ti dico tutto quello che c'è da sapere su di me.»
«Tu che cosa scegli?», mi coglie alla sprovvista.
Sorrido e lei freme. Vedo la sua pelle sollevarsi in un brivido violento che colpisce anche me. Cerco di non perdere la testa. «Sicura di volerlo sapere?»
Me lo conferma con un breve cenno della testa e il suo viso sfiora il mio. Premo la fronte sulla sua inspirando di scatto. Sento forte la voglia di baciarla, di farle dimenticare tutto.
Vedendomi indeciso è lei a spronarmi. «Opzione uno: bacio. Due: spiegazioni», ripete con voce roca. «Preferisci parlare o sentire le mie labbra sulle tue?»
Lo prendo come un incentivo. Il mio corpo non riesce più a sostenere la tensione e la voglia. Premo le labbra sulle sue afferrandole il viso.
Le sue dita affondano sulle mie spalle e lascia sfuggire un gemito sommesso che mi deposita sul basso ventre una forte scarica di adrenalina.
Le sue labbra sono morbide, sanno di ciliegia, di birra e di Erin. Una dose potente, più di quella che avrei immaginato e di cui non so se riuscirò a fare a meno adesso che ne ho assaggiata un po'. Tiro il suo labbro con i denti e la sua mano si sposta sulla mia nuca. Il mio corpo preme contro il suo costringendola ad indietreggiare.
La mia lingua spinge contro la sua bocca e lei la schiude dandomi accesso, prolungando un bacio che da lento si fa disperato, pieno di passione, respiri spezzati e schiocchi improvvisi che vanno a rompere il silenzio intorno.
Non smettiamo. Continuiamo a baciarci, a stringerci. È come se nessuno dei due volesse staccarsi per paura di non vivere più niente di simile.
Si appoggia alla parete di mattoni lasciandosi avvolgere la schiena dal mio braccio e la guancia dalla mia mano.
In questo modo mi suggerisce che si sta fidando di me e io, non posso approfittarmi del momento di debolezza per spingermi oltre. Ci stacchiamo senza fiato, piano, controvoglia. Il petto scosso dall'affanno.
«Adesso sei un po' più convinta del mio interesse?»
I suoi occhi.
Cazzo!
Deglutisco a fatica. «Erin...», soffio accaldato. Poso una mano per tapparglieli.
Non posso e non voglio perdere la concentrazione come uno stupido ragazzino. Devo comportarmi da adulto con lei.
Mi sorride. «Fammi riprendere, idiota!»
Rido come un pazzo tirandola verso di me. L'abbraccio baciandole la spalla. Lei si agita un po' poi però stringe le braccia sulla mia schiena come un koala attaccato all'albero. Inspira ed espira con aria serena.
«Grazie», sussurra.
«Non dirlo più. Ti ho portata qui, hai visto la mia casa, conosciuto il mio cane. Hai avuto un momento di debolezza e allora? Non è successo niente. Anzi, non mostrarti più fragile, mi spaventi!»
Le rubo un sorriso sincero seppur triste. «Ci sono cose che pensavo di avere superato, ma non fanno altro che farmi male. Mi dispiace avere reagito in quel modo. Voglio spiegare anche il perché, ma non è facile. Non è affatto facile.»
Si agita di nuovo e la fermo prima che possa avere un altro attacco di panico. «Non ho fretta. Sono qui e non vado da nessuna parte.»
La sua testa oscilla. È ostinata.
«Quando hai parlato della tua famiglia e hai detto che è abbastanza ricca, ho avuto un brutto flashback. Io... c'era questa persona, ci conoscevamo sin da bambini. Ci siamo incontrati quando mi sono trasferita da mio padre. C'è stato qualcosa poi... la sua famiglia... loro...»
Non riesce a concludere. Nasconde il viso sul mio petto stringendo il pugno così forte da solcarsi il palmo. La costringo a rilassarlo e intreccio le nostre dita portando le nostre mani in basso.
«Non voglio che pensi che io sia ancora legata a lui. Ma... è successo tutto in fretta. Ho scoperto che mi aveva sempre presa in giro poi sono stata rapita mentre andavo a prendere una ragazza ad una festa e quasi violentata da una persona malata che per anni mi aveva tenuta d'occhio. Da quel momento io... non sono più riuscita a lasciarmi andare e a mettere tutto da parte perché porto addosso solo rabbia. Sensazioni che non riesco proprio a lasciare andare del tutto perché potrei crollare.»
I suoi occhi si fanno rossi, si riempiono. Il mio stomaco si contorce. «Erin, guardami. Per favore non piangere e non azzardarti a proseguire con questo discorso.»
Sapere che qualcuno le ha spezzato così tanto il cuore da ridurlo in un mucchietto di polvere, mi fa imbestialire.
«Non voglio che a causa del mio passato tu abbia dei dubbi di me. Non nego che ci sto ancora male ma non provo più niente, forse non ho mai provato davvero qualcosa per quel qualcuno che mi ha solo spezzata per dispetto. Sono stata stupida e ingenua a permetterlo e da allora non mi sono più perdonata.»
Mi irrigidisco sempre di più. Lei lo nota e si agita. Continua infatti a parlare a vanvera non capendo che vorrei solo sapere il nome del bastardo, andarlo a cercare e stenderlo. Fargli capire quello che si è perso. Come si fa? Come? Come puoi prendere in giro una ragazza così straordinaria?
Le stringo il viso fregandomene della reazione che potrebbe avere. Con mia enorme sorpresa non mi colpisce, singhiozza. Le sue mani scattano sulle mie, prive di forza.
Alla fine siamo capaci di sopportare il peggio. Tenere a freno la propria sofferenza significa rischiare di colpirsi a morte. Fare finta di stare bene significa lasciarsi divorare dall'interno dal dolore. Un po' come essere felici per finta e infelici per scelta.
Ermetica. Chiusa in se stessa. Solitaria. Un'anima senza pace. Rotta. Spenta. Triste. Senza una casa. Senza un posto sicuro. Ecco come la vedo in questo momento. E mi si stringe il cuore nel petto per tutti questi anni che ha dovuto passare e vivere senza di me. Dovevo raggiungerla prima e strapparle via quelle radici che hanno scavato dei solchi profondi nella sua vita, dentro il suo cuore, nella sua anima in frantumi.
La guardo dritto negli occhi. «Stammi bene a sentire: non sono arrabbiato perché potresti essere ancora legata a qualcuno. Sono incazzato perché ti hanno ferita. Perché vedo nei tuoi occhi il dolore, quello che hai passato. E mi piacerebbe sapere il suo nome per...»
Posa due dita sulle mie labbra fermandomi. «È il migliore amico di Shannon ma non vive più qui. Non nomino più il suo nome perché non lo merita. Ho cercato di eliminare ogni ricordo ma è impossibile. Quindi non abbiamo più parlato di lui. È un bene per me, per tutti. Sono andata avanti dopo un periodo buio e so che non mi credi ma...»
«Sssh, non devi per forza parlarne. Mi basta sapere di non essere un rimpiazzo.»
Nega inorridita al pensiero. «No, non lo sei. Non avrei mai baciato nessuno se non ne fossi stata convinta. Ho evitato per anni ogni minimo contatto e non voglio che questo sia un freno. Dire che mi piaci è riduttivo, Bradley.»
Le sfioro una guancia. Il mio cuore sta battendo ripetutamente come un tamburo suonato in una marcia durante una guerra. «Non trovi il modo per dimostrarlo», concludo al posto suo.
«Si, ma ho già fatto un enorme passo avanti e mi è piaciuto. Mi fai sentire come se anche una come me potesse avere una seconda occasione. Per anni ho avuto paura di lasciarmi andare. Ho aspettato perché non mi sentivo pronta e adesso sento di volerne ancora perché mi è piaciuto.»
«Mi ritengo fortunato allora. Hai fatto bene ad aspettarmi», la sollevo per le ginocchia caricandola sulla spalla.
Lei strilla, non si spaventa, ride. "Tildo" abbaia scodinzolando. La porto nella mia stanza lasciandola davanti l'armadio che è un semplice appendiabiti aperto con i vari scaffali pieni di indumenti, in legno e con una sola anta chiusa.
«Controlla», la incito.
Mi abbraccia di sua spontanea volontà. «Mi fido anche senza guardare.»
Sorrido aprendo lo stesso l'anta. Mostro l'angolo vuoto.
Lei corruga la fronte. «Troppi indumenti», esclama sarcastica.
«Di solito metto il borsone lì dentro dopo avere tolto la tuta per farla lavare.»
«Sai fare il bucato?»
«E so stirare e cucinare. Anche se non bene come te.»
Le scappa un altro sorriso sincero. La tempesta di prima si è trasformata in arcobaleno e adesso in un sole radioso. «Dovrei lasciarti alle tue cose...»
Il pensiero di lasciarla andare mi paralizza. «Ho tutto il tempo. Lasciami solo mettere la divisa in lavatrice e riprendiamo il questionario o vuoi chiamarlo curriculum?»
Scende le scale a piedi nudi. Ha tolto i tacchi poco dopo essere entrata in casa. «Lo faccio io. Se mi dici dove posso trovare il bagno o la lavanderia.»
«Il bagno lo trovi dopo quella porta accanto alla libreria all'angolo, la lavanderia è adiacente al bagno quindi devi entrarci.»
Lei corre verso il mio borsone prendendo la tuta poi si sposta in bagno. La seguo verso la lavanderia. Qui dentro, legge e segue attenta le istruzioni sull'etichetta della divisa misurando perfettamente le dosi dei diversi prodotti liquidi e in polvere per fare bene la lavatrice.
Batte le mani. «Fatto», controlla lo schermo elettronico. «Dieci minuti e possiamo metterla nell'asciugatrice.»
Mi appoggio allo stipite della porta e lei si siede sulla lavatrice.
È una bellissima visione. «Mi piace averti qui.»
Guarda ogni cosa. Le mensole con gli asciugamani in ordine, la cesta del bucato, sporgendosi lancia uno sguardo al bagno. «A me piace essere entrata e avere conosciuto "Tildo", il pesce tropicale e te.»
Mi stacco avvicinandomi a lei. «Hai ancora bisogno delle opzioni?»
«Non fare niente di avventato e non ti morderò.»
Rido. «Lo squalo sono io.»
Mi guarda da sotto le ciglia. «Ne sei sicuro?»
«Si.»
Sorride. «Dammi le opzioni.»
«Ti mordo o ti mordo?»
Mi avvicino e lei trattiene il fiato. «Non dovresti rischiare in una stanza così piccola. Potrei avere una brusca reazione.»
Mi fermo. «Non ti farò la domanda sbagliata, ma c'è la porta aperta», dico indicandola. «Posso anche aprire la finestra», la apro facendo entrare dentro il quadrato in cui ci troviamo, l'aria.
Doloroso e triste. Complicato. Per me lo è. Lo è perché lo sento il peso di ogni sua paura che la frena facendole dimenticare di vivere. Passa da un estremo all'altro. Sorride e poi si spegne. Sente caldo e poi si abbraccia piena di brividi. È coraggiosa poi ha paura. Si avvicina e subito dopo si scansa. E non è strana ai miei occhi. È la persona più vera e tormentata che io abbia mai visto. Ma lei sente tutto. Sente il doppio dell'amore che le è stato negato e che ha paura di fare entrare nella sua vita. Ha paura di soffrire, di sentire forte quel dolore con l'ha tormentata, spezzata. Per questo scappa, non torna, resiste, resta, respira, ama a perdifiato...
Si concentra. Prende coraggio e guardandomi con i suoi occhi pieni di luce, protende la mano verso di me tirando la maglietta, facendomi avvicinare ulteriormente a lei.
Appoggio i palmi sulla lavatrice, ai lati sfiorando i suoi fianchi. «Che cosa vuoi?», mormoro teso come una corda.
Posa un dito sulla guancia e mi sporgo posandole un bacio veloce. Insoddisfatta, posa il dito sull'altra guancia. Proseguo sulla fronte e poi sul naso stando al gioco. Si ferma sulle labbra. Mi avvicino con il corpo. Le mie mani adesso si posano sui suoi fianchi. Strofino la punta del naso sul suo. «Bacio bene a quanto pare.»
Ride e le tappo la bocca impossessandomene. Le sue dita affondando tra i miei capelli corti sulla nuca senza riuscire ad afferrarli. Le sue gambe si aprono permettendomi di sistemarmi nel mezzo. Prolungo il bacio prima di essere interrotti dall'allarme della lavatrice che ci fa staccare. Lei mi spinge accaldata scendendo in fretta, le guance in fiamme, la pelle pulsante e gli occhi lucidi. Toglie gli indumenti bagnati spostandoli dentro l'asciugatrice.
Quando preme l'ultimo bottone sullo schermo, le circondo il ventre indietreggiando e lei si lascia portare in soggiorno senza agitarsi. Non so che aspetto posso avere io dopo il momento appena vissuto. So solo che voglio stare ancora un po' con lei prima di lasciarla andare. Non voglio soffocarla.
Ci sediamo sul divano. "Tildo" balza su cercando le sue attenzioni, non le mie. «Ehi», lo provoco. Ringhia basso e rido.
Erin lo abbraccia baciandogli la testa e lui le si accoccola sulle gambe. «Mi sa che ti ha appena tradito.»
Mi rilasso stropicciandomi gli occhi. «Che stronzo!», lo punzecchio.
Lui si avventa su di me e lottiamo giocando. «Erin non è tua», gli dico. Ringhia mostrando i denti ma in realtà è divertito.
Quando lo lascio andare sbuffa come un bambino balzando giù dal divano e va a sistemarsi nella sua cuccia giocando con il suo peluche.
«Si è offeso?», chiede curiosa.
Chiudo gli occhi. «Si, ma se prendo la scatola dei biscotti balza in piedi perdonandomi.»
«Sei stanco?»
Apro un occhio. «Non chiedermi proprio ora di accompagnarti a casa perché sono sfinito. I bambini mi hanno sfiancato. Come diavolo fai ogni giorno a tornare a casa senza sentirti con le ossa rotte?»
«Mettiti a letto. Giocherò con "Tildo".»
Nego circondandole con un braccio le spalle. Mi stendo e la tiro verso di me. «Anche tu devi dormire. Qualcuno questa notte ti ha svegliata per una passeggiata.»
Si volta e siamo stesi faccia a faccia, su un fianco. La tengo con un braccio mentre con l'altro sistemo i cuscini. «Due minuti...», mugolo.
Sorride. «Solo due», sussurra sfiorandomi il viso.
Le bacio la mano poi la tengo stretta al petto per farle sentire il terremoto che mi provoca dentro.

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Come crepe sull'asfaltoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora