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Una volta in un libro ho letto una frase in cui c'era scritto che: "a nessuno capita qualcosa che non sia in grado di sopportare". Io credo di essermi solo abituata al dolore, alla tristezza, alla sofferenza. Mi sono abituata a resistere a quella che chiamiamo sfortuna ma che in realtà è solo un insieme di scelte fatte irrazionalmente. Perché arriva per tutti il giorno in cui ogni cosa si para davanti limpidamente. Il destino, ogni ostacolo superato, ogni scelta fatta, ogni decisione presa, è solo un segnale. Un urlo disperato da parte della tua vita che cerca di salvarti da altri errori, da altri stupidi conflitti.
Non mi accorgo di niente. Di quello che mi accade intorno, di quello che mi si spegne dentro. Mi sento solo esposta, vulnerabile come non sono mai stata fino ad ora. Il più delle volte è come se un enorme masso schiacciasse forte il mio petto togliendomi il respiro.
Non puoi vivere quando sai che qualcosa ti tormenta. Non puoi continuare a fingere che tutto vada bene quando c'è qualcosa che continua a invadere ogni tua particella, ogni parte del tuo corpo, della tua mente attanagliandoti all'angolo.
Non mi accorgo di niente. Di quello che capita, di quello che di bello mi circonda. Mi sono chiusa nella mia bolla, ho scelto di sopravvivere un'altra volta.
«Erin, sei pronta?»
La porta si apre in un cigolio sommesso facendomi girare la testa di scatto. Guardavo il tempo dallo spazio tra le tende a coprire la finestra.
Papà rimane impalato sulla soglia a guardarmi, la maniglia della porta tenuta stretta.
Questo perché non mi sono cambiata, non mi sono mossa dal mio angolo, dal mio rifugio.
Da una settimana ormai continuo a starmene sotto le coperte con il mio bel pigiama invernale morbido, il primo che indosso dopo anni.
Il dolore al petto e all'addome lo sento appena anche se di tanto in tanto le costole contuse tornano a farsi sentire con delle fitte acute di dolore, soprattutto quando faccio qualche strano movimento improvviso. La ferita all'angolo del labbro invece sta guarendo, ormai non c'è quasi più neanche il colore violaceo scuro pieno di puntini rossi e croste. Mentre lo zigomo rimane scorticato di un rosso acceso dandomi un tocco di colore al viso.
Per non parlare degli attacchi di panico. Sono tornati, più intensi di prima. Ogni volta che chiudo gli occhi, ogni volta che tento di riposarmi, tutto mi crolla addosso.
«Avevamo un patto», dice contrariato avvicinandosi, sedendosi sul bordo del letto provando a sfiorarmi la guancia.
Mi scanso immediatamente tirando la coperta sotto il mento. «Vattene», sibilo fissando la parete sulla quale ho appeso un quadro con le mie foto migliori, stampate in un momento di tristezza e solitudine.
Sospira rumorosamente. «Erin, non puoi rimanere ancora qui dentro. Hai bisogno di uscire, di divertirti e...»
«E lasciarmi tutto alle spalle facendo finta di niente proprio come hai fatto tu in questi anni?», la voce mi esce stridula. «No, grazie.»
Nell'impeto mi sono pure alzata a metà busto ma l'ho fatto così in fretta da provocare al mio corpo un male improvviso.
Con una smorfia cerco il bicchiere d'acqua tracannandone tre quarti. Appoggiata alla testiera sollevo il viso e ad occhi chiusi prendo piccoli respiri.
Papà si alza aprendo la finestra. La tenda inizia ad ondeggiare e in camera entra il freddo di una giornata invernale.
«Si, proprio così», decide di non urlarmi contro.
L'ho trattato male, l'ho fatto sentire un padre orribile, ma questo non ha alleviato il mio senso di rabbia e vuoto che tengo dentro custodendolo con cura, quasi con disperazione. Perché è una delle poche cose che sento davvero.
«Bene, allora vattene. Non devi lavorare oggi? Salvare vite è più importante di una figlia che non vuole scendere dal letto per capriccio.»
Contrae la mandibola. I lineamenti gli si induriscono visibilmente. Assume una postura austera preparandosi all'attacco.
«Ti voglio al piano di sotto entro cinque minuti o verrò a prenderti e uscirai in pigiama. E non mi importa se ti imbarazzerai o urlerai», risponde gesticolando nervosamente, avviandosi a passo spedito alla porta. «Voglio mia figlia in cucina entro cinque minuti per fare colazione.»
Sbatte la porta e sussulto. Ringhio lanciando un cuscino contro la superficie ma il gesto mi costa un urlo di dolore che lascio uscire ugualmente alzandomi dal letto come un'indemoniata.
Le mie gambe traballano ma riesco a raggiungere il bagno senza cadere a terra.
Evito di guardare la mia immagine riflessa allo specchio. Se provo anche solo a farlo mi sento come se stessi scavando alla ricerca della persona che ero prima di crollare come un castello costruito troppo vicino in riva al mare.
Ma mi basta guardarmi dentro per capire di essere ripiombata in quel periodo buio fatto di silenzi, di sguardi assenti.
Cerco di mettere in piega liscia il groviglio di capelli che ho in testa togliendo i nodi che si sono formati e di vestirmi nascondendo ogni livido sotto una felpa enorme con una rosa stilizzata afferrata dalla mano di un vampiro stampata sulla parte del cuore, un paio di pantaloni della tuta neri con una striscia bianca e argentata, anfibi e una sciarpa bianco e nera morbida che avvolgo intorno al collo. Sono pronta, forse. Non direi lo stesso mentalmente.
Tiro in spalla lo zainetto e scendo al piano di sotto a rilento, imprecando ad ogni gradino, ad ogni fitta, ad ogni urlo trattenuto.
Forse lo merito. Il karma mi sta avvisando.
Papà mi aspetta seduto sullo sgabello della cucina dove sta bevendo la sua tazza abbondante di caffè macchiato mentre legge le notizie del giorno guardando il tablet con attenzione. Accorgendosi di me lo mette da parte posando sulla superficie un piatto di pancake sulla quale ha disegnato un sorriso e una tazza fumante di caffè nero.
Lascio scivolare lo zainetto sul divano otto posti in soggiorno e raggiunto lo sgabello, mi isso sedendomi malamente con un piede a penzoloni.
Guardo inappetente il piatto sentendo lo stomaco sottosopra. Mi costringo però a metterci qualcosa dentro per non svenire o sentirmi debole.
«Che cosa c'è in programma?»
Beve un sorso di caffè prendendosi il suo tempo per rispondere tenendomi d'occhio. Infatti, mi guarda di sbieco per accertarsi che io mangi almeno la metà di quello che ho nel piatto.
Cerco di accontentarlo per non avere un'altra discussione accesa.
«Siete di nuovo nel magazzino a terminare i lavori. Se non te la senti ti sposto da qualche altra parte.»
Nego allontanando il piatto. Mando giù e a rilento il boccone, l'ultimo che il mio stomaco può tollerare.
«Posso anche portarti con me in ufficio. Oggi non sarò in ospedale, mi occuperò di alcune cose al comune.»
Nego. «Me ne starò in un angolo a piantare chiodi immaginando che siano la faccia di alcune persone», dico alzandomi.
Papà mette tutto dentro il lavandino non commentando la mia forte e pessima battuta poi recupera la ventiquattrore infilandoci dentro il tablet e il termos avviandosi fuori dalla porta.
Oggi mi accompagnerà visto che non posso ancora fare grossi sforzi.
Ho già fatto troppe assenze secondo il suo modesto parere e per i suoi standard è giunto il momento di reagire.
Non sa che ho seguito tutte le lezioni online e sono al pari con i miei compagni se non avanti. Studiare mi ha tenuta impegnata in questi giorni, così come leggere, ascoltare musica e guardare serie tv mangiando cibo spazzatura a qualsiasi ora.
Infilo una mela dentro lo zainetto ed esco fuori.
Fa davvero freddo. Mi stringo sotto il parka nero facendo attenzione a non scivolare.
La pioggia durante la notte si è ghiacciata a causa dell'abbassamento delle temperature. La brina splende tra le foglie delle siepi e ha trasformato il vialetto in uno scivolo pericoloso. Pur avendo dei problemi di stabilita per le lunghe ore passate sotto le coperte in un momento triste della mia vita ritrovandomi spesso come Bridget Jones sommersa da bottiglie e sacchetti di snack divorati, riesco ad arrivare incolume all'auto. Mio padre ha già messo in moto e acceso i riscaldamenti.
«Vuoi che avvisi tua madre?», chiede di punto in bianco.
Mordo il labbro stringendo le dita. «Dopo una settimana? No, lasciala alle sue avventure amorose con Harvey. Sono più importanti di una figlia che ha rischiato di morire.»
Guardo di fianco a me la schiera di villette pallide. Qualche vicino pronto a recarsi al lavoro ci saluta.
Papà accende la radio abbassando il volume. Ha sempre questa abitudine, forse per sentirsi a suo agio, nel suo ambiente o semplicemente per rilassarsi prima di iniziare una giornata di duro lavoro.
«L'ho detto a tua nonna...»
Mi volto a guardarlo con rimprovero. Rimane inespressivo, concentrato sulla strada, solo una ruga sul sopracciglio e poi la mano a lisciare la barba curata e la presa sul volante salda, come se si aggrappasse a questo per non volare via, per reggersi.
Mia nonna avrà dato di matto e gli avrà urlato contro come una pazza isterica, già lo so. Dall'espressione così schiva di mio padre mi sembra evidente. Lo avrà minacciato e fatto sentire piccolo.
«Quando?»
«Questa mattina. Dopo avermi urlato addosso ed essersi sfogata, mi ha chiesto il permesso di chiamarti.»
Gioco con il laccio dello zainetto. «E tu che cosa gli hai risposto? Gli hai detto di non cercarmi e le hai urlato quanto sia irresponsabile la figlia o le hai semplicemente detto che non ha istinto materno?»
Mi guarda seppur brevemente. «Gli ho risposto che non ti impedirò di sentire i tuoi nonni ma non voglio che tua madre lo sappia e si senta in diritto di dirmi che sono irresponsabile. Sto facendo del mio meglio», alla fine alza il tono cambiando marcia, premendo leggermente il piede sull'acceleratore.
Faccio una smorfia. «Non le parlerei comunque», dico a bassa voce.
Sembra rilassarsi e sul suo viso torna il sereno, questo per pochi istanti. «Hanno anche chiesto di te altre persone.»
«Non mi importa», replico svelta. «A che ora torni a casa?», cambio argomento.
«Ti vengo a prendere se vuoi», propone.
Accetto velocemente e senza troppi giri o frasi di circostanza. «Si, ottimo», dico priva di entusiasmo uscendo dall'auto quasi al volo quando arriviamo nelle vicinanze del magazzino sulla stradina piena di buche e curve.
«Erin...»
«L'hai voluto tu non io. Ormai sono qua, lasciami andare», chiudo la portiera allontanandomi in fretta o almeno per quanto mi è possibile camminare svelta.
Raggiunto il cancello metallico a delimitare quello che sarà il nuovo parcheggio, mi fermo trattenendo il fiato alla vista di tutte quelle persone che lo affollano.
«Ce la puoi fare», sibilo.
Un passo dietro l'altro, lo sguardo chino, mi faccio avanti raggiungendo uno dei supervisori. Estraggo dallo zaino la giustificazione firmata da mio padre con i relativi permessi porgendogliela.
La donna, divisa sportiva blu scuro, coda bassa di un castano rossiccio, occhi piccoli color castagna e labbra carnose sulla quale vi è uno strato consistente di rossetto rosa, mi guarda con dolcezza. Profuma di gigli.
«Bentornata. Posso chiederti come stai?»
«Due costole contuse e poca voglia di parlare», replico dandole una delle risposte di cui ha bisogno per soddisfare la curiosità.
Lo vedo da come guarda lo zigomo e il livido sul labbro che non intende lasciar correre.
La notizia si è sparsa a macchia d'olio. Non mi hanno dipinta come una vittima bensì come una ragazza che si è difesa da una aggressione da parte di un ragazzo "modello" che ha agito perché spinto da un raptus d'ira. Niente provvedimenti per lui, la famiglia ha insabbiato tutto con delle inutili scuse fatte a mio padre ad una delle riunioni comunali svoltesi nel cinema, in attesa che questo posto venga messo in ordine.
«Se hai bisogno sono qui. Nel frattempo puoi anche stare seduta. Tuo padre mi ha già avvisato che non puoi fare sforzi.»
Annuisco impacciata. «Non starmi troppo con il fiato sul collo e starò bene e soprattutto buona nel mio angolo», brontolo.
La donna incassa la mia risposta acida e diretta senza controbattere. Ha già capito che non sono dell'umore per spettegolare o dire la mia sulla questione "aggressione".
Se non ho parlato ancora con nessuno ci sarà una ragione. Ma alla gente di questo stupido posto non sembra importare.
«Bene, adesso va», mi dice con un sorriso lasciandomi passare.
Sistemo lo zainetto sulla spalla avanzando lungo il vialetto che stanno già sistemando a dovere con un mosaico di pietre messe in ordine. Ai lati verranno piantati dei fiori e ci sarà un prato con tanto di fontana.
Mentre cammino piano, sento i volti di ognuno di loro girarsi e guardarmi attentamente, senza pudore. Qualcuno prova ad avanzare poi notandomi disinteressata fa dietrofront schiarendosi la voce.
Se ne stanno tutti in attesa di una mia reazione, forse di una mia sfuriata che, non arriverà di certo.
Entro nel magazzino dirigendomi all'angolo, quello più pulito in cui mancano solo da dipingere le pareti, pannelli di compensato, e il pavimento quasi tutto messo a nuovo.
«Erin?»
Non mi volto sentendo la voce di Ephram. Attualmente non ho voglia di parlare, di rispondere a domande su domande come se fossi ad un interrogatorio, non ho voglia di accusare tantomeno di vedere alcune persone che, purtroppo si trovano qui.
Poso lo zainetto all'angolo e fatico a togliermi il parka per indossare la tuta intera evitando di sporcarmi.
«Ehi», saluta ancora posando una mano sul mio braccio.
Mi scanso e lui ha come un sussulto. Quando mi volto a guardarlo i suoi occhi si spalancano. Non nasconde lo sconcerto ma costringo i muscoli della bocca a muoversi per accennare un mezzo sorriso e rassicurarlo.
Il dolore è un'arma a doppio taglio. Quando arriva non ti chiede il permesso. Ti trafigge il cuore, ti risucchia via l'aria dai polmoni e ti fa sentire solo. Ti richiude in una gabbia buia, fredda e non lascia spazio a nient'altro. Ma nessuno può capire davvero il dolore che stai provando e quanto ne stai tenendo dentro se non ti apri, se non ti esponi. Puoi solo cercare di alleviarlo con un abbraccio, un bacio, un sorriso, una battuta oppure con un po' di silenzio condiviso. Il dolore spaventa. Non puoi controllarlo. Non puoi schivarlo o passarlo a qualcuno. Semplicemente lo tieni addosso come il tuo maglione preferito. Lo tieni stretto come un vecchio amico. Perché si ha sempre la costante paura di poter infettare chi ci sta attorno con la nostra tristezza e si preferisce soffrire in silenzio piuttosto che condividerlo per non essere più soli.
«Ti ho scritto, non hai mai risposto.»
«Ephram, scusa ma non mi va di parlare al momento.»
Rimane impalato quando lo supero a passo lento recandomi all'angolo dove si trovano i bidoni pieni di colore.
Provo a sollevarne uno ma è una gran fatica. Stringo i denti maledicendomi per essermi comportata da stupida e non avere reagito alla provocazione in questo maledetto posto anziché scappare e poi affrontare il re dei polli.
Ad un tratto non sento più il peso e la pressione verso il basso del fusto. Quando mi volto Ephram lo porta al posto mio all'angolo. «Non vuoi parlare e mi va bene ma non allontanarti. Non è stato bello non avere tue notizie per una settimana. Nessuno sapeva niente, neanche tuo padre ha...»
«Hai chiesto a mio padre?»
Ripenso alla conversazione di prima avuta in auto con lui. Voleva dirmi chi mi aveva cercata ma io l'ho messo a tacere.
«Si, volevo solo venirti a trovare ma ha gentilmente chiesto di non farlo.»
Ascolto aprendo il fusto, intingendo il pennello prima di passarlo sulla trave in un lento movimento a tratti deciso e preciso. «Non volevo vedere nessuno.»
Ephram non reagisce. Mi aiuta in silenzio ed io gliene sono grata.
Finita la prima parte del pavimento, ci spostiamo dall'altro lato.
Sento dei bisbigli alle mie spalle ma li ignoro anziché voltarmi e urlare contro le pettegole che stanno continuando a fare come se non ci fossi commentando ogni mio movimento o scelta di vita.
Ephram appare un po' a disagio ma comprendo in fretta la ragione, così lo mando dall'altro lato a scegliere dei fusti di colore che non esistono. Quando se ne accorge ritorna da me a passo spedito.
«Non è stato divertente», mi rimprovera.
«Per me si. E per la cronaca: non sono stupida. La prossima volta nascondi meglio la tua paura per quella là.»
Tira sul naso gli occhiali. «Si, scusa.»
Continuo scuotendo la testa poi notando che la porta è chiusa vado ad aprirla per permettere al vento freddo di fare asciugare più in fretta il colore evitando di intossicarmi con l'odore troppo forte.
Fatico e per lo sforzo sento una fitta acuta che mi fa quasi strillare.
Qualcuno, vedendomi in difficoltà, corre da me mentre me ne sto ingobbita con il braccio sull'addome a trattenere il dolore.
«Erin, tutto ok?»
Provo a drizzare la schiena. Boccheggio. «A meraviglia», mento.
Odio essere guardata come un relitto vivente.
Ephram posa una mano sulla mia schiena e, ancora una volta sfuggo al suo tocco.
Finge di non essere curioso ma so che a breve farà anche lui la domanda sbagliata.
Torno nel mio angolo dolorante. Frugando dentro lo zainetto pesco la bottiglietta d'acqua bevendo avidamente e prendendo due antidolorifici dal flacone pieno che mio padre mi ha gentilmente messo dentro lo zaino prevedendo che ne avrei avuto bisogno, cerco di placare il dolore.
Ephram si siede accanto a me passandosi una mano piena di schizzi di colore sul collo. «Se stai male a me puoi dirlo.»
Nego. «Non voglio essere guardata con compassione, tutto qua. Ho solo fatto a botte e sono svenuta per qualche ora.»
Gratta la tempia. «Qualche ora non direi visto che abbiamo saputo che sei stata due giorni in coma.»
«Vuoi sapere com'è stato? Rigenerante. Non ho mai dormito così bene in vita mia. È come se avessero spento quel dannato pulsante che continua ad accendere dentro di me il caos più totale», dico piena di rabbia alzando il tono della voce. «Ero in pace e lontana da questo maledetto posto pieno di stronzi e...», riprendo fiato. «Scusa», balbetto.
Ephram posa una mano sulla mia ritraendosi velocemente. «Per questo non vuoi essere toccata?»
«No, non sopporto il tocco delle persone su di me e farai meglio a non avvicinarti perché potrei avere svariate reazioni. Non sto scherzando.»
Mi fissa incuriosito. «Che eri svitata lo avevo capito, ma più di me... non lo ritenevo possibile.»
Sorrido. Il primo sincero che faccio in una settimana. «Già, sono così svitata da affrontare un ragazzo il doppio di me e riuscire a metterlo al tappeto.»
Abbassa il viso guardando ovunque circospetto evitando orecchie e occhi indiscreti. «E com'è stato?»
«Dapprima difficile poi soddisfacente.»
Ci guardiamo complici tornando alle nostre mansioni.
Durante la pausa, ho bisogno di allontanarmi dal rumore, dalla musica, dalle persone; pertanto chiedendo il permetto al supervisore, vado a sedermi su una delle panchine di fianco al magazzino.
Dallo lo zaino estraggo il libro e la mela. Nonostante il freddo mi godo la compagnia di qualche ragazzo immaginario stereotipato.
«Circolavano delle voci... ma non immaginavo che saresti davvero tornata in questo posto.»
Chiudo il libro guardando Shannon con distaccato interesse. «Così sei venuto a controllare di persona quando hai sentito che ero qui? Oppure ti ha spinto la curiosità di vedere come sono ridotta?»
Chiede un po' di spazio sedendosi accanto a me sulla panchina, stringendosi sotto il giubbotto imbottito e apparentemente pesante da motociclista. La sua colonia investe le mie deboli narici. È un misto di profumo e nicotina il suo.
«Che cosa stai leggendo?»
Gli mostro la copertina del romanzo. La guarda disinteressato e velocemente solleva i suoi occhi nei miei. «Non ti chiederò come stai perché mi sembra evidente. Non hai un bell'aspetto e sei qui da sola. Se stai male posso accompagnarti a casa, ho qui la moto.»
Poso il libro dentro lo zainetto dando un morso alla mela. «No, mio padre vuole che mi integri di nuovo in questa società. Non sopporta la mia sfiducia nel genere umano e mal tollera la mia chiusura e la mia resistenza al dolore. Vorrebbe vedermi in lacrime o a fare qualche altra cazzata.»
Shannon passa una mano tra i capelli. Stanno crescendo in fretta. Nei suoi occhi però leggo un rimpianto, un qualcosa che lo tormenta.
«Che ti succede?»
«Come?»
«Di solito sei sempre allegria e sorrisi. Oggi sei troppo serio. Ti manca una giacca e una cravatta con sotto la camicia per sembrare un ragazzo normale. Non è da te. Sputa il rospo.»
Gratta il mento poi il collo sfiorando le linee del tatuaggio di un nero impressionante. «Avrei dovuto fermarti», dice in un soffio.
Sto già negando e annaspando. Non voglio sentire queste stronzate, pertanto mi alzo raccogliendo le mie cose pronta ad allontanarmi il più possibile. Perché parlarne renderà tutto più reale. E non mi riferisco all'aggressione.
La sua mano si artiglia sul polso facendomi capire di dovere ascoltare. Così, torno a sedermi finendo la mia mela.
«Quando ho visto la tua espressione io... avrei dovuto fermarti. Eri impreparata e poi... poi arrabbiata. Di una rabbia che non vedi mai negli occhi delle persone. In un attimo eri... un'altra. Avrei dovuto fermare anche lui ma l'ho fatto solo dopo che te ne sei andata, quando voltandosi e non vedendoti ha anche avuto il coraggio di chiedermi di te. Per lui era come un gioco tra di voi, non si aspettava questa reazione da parte tua. Credeva che avresti risposto, non che te ne saresti andata.»
Stringe le labbra accendendosi una sigaretta.
Rimango impietrita.
Al mio risveglio su quel letto d'ospedale, mi sono sentita come se fossi stata investita da un treno. Ho trovato mio padre, se ne stava seduto accanto a me. Ha quasi sussultato e sospirato quando i miei occhi si sono sollevati e ho chiesto di avere un po' d'acqua. Non ha osato rimproverarmi. Non ha osato chiedermi niente. Ed io mi sono chiusa evitando tutti come la peste, principalmente evitando la verità. Quella che adesso mi brucia nel cuore.
«Non è stata colpa tua. Me ne sono andata chiedendo un permesso. Non mi sentivo bene. Non sapevo che...» stringo forte il pugno.
Shannon se ne accorge e me lo fa aprire rivelando le innumerevoli mezze lune sulla carne, alcune più profonde, altre piene di sangue.
«Da quanto?»
«Cosa?»
«Da quanto lo fai? Smetti subito o ti consumerai.»
Afferra la mia mela dando l'ultimo morso più che nervoso. Aspira poi una boccata di fumo. «Non devi parlarne se non vuoi. Tutti vorrebbero sapere ma io l'ho visto e ho visto come ti ha conciata quel...», si alza con uno slancio dando un pugno contro una corteccia.
Corrugo la fronte sorpresa dalla sua reazione. «Eri lì?»
Annuisce. «Purtroppo siamo arrivati tardi. Eri priva di sensi quando abbiamo dato una lezione a quei bastardi. Dana piangeva disperata mentre parlava con tuo padre al telefono ma era così tanto nel panico da non riuscire ad aiutarti. Così ci ha pensato lui e poi io e quando è arrivato tuo padre con l'ambulanza...»
Non credo di volere sapere il resto della storia. Mi alzo. «Scusa, non ce la faccio», balbetto.
Mi guarda comprensivo lasciando che mi allontani.
Mi sento sulla soglia di una crisi di nervi o di un attacco di panico. Oscillo in modo scostante da un estremo all'altro dove l'unica certezza è solo questo senso di delusione e rabbia che mi perfora le viscere.
Sto per entrare nel magazzino quando me lo ritrovo davanti.
Il mio cuore si ferma per poi prendere la rincorsa. Le mie guance si surriscaldano mentre il mio corpo di irrigidisce.
I suoi capelli... neri come le piume di un corvo hanno coperto completamente il bianco. I suoi occhi, offuscati dal gelo dell'inverno che gli ha soffiato sulle iridi mi stanno fissando come se fossi una visione.
Mi basta vedere solo il suo viso perfetto perché mi si annodi la gola. Il mio cuore invece batte feroce chiedendomi di spezzare il contatto visivo.
In mezzo a tutto questo frastuono dentro di me scatta qualcosa. Adesso tocca a me fargli capire che la delusione a volte è come un pugno nel petto quando ti arriva all'improvviso. E fa così male che poi non ti addormenti perché invade ogni tuo spazio, ogni tuo silenzio. Non è che ti passa andando avanti, facendo finta di niente o sorridendo. Non ti passa neanche se indossi una nuova maschera per andare avanti.
Stringo il pugno ignorandolo, superandolo.
Raggiungo Ephram e Xavier. Quest'ultimo con un ampio sorriso prova ad abbracciarmi ma mi divincolo davanti a tutti, davanti a lui che adesso mi osserva da lontano sconvolto dalla mia reazione.
«Che hai?»
«Non ho niente.»
"Sto bene", "Niente", "Non è niente". Tutte bugie per nascondere ogni pezzo di te che svanisce senza fare rumore.
«Ha un problema di fiducia», gli spiega Ephram al posto mio. «Se non la tocchi non rischi di farti male.»
Xavier mi sorride. «Sai fare la mossa di Bruce Lee?», mi prende in giro.
Alzo gli occhi al cielo. «Peggio», lo guardo male.
Mette le mani avanti continuando a sorridere poi prova a colpirmi ma prendendomi per mano mi fa fare una giravolta a ritmo di musica.
«Stai rischiando, amico!», lo avvisa Ephram.
Sorrido e i due si rilassano. «Scusate non sono di compagnia.»
Negano. «Ti passerà.»
Mi piace lo spirito risoluto di Xavier. Così felice. Così positivo. Così poco incline ai drammi. Non prende tutto alla leggera ma fa in modo che l'aria non si riempia di veleno. Quello che ci vuole attualmente in mezzo a questa nebbia in cui mi trovo bloccata.
«Erin?»
Una voce femminile mi coglie alla sprovvista.
Mi irrigidisco quando sento dei passi svelti alle mie spalle. Una mano delicata mi si posa sul braccio e quando mi volto di scatto noto terrore puro negli occhi di Dana.
«Scusa. Non volevo spaventarti.»
Cerca una risposta nei miei occhi.
«Che cosa vuoi?»
«Volevo... io...», sospira. «Niente. Mi fa piacere che tu sia tornata. Avevi ragione. Su tutto.»
Si allontana con le spalle curve.
I miei occhi la seguono fino a fermarsi sui due pozzi chiari che mi scrutano e continuano a seguirmi.
Mi volto. «Scusate ma non mi sento bene», dico indossando il parka.
Ephram mi segue. «Posso accompagna...», si blocca impallidendo.
Mi giro per capire.
«L'accompagno io», dice Shannon.
Tiro sulla spalla lo zaino. «Grazie ma... vado da sola. Chiamerò mio padre.»
Superandoli mi avvio all'uscita. Kay mi sbarra la strada. «Possiamo parlare?»
Non lo guardo nemmeno. Fingendo che non esista mi sposto all'entrata chiamando mio padre.
Ottenuto il permesso mentre sto con lui al telefono lo raggiungo in ufficio al comune dove mi siedo sul divano a due posti di un giallo ocra discutibile.
«Stai male?»
«Volevo evitare le domande insistenti e... anche...»
«Kay Mikaelson? Non si è arreso, non lo farà. Ascolta Erin, hanno chiamato svariate volte per te e bussato alla porta. Se non li affronti, non potrai mai andare avanti.»
«Possiamo andare a casa?»
«Ho ancora del lavoro ma posso lasciarti e poi tornare per cena.»
Accetto e una volta a casa indosso un pigiama infilandomi sotto la coperta.
Forse mi addormento perché sogno di sentire un forte freddo seguito da un rumore assordante. Mi alzo a metà busto atterrita e urlo spaventata alla vista di una figura dietro la finestra.
Bussa ripetutamente chiedendo di entrare.
Mi avvicino. «Vattene. Non ho voglia e nemmeno tempo di parlare con te.»
«Invece devi ascoltarmi.»
Nego. «Mi fai schifo!», chiudo la finestra tornandomene a letto.
«Se non vuoi che lo sappia la vicina e poi tuo padre devi aprirmi o giuro che mi accamperò qui e ti urlerò questo: "mi devi... un pomp...".»
Stringo il cuscino sulle orecchie per non ascoltarlo. Inspiro ed espiro rimanendo ad occhi chiusi, nella speranza che quando li riaprirò lui sarà svanito come una visione.
Ma questo non accade anzi, la sua voce si fa sempre più forte.
Scosto la coperta infuriata e vado ad aprire la finestra. «Te ne devi andare! Non voglio vederti. Sei uno stronzo! Sei un grandissimo testa di cazzo! Sei come Attila: dove passi non cresce più niente. Sparisci dalla mia vita e non farti più vedere. È colpa tua se sono ridotta in questo stato. Vallo a chiedere a miss capelli rosso sbiadito il lavoretto perché io non spreco la mia bocca per un bastardo come te!», detto ciò chiudo la finestra, tiro la tenda e infilando le cuffie mi metto di nuovo a letto.
Lui è arrivato e mi ha spezzato come un ramoscello lasciando che tutto dentro di me andasse in frantumi. Ho sentito solo il frastuono di ogni coccio rotto, di ogni scheggia e frammento depositato nel profondo, su una superficie arida, piena di ricordi. Mi sono rotta dentro sentendo il peso asfissiante del dolore che ha continuato a consumarmi per anni senza mai spegnersi. Pensieri, paranoie, frasi trattenute e sguardi lasciati a metà per paura di non riuscire a colmare quel vuoto, ogni giornata passata nel buio. Ogni momento triste senza speranza. Lui è arrivato come vento e ha spazzato dentro di me tutto quanto lasciando solo rabbia e delusione.
«Ti odio!», dico addormentandomi.
Dopo quello che a me sembra solo un attimo di pura pace, sento mio padre sbraitare al piano di sotto con qualcuno. La musica alle orecchie si è spenta. Tolgo le cuffie, sguscio fuori dalle coperte e a rilento apro la porta per origliare.
«Posso vederla? Le prometto che starò qui per qualche minuto. Se vuole può anche farla scendere in soggiorno ma mi permetta di parlarle. Io... voglio solo parlare con lei», strilla affannato Kay.
«Mi dispiace. Mia figlia non vuole vederti.»
«Ok. Può almeno darle questo?»
«Si. Questo posso farlo.»
C'è esitazione nella voce di mio padre.
«Adesso devi andare», aggiunge.
«Buona serata signor Wilson.»
«Anche a te Kay», chiude la porta sospirando poi sale le scale ed io corro a letto rischiando di farmi male.
Fingo di dormire quando la porta si apre. «Erin, sei sveglia?»
Mi giro. «Adesso si», replico sottovoce. «Che c'è?»
Papà avanza posando qualcosa sul comodino. Quando guardo più che curiosa noto un piccolo sasso rotondo levigato con una pergamena allacciata sopra. Fisso il fiocco rosso e mi rendo conto che siamo come dei gomitoli, ingarbugliati, resistenti.
«Ha un significato quel sasso?»
Il problema è che quando ci metti troppo cuore alla fine il tuo esserti esposto diventa la tua condanna. E non c'è più nessuna via d'uscita.
Annuisco portando le gambe al petto. Per la prima volta mi mostro per quella che sono: una ragazzina piena di insicurezze, fragilità nascoste e sogni infranti; soprattutto piena di solitudine interiore.
«Non ti va di vederlo?»
«No.»
Sto mentendo a me stessa. Non appena ho visto quel sasso ogni mia certezza è crollata.
«Lo perdonerai per qualsiasi cosa lui ti abbia fatto?»
«Non lo so. Sono troppo arrabbiata, rischierei di trattarlo male e non è quello che voglio.»
Nella vita impari molte cose. Impari a non ferire più chi ti fa del male, ti allontani da tutto ciò che è tossico o negativo, non vivi più drammi, non hai bisogno di nessuno che ti faccia sentire inutile o non abbastanza. Impari molte cose vivendo nella tua solitudine. Il posto in cui osservi e cerchi sempre di salvarti da solo.
Papà riflette su qualcosa. «Sei tosta, eh?»
Mi sfugge un sorriso e lui prova a circondarmi le spalle con un braccio anticipandomi la mossa per prepararmi.
Sento di averne bisogno. Mi lascio avvolgere e con sicurezza mi avvicina al petto dandomi un bacio sulla testa.
«Andrà meglio», sussurra.
Ed io lo spero.

🖤

Come crepe sull'asfaltoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora