Capita a tutti di nascondere qualcosa. Ad esempio un problema o un sentimento, quello che ci spaventa a morte. Nascondiamo agli occhi degli altri quello che desideriamo o vogliamo a tutti i costi per paura di apparire stupidi o per non creare allarmismi.
E mentre fuori sembri felice, spensierato, pieno di vita, dentro crei solo muri alti, recinzioni pericolose. Il tuo cuore diventa come un cubetto di ghiaccio che ben presto si trasforma in un iceberg in grado di farti inabissare sempre più giù, in profondità.
Ascolto disattenta la lezione di biologia. Il professore: un uomo basso e goffo dalla carnagione olivastra, capelli di un nero pazzesco apparentemente tinti, continua a parlare facendo avanti e indietro lungo il corridoio che separa le due file di banchi disposti ordinatamente, senza mai impigliarsi tra gli zaini e le cartelle messe di fianco ad ogni banco.
Indossa una camicia a quadri sul beige, pantaloni color cachi e mocassini. Un cardigan sulle spalle e la passione di un uomo che ha fatto del suo mestiere il suo unico amore.
Ephram mi passa un foglio controllando che il professore sia ancora di spalle. Fa finta di niente picchiettando la mina su un nuovo foglio bianco. Apro quello ripiegato che mi ha appena passato facendo bene attenzione a non farmi beccare come uno dei nostri compagni che è appena uscito dalla classe perché a quanto pare giocava a pac-man sul telefono.
Mi sfugge subito un sorriso alla vista del disegno.
Ephram è davvero bravo.
Ha creato una caricatura di se stesso con il cervello in fumo, ci sono anche io con lo sguardo verso la finestra e il professore dietro a parlare. Osservo con maggiore attenzione e ho lo sguardo perso. Chiudo velocemente il foglietto infilandolo dentro il quaderno.
Gli altri vedono quello che mostriamo ed io in questi giorni sto solo mettendo in mostra la mia infelicità, il mio broncio, infettando chi mi sta intorno con il mio malumore.
La campanella finalmente suona con un bel trillo in grado di fare risvegliare parte della classe comodamente adagiata sui banchi. Quasi tutti abbiamo la stessa reazione. Come punti da un ago invisibile, scappiamo velocemente fuori per cambiare aula lasciando uscire il fiato.
Ephram si avvicina in fretta, libro sottobraccio. «Che ne farai del mio disegno?», indaga.
Sto ancora pensando all'espressione che ha disegnato e adesso sembra agitato.
«Penso proprio che lo terrò per ricattarti», stringo il quaderno al petto facendogli intuire dove l'ho nascosto.
Prova a rubarmelo e mi scanso ridendo. «Non provarci nemmeno!»
Si ferma poi riprova e allora scappo. «Ti avverto, se solo provi a riprendertelo ti metto immediatamente al tappeto. Non farmi usare una delle mie tecniche», minaccio raggiungendo il suo armadietto.
Cambia in fretta i libri. «Lascia almeno che te lo firmi. Un giorno potrei diventare famoso e potrebbe valere un mucchio di soldi.»
Sul suo viso è appena passata una stranissima ombra. Qualcosa non va in lui. Perché farmi un disegno se poi non vuole che lo tenga?
«Ah, ah, non ci casco.»
Ephram passa la mano tra i capelli apparentemente frustrato. Sospira calmandosi interiormente. Lo vedo da come muta il suo viso. «Ci ho provato», dice mostrando i denti in un sorriso tirato ai miei occhi.
Indietreggio guardandolo con attenzione. «Dimmi la verità... perché lo rivuoi?»
Strabuzza gli occhi provando a fermarmi ma vado a sbattere contro qualcuno.
Mi volto per scusarmi ma alla vista di Dana evito immediatamente il suo sguardo e scostandomi mi avvio in aula dove passerò le prossime due ore ad evitare di avere voglia di mettermi a urlare.
Il tempo sembra passare in fretta in questi giorni. Continuare ad evitare l'inevitabile è stata la mia nuova sfida. Il dolore nel frattempo si sta allontanando lasciandomi finalmente libera di muovermi senza dovermi ingobbire all'improvviso perché priva di aria.
Durante la pausa mi ritrovo seduta in fondo ai tavoli della mensa, la testa affondata sul libro, le cuffie alle orecchie e una vaschetta trasparente di fragole e lamponi che, di tanto in tanto mangiucchio per evitare il senso di fame.
La cuffia mi viene strappata dall'orecchio e la voce di Freddie Mercury viene stroncata.
Premo il tasto sullo schermo del cellulare per non fare andare avanti senza di me dei capolavori della musica.
Dana nel frattempo ne approfitta prendendo posto accanto a me fissandomi con occhi pieni di speranza e più che decisa a parlarmi, a darmi una versione dei suoi fatti.
Ma è innegabile quello che è successo in queste settimane. Lei più di tutti sapeva quello che i King avevano intenzione di fare qualora le cose si fossero complicate e non ha neanche avuto la decenza di scriverlo per messaggio visto che non le ho parlato e l'ho tenuta lontana. Perché in fondo un modo si trova sempre quando vuoi aiutare e stare accanto a qualcuno.
Però non demorde e la sua tenacia non può fare altro che alimentare la sensazione che provo quando anche solo uno dei King mi si avvicina chiedendomi qualcosa come se niente fosse.
Lancio un'occhiata di sbieco, in direzione del tavolo in cui si trova Harper, assente con gli occhi puntati sullo smartphone, impegnata a rigirare la forchetta tra due carote mentre intorno a lei i gemelli, i suoi amici continuano a fare chiasso, ad attirare l'attenzione dei pochi che vogliono ancora fare parte del loro gruppo.
A quanto pare qualcuno si è defilato dopo la notizia che Mason ha picchiato una ragazza. Adesso hanno creato un nuovo gruppo ma non hanno ancora trovato un nome. Ho sentito alcuni ragazzi chiamarli "I Fantasmi"; altri "I Traditori". Ma sono solo voci di popolo, tutto qua.
Dovrei provare piacere per questa notizia sensazionale ma c'è ancora una parte di me insoddisfatta, che ha bisogno di non sfiorare neanche per sbaglio quel tasto dolente.
«È una settimana che cerco di parlarti. Concedimi cinque minuti poi sparirò dalla tua vista.»
Sono stanca di combattere contro i mulini a vento. «Hai due minuti a partire da adesso. Quindi, non perderti in un inutile prologo e va dritta all'epilogo», dico cacciando in bocca una fragola.
Prende fiato tamburellando con le dita sul tavolo come per darsi la carica.
Le sue unghie oggi sono laccate di smalto verde pavone che non le dona poi così tanto, tranne per le strisce dorate a formare uno zebrato sull'anulare.
«Parto subito dicendo che dal profondo del mio cuore mi dispiace davvero tanto per quello che è accaduto in questi giorni. Non troverò mai le parole adatte per spiegarti che non era mia intenzione ferirti o preferire qualcuno a te che sei stata sincera nei miei confronti sin dall'inizio.»
«Ma...», le faccio capire che ha a disposizione un solo minuto.
«Nessun ma», dice brevemente saettando con gli occhi verso il tavolo. «Ho lasciato i King. Mi sono tirata fuori dal gruppo.»
Non vorrei chiedere proprio in questo momento che cosa l'abbia spinta a tanto, ma la curiosità è sovrana.
«E i tuoi? Non hanno fatto drammi?»
Annuisce abbassando lo sguardo sulle mani che continua a martoriarsi tenendole in grembo. «All'inizio hanno dato di matto poi però hanno saputo di te e del mio pensiero e... e hanno accettato il fatto che ho detto basta con quel gruppo. Sono ancora amica di Harper ma... non parteciperò più come componente.»
Chiudo il contenitore. Questa risposta basta e avanza per farmi capire che nonostante tutto quei due terranno sempre stretti i loro seguaci. «Buon per te», mi alzo.
«Dove vai?»
«Se era solo questo che volevi dirmi così ardentemente potevi anche risparmiarmi la scenata patetica. Non mi va di perdermi ancora in chiacchiere quando ci vogliono solo i fatti. Il tempo a tua disposizione inoltre è terminato. Avevamo detto due minuti e te li ho concessi per sapere che hai abbandonato la tua reginetta ma che la frequenti ancora. Non capisco che cosa c'entro io con tutto questo ma... va bene lo stesso. Adesso me ne vado. Non abbiamo più niente da dirci quindi ti auguro una buona vita.»
Mi guarda corrucciata e in parte ferita dalle mie parole cariche di risentimento, sputate fuori con rabbia. «Aspetta», dice quasi con voce stridula balzando in piedi, seguendomi. «Ti va di parlare in un posto più appartato? Ho davvero tante cose da dirti e qui mi sento osservata e non ci riesco», mi guarda speranzosa mettendo le mani unite sulle labbra.
La guardo freddamente. «Credi che sia così stupida? Che cosa avete in mente adesso?»
Strabuzza gli occhi. «No... io... ti prego Erin. Vediamoci al "Chocolate Shop". Ti offro il pranzo e parliamo lì.»
Non riesco ad essere dura con lei per quanto mi piacerebbe esserlo e darle dimostrazione del fatto che non può stare con due piedi in una staffa. Non mi sono mai piaciute le persone che non sanno da che parte stare e si limitano a seguire il più forte.
«Sai, dovresti essere più coraggiosa e capire quando è il momento di arrendersi», dico allontanandomi.
«Lo prendo per un si. Ci vediamo fuori», replica con fermezza.
Passo le altre due ore a rimuginare, ad escogitare un piano per non ritrovarmi a pranzo con Dana o invischiata in qualche altro dramma o peggio: in una trappola.
Attualmente ho bisogno di tranquillità, di non sentirmi così sotto pressione, giudicata e guardata come quella che è sopravvissuta ad un'aggressione. Questa storia mi sta stretta, continua a farmi sentire a disagio nella mia stessa pelle.
Suonata finalmente l'ultima campanella in questa giornata spossante, mi avvio in corridoio. Ephram, rimasto in disparte e accanto a Xavier per tutta la durata della lezione ad ignorarmi forse per la questione del disegno, mi si avvicina con aria timida. Come se avesse paura di una mia brusca sfuriata.
«Ti do uno strappo a casa?»
«Oggi passo. A quanto pare ho un appuntamento. Un pranzo per la precisione.»
Si ferma un momento e vedo chiaramente lo sconcerto sul suo viso, poi continua a seguirmi verso l'uscita senza dire niente. Ma solo per qualche minuto.
«Con chi?»
«Una ragazza», dico quasi distratta.
«Alla fine hai accettato?»
La voce di Ephram la sento appena. Fuori dal cancello, appoggiato alla moto si trova Kay.
«Si, Dana ha bisogno di parlarmi e non mi va più di sentirmi costantemente sul piede di guerra o in ansia perché qualcuno potrebbe sbucare da un corridoio e fermarmi di continuo. Prima chiariamo, prima andremo avanti», dico distratta ma abbozzando un sorriso per ferire indirettamente il ragazzo che mi sta aspettando con la speranza viva nel cuore di riuscire a parlare con me.
Succede ormai da giorni, da quando ha chiesto a mio padre di darmi il suo regalo ed io non l'ho richiamato o considerato. Ho apprezzato il gesto e pure tanto ma non ce la faccio.
In qualche modo voglio solo punirlo, farlo sentire come mi sono sentita io in quell'istante che ha cambiato tutto tra di noi. Non avrei mai immaginato una situazione così opprimente per il mio animo in tormento.
Ma noi due siamo così: ci attacchiamo, ci punzecchiamo, ci facciamo i dispetti a vicenda. Un po' come quando da piccoli lui mi lanciava una pallonata in testa dallo steccato ed io lo rincorrevo per vendicarmi. Ognuno, agisce prima che lo faccia l'altro per paura di non riuscire ad incassare ogni colpo. E ci mettiamo sulla difensiva per non apparire così esposti e vulnerabili. Ma ci basta uno sguardo ad intrappolarci.
«Vuoi compagnia?»
Ci penso su fermandomi davanti ad Ephram. «Compagnia per cosa?»
«Il pranzo?»
Apro e richiudo la bocca. Per un attimo avevo pensato si riferisse a Kay.
«Direi che posso cavarmela da sola, ma se avrò bisogno ti scriverò prima che succeda qualcosa così poi potrai avere le prove materiali», replico prendendo il sentiero che conduce alla seconda uscita.
Lo faccio per evitare Kay, per non sentirmi così arrabbiata e delusa, per non sentirmi ferita.
Ephram ficca i palmi dentro le tasche saltellando un momento a causa dell'aria fredda che ci spezza il fiato, oggi più di ieri.
«Ho notato sai?»
Fingo indifferenza. «Notato... che cosa?»
«Il tizio sulla moto? Alto, capelli neri, occhi freddi, sguardo da assassino...»
Lo guardo continuando a fare la vaga. «No, non credo di conoscere nessuno che rientri in questa descrizione così poco comune.»
Fa una smorfia come per dirmi: "Ne sei sicura?".
"No, non sono sicura", vorrei tanto rispondere alla sua domanda inespressa. Purtroppo non ce la faccio a mentire. Ci sono volte in cui la mia faccia parla più della mia bocca.
«Perché scappi da lui?»
Intuendo di non avere scampo sbuffo. «Non mi va di parlare di lui. Vedilo come un fantasma o una strana apparizione del subconscio.»
Inarca un sopracciglio. «Quanti antidolorifici stai assumendo?»
Rido. «Non ne prendo più. Mio padre me li ha confiscati prima che assumessi una vera dipendenza. Mi piaceva l'effetto panacea.»
«Ma non è così che dovresti andare avanti», conclude per me.
Annuisco.
Mettendosi a braccetto camminiamo fino all'incrocio.
«Tu invece... che piani hai per oggi?»
Riflette un momento sulla mia domanda. «Probabilmente mi preparerò al weekend giocando alla play con Xavier, mangiando pizza, bevendo lattine di birra, facendo commenti sulle curve delle tipe più belle della scuola...»
Ci fermiamo scrutandoci reciprocamente un momento di troppo e lui scoppia a ridere. «Scusa, maschilista come risposta lo so. Volevo dire che non ho grandi piani e che probabilmente farò quello che ho sempre fatto da quattro anni a questa parte ovvero: giocherò con Xavier e parlerò con lui di ragazze.»
Mi faccio attenta. «Ti piace qualcuno? Vuoi qualche consiglio spassionato?»
Arriccia il naso fermandosi alla vista di Dana. Siamo arrivati nel punto in cui le strade si snodano.
Il tempo è di un grigio scuro all'orizzonte e fa così freddo che quasi sicuramente domani ritroveremo il primo strato di vera neve.
«Se avrò bisogno tirerò una pietra alla tua finestra», dice con un sorriso. «Per il resto l'invito a passare il tempo con noi è sempre valido», staccandosi indietreggia. «Pensaci, non c'è bisogno di avvisare», alza il tono allontanandosi mentre Dana lo supera raggiungendomi.
«Pensare a che cosa?», chiede subito curiosa stringendo il manico della borsetta. I suoi occhi si accendono e quasi sicuramente i suoi pensieri circolano verso due sole direzioni.
Indossa un piumino verde oliva, blue jeans e stivali alti sul ginocchio; la macchia di capelli ribelli legata e una fascia sulla testa dello stesso colore del giubbotto. Due cerchi escono da questa e sono incastrati nei buchi che ha alle orecchie. I miei si sono chiusi da soli, non ho mai indossato orecchini.
Dana fiancheggia quando cammina. Sembra avere provato questa andatura davanti allo specchio, nella sua camera. Magari lo fa per farsi notare oppure perché è proprio così che ha sempre camminato. Prima di perdermi in inutili pensieri mi affretto a rispondere, evitando così dei buchi imbarazzanti nella conversazione.
«Ephram mi ha invitata a passare con loro il weekend ma non credo sia di tuo interesse.»
Incassa il colpo. «Be' in alternativa possiamo sempre passarlo insieme il weekend. Se dopo pranzo ti andrà ancora di vedermi e di avere a che fare con me, mi sembra ovvio», borbotta.
Mordo l'interno di una guancia. «Vedremo se sarai convincente con il pranzo», esclamo sarcastica tenendo alto il mento.
Raggiungiamo il "Chocolate Shop", un piccolo locale a sud del paese dopo il parco e la piazza che dal nome sembra tanto un negozio di dolciumi ma che di fatto si rivela un ristorante dalla forma di un pulmino ben organizzato.
Le pareti sono a metà rosso fragola e bianche, i divani a forma di ferro di cavallo intorno ai tavoli grigi mi fanno sentire come dentro una navicella spaziale. Le vetrate satinate permettono il rispetto della privacy mentre si mangia.
Dana mi guida lungo il corridoio a separare i vari posti a sedere pieni di persone e ci sediamo ad un tavolo libero davanti all'ampia vetrata.
Mi guardo ancora intorno. Alle pareti dei bellissimi quadri in stile graffiti, sui pilastri sono appese delle vecchie foto, non in linea con lo stile moderno del luogo. Nonostante ciò credo siano stati originali nel mettere in evidenza un pezzo di storia di questo posto.
Un enorme bancone rosso fragola con il ripiano grigio pieno di sgabelli funge da bar. Accanto a questo una vetrina piena di dolciumi. Dietro il bancone un signore dell'età di mio padre in divisa bianca e rossa impegnato a prendere gli ordini e a trasferirli in cucina. Due ragazze lavorano in questo locale e sono le figlie dell'uomo, come mi suggerisce la foto.
Nell'aria aleggia l'odore del frappé alla banana, della cioccolata calda e dei panini. La dolcezza infatti va a mescolarsi all'odore di frittura.
Dalla cucina escono pietanze apparentemente gustose e abbondanti, come posso notare quando mi passa accanto una delle due ragazze, quella più alta e dal viso spigoloso. Non sembra poi così felice di stare qui dentro.
Vedendomi distratta Dana richiama la mia attenzione. Seduta davanti a me mi è impossibile ignorarla. «Allora, che cosa volevi dirmi?»
Guardo il menu abbastanza intuitivo grazie alle immagini scegliendo velocemente un hamburger e patatine. Da bere una coca-cola zero.
Per prenotare bisogna semplicemente digitare il piatto scelto dal tablet collegato al divano sulla quale sono seduta.
Dana fa lo stesso prima di prepararsi ad affrontare l'argomento. «Avrei dovuto avvisarti», inizia. «Avrei dovuto dirti quello che avevano intenzione di fare e ci ho provato, tu non mi hai dato la possibilità di parlarti...»
«Avresti potuto anche scrivermi, lo avrei letto un messaggio ma la verità è che ti sei solo arresa e adesso non sai come levarti il peso dalla coscienza», sbotto. «Hanno imbrattato un muro e minacciato mio padre. Mi sono fatta male perché nessuno ha avuto il coraggio di contraddire quel bastardo, te compresa. Ma non posso biasimarti di certo, visto come è andata a finire. Avevi paura e lo capisco ma un modo si trova.»
Al tavolo arriva la ragazza che ha due lunghissime trecce colorate, con le nostre bibite. Ringrazio prendendone subito un sorso sentendo la gola secca.
«Non voglio rovinare quello che si stava creando tra di noi.»
«Lo dici solo adesso che hai perso l'ape regina? Anzi, no non l'hai persa, hai solo deciso di uscire dal gruppo, di non avere vincoli ma con lei lo avrai sempre. Harper non è una ragazza che lascia andare così facilmente.»
Beve la sua aranciata avidamente. «No, lo dico perché sin dall'inizio ho visto in te una persona sincera da chiamare davvero amica.»
La ragazza torna con le nostre ordinazioni. Se si accorge che tra di noi c'è aria di bufera non lo mostra dalla sua espressione plastica, cordiale. «Se volete qualcos'altro usate sempre il tablet. Buon pranzo», ci augura allontanandosi.
Assaggio l'hamburger emettendo un verso di pura estasi. «Dio, è buonissimo!»
Dana annuisce facendo lo stesso. «Era da un pezzo che volevo tornare qui.»
Mando giù il boccone. «Perché non mangiavi?»
Per un attimo le nuvole si allontanano. L'astio viene messo da parte, così come la delusione che continua a bruciarmi come acido sulla bocca dello stomaco.
«Stare accanto ad Harper non è facile. È fissata con il sushi, e altre robe come centrifughe o l'uso di condimenti da fare male allo stomaco per giorni», biascica. «Ci credi che mi sento sollevata?»
«Lo credo bene. Starle accanto come hai detto anche tu non è facile. Ne so qualcosa ma i miei sono solo i ricordi di una bambina che veniva presa in giro per tutto il tempo», dico azzannando le patatine che hanno una forma seghettata e sono davvero gustose.
«Non deve essere stato facile per te, mi...»
Alzo la mano. «Alt! Non dire ancora una volta che ti dispiace.»
Richiude la bocca piena di cibo pulendosi l'angolo pieno di salsa. «Ma sono davvero...»
«No, non dirlo! Sono stanca di sentirmelo ripetere.»
Avvampa intristendosi. «Allora... pensi che riusciremo a sistemare le cose tra di noi?»
Immergo una patatina nel ketchup prima di puntargliela addosso. «C'è un noi adesso? Vacci piano o qui domani si divulgherà la notizia che siamo lesbiche. Da minaccia per i ragazzi a cambio di sponda è un bel salto», dico con finto sarcasmo.
Abbozza un sorriso abbassando le spalle. «Sai che cosa intendevo dire...»
Annuisco incrociando le braccia sul tavolo. «E con Davis?»
Guarda ovunque. «Dopo che è successo quel fatto noi... noi abbiamo discusso. Ci siamo un po' allontanati da allora anche se continuiamo a sentirci e a vederci. Non con la stessa frequenza ma...», cerca di capire se sono interessata.
«Ma?»
Prende un respiro. «Non è più come prima. Lui... è quasi sfuggito al pestaggio solo perché con Damon volevano aiutarti e adesso si sente in colpa perché stavamo discutendo prima di sentire le urla di Harper e raggiungervi. Era tardi...»
«Ma voi non avete preso parte all'aggressione», dico con una nota amara.
«Si, ma quando siamo arrivati nello stesso istante sono subentrati gli Scorpions e i King che erano ancora al parco ed è scoppiato il finimondo che ha incasinato tutto quanto.»
Vedendomi del tutto estranea ai fatti si ferma. «Non ricordi niente di quello che è successo?»
Nego. Ricordo solo di avere sentito delle urla ma poi ho come un buco dentro la testa. È come se qualcuno avesse staccato la presa di corrente spegnendo tutto. «No, forse è la cosa migliore per evitare di ripensarci continuamente.»
Quando ti capita di vivere qualcosa di brutto o sconvolgente, i ricordi non svaniscono, ti accompagnano costantemente nel tuo presente riempendo quei vuoti nelle giornate in cui senti di potercela fare a tornare con il sorriso. Ad un certo punto ti fermi e pensi di dovere smettere e allora inizi a sperare. Ti illudi che presto tutto possa svanire e nella tua vita possa ritornare il sole e cullarti verso momenti pieni di gioia. Ma non so se sia più dura immaginare una vita migliore o una vita migliore fatta di dolore. Perché anche se ci provi, non si stacca più dalla pelle. Il dolore rimane come un neo, una cicatrice, una smagliatura a ricordarti di ciò che c'è stato, di quello che hai vissuto.
Dana passa la lingua sulla labbra. «Posso farti una domanda?»
Le faccio cenno di proseguire.
«È successo qualcosa prima al magazzino? Per questo stavi tornando a casa?»
Non vacillo mentre dentro di me si scatena già un temporale. «Le voci girano a quanto pare...»
Allontana il piatto vuoto prendendo il tablet. «Hanno solo detto che sei scappata dal magazzino dicendo che stavi male ma nessuno sa esattamente che cosa ti è successo.»
Bevo un sorso di coca-cola. Certo, a tutti è sfuggito il dettaglio, il motivo scatenante, rifletto.
«Sai che cosa è successo? Che non credevo di potere provare qualcosa per qualcuno e quando ho visto l'immagine disgustosa che avevo davanti il mio mondo è crollato quindi me ne sono andata con una scusa e poi sono stata fermata da Damon e pestata da Mason.»
Non so perché mi sto fidando. Forse sento solo il bisogno di sfogarmi, di lasciare uscire qualcosa fuori anziché tenerla dentro con il rischio di farmi molto male.
Dana mi ascolta con attenzione senza giudicarmi. Noto però che prova ribrezzo per quello che mi ha fatto.
«Allora hai anche tu un lato tenero», mi sorride ammiccando.
La guardo male. «Se lo dici a qualcuno ti vengo a cercare», la minaccio.
Digita velocemente sul tablet. «Ho ordinato il dolce anche per te», continua a sorridere. «E dimmi... per caso riguarda quel ragazzo che continua a farsi trovare davanti il cancello della scuola sulla moto e al magazzino ti tampina cercando sempre il momento giusto... quello in cui sei distratta per fermarti?»
Non posso negare ciò che è evidente a tutti. Inoltre il mio corpo si è appena teso come la corda di violino. «Si stancherà.»
Dana risponde ad un messaggio. Sollevando gli occhi nota che la sto guardando con sospetto e allora mi mostra subito lo schermo dove mi ritrovo a leggere il messaggio che Davis le ha appena inviato dove le chiede di vedersi. «Non ti pugnalerò alle spalle. Non andrò più contro i miei principi per piacere a qualcuno che non mi vuole nella sua cerchia. Quando dicevo che mi sento meglio, non mentivo. Ho meno pressione addosso e tutto sembra diverso. Adesso non devo preoccuparmi su cosa mangio o se compro una maglietta nei grandi magazzini. Sono cose stupide eppure così normali che mi sono mancate.»
Vederla così trasognante mi fa stringere il cuore. Mi piacerebbe essere come lei ma dentro porto il peso di ogni scelta e devo continuare a trattenerla.
Quando ci arriva il dolce, noto con piacere che si tratta di una fetta di torta al cacao con palline di gelato al pistacchio sopra coperte da una glassa a zig zag e delle scaglie di cioccolato sopra.
«Con questa hai acquistato punti», biascico leccandomi le labbra.
Si gode la torta. «Tornerò spesso qui, se vuoi ingrassare insieme a me sei la benvenuta.»
Sorrido sincera. «Vedremo.»
«Stai bene?»
Allontano il piatto. «No, non sto affatto bene ma sto continuando ad andare avanti cercando una tregua tra mente e cuore che continuano a tirare la corda. Presto o tardi questa si spezzerà e io precipiterò verso una sola direzione.»
Dana riflette sulle mie parole. I suoi occhi dallo schermo del telefono si spostano alle mie spalle. Le si ferma il respiro. «Non per allarmarti ma non dovresti voltarti e dovresti scappare da qui, immediatamente», sibila sgusciando dal divano, facendomi cenno di seguirla.
Mi alzo lasciando una banconota sul tavolo proprio come ha fatto lei e provo a seguirla ma non sono abbastanza svelta perché una mano si posa sul mio gomito facendomi voltare.
Lui è davanti a me. I suoi occhi freddi pieni di sensi di colpa mi trafiggono come aghi di pino conficcati nel cuore.
«Erin...»
Mi giro verso Dana. «Si è fatto tardi, andiamo o mio padre chiamerà la guardia nazionale...»
Dana annuisce seguendomi fuori. In un primo momento non dice niente continuando a tenermi d'occhio poi però apre bocca. «Perché non vuoi parlare con lui? Lo hai deliberatamente ignorato davanti a tutti. C'erano i suoi amici.»
Sono pentita e delusa dal mio comportamento, dalla scarsa mancanza di giudizio. Mi sto comportando come una ragazzina alle prime armi, spaventata dalle difficoltà. Sono davvero dispiaciuta perché lui in fondo non è quello che pensa. Non è quello che la gente dice. È molto altro. Qualcosa di forte che non riesco a controllare in questo cuore spento che rischia di scoppiare. Lui è come l'arcobaleno quando il sole esce allo scoperto mentre piove. Raro ma spettacolare con i suoi colori, con le sue sfumature. È quello sguardo che ti rimane impresso nella carne. Lui riesce a tirare fuori la parte migliore e peggiore di me anche quando non ne ho la forza e mi sento morire o sono troppo impegnata a chiudermi anziché soffrire o gioire.
Lui non è come gli altri, non lo è per me. Lui è per me tutto ciò che gli altri non riescono ad essere. E questa cosa mi spaventa. Mi fa paura da quel giorno. Quello in cui ho capito di essermi persa.
Lui è riuscito a catturare la mia anima con uno solo dei suoi sguardi, ha riempito di stelle il buio e con i suoi strani gesti mi ha tirato fuori dall'angolo in cui mi ero rinchiusa.
E non so bene che cosa si faccia in questi casi ma so che mi ha regalato tanto. Eppure non riesco a trovare il modo di perdonarlo.
Mi fermo. «Non voglio che pensi che io sia incapace a gestire le sue parole ma non me la sento di ascoltarlo. Non me la sento di guardarlo negli occhi e rivedere quello che ha fatto. Io... ho rischiato di farmi molto male solo perché ero arrabbiata con lui.»
Si abbraccia. «Lo sa già, non credi? Forse vuole chiederti scusa e tu... dovresti essere meno dura con te stessa.»
Apprezzo il suo tentativo. Vedendo arrivare Davis con la sua auto azzurro carta da zucchero la saluto più in fretta che posso. «Passa una buona giornata e grazie per il pranzo.»
Mi incammino verso casa scegliendo solo le strade più trafficate evitando i vicoli bui e silenziosi.
Giunta in piazza rallento un po' il passo guardando all'interno dei locali. Nel bar c'è lui, il ragazzo che mi ha trattata come una bambola di pezza: Mason.
L'odio è così tanto da avere voglia di entrare e prenderlo a pugni ma una voce mi urla di non farlo, di non mettermi nei guai. Di non dargli più alcun modo di avere potere su di me.
A denti stretti proseguo fino a casa.
Arrivo quasi al tramonto dopo avere fatto una passeggiata sul sentiero nel bosco vicino.
L'auto di papà è già sul vialetto. La porta si apre e lui esce quasi di corsa ma vedendomi in minima parte turbata come sempre e allo stesso tempo serena, facendosi da parte mi fa entrare in casa.
«Ero con Dana, voleva parlarmi e abbiamo pranzato insieme», dico. «Non pensavo di fare così tardi.»
Mi ascolta recandosi in soggiorno. Indossa una tuta. Non credo di averlo mai visto in tenuta sportiva. Mi fa quasi impressione.
«Guardavi dalla finestra come la vicina?»
Gratta la guancia arrossendo lievemente sulle guance. Saetta ovunque con gli occhi appigliandosi ad ogni suppellettile. «Cerca di capire...»
Tolgo il giubbotto lasciandomi cadere sul divano. «Si, dovevo avvisare.»
Cambia canale. «Non lo fai mai. Qui non puoi sparire, fare quello che ti pare e poi tornare come se niente fosse. Non funziona così. Tua madre ti ha dato un cattivo esempio.»
Lego i capelli evitando di notare la provocazione nella sua risposta. «C'è il coprifuoco, so quando tornare e poi non sapevo di trovarti già a casa. Di solito non ci sei al mio ritorno. In più non volevo stare sola.»
Soppesa il mio sguardo mentre vado in cucina a prendergli una birra e a preparargli una porzione di popcorn.
Ha scelto il canale sportivo, deduco voglia guardare la partita in santa pace.
Mi siedo accanto a lui dopo avere portato le mie cose in camera. Prendo una manciata di popcorn ripensando alle parole di Dana, a quegli occhi che mi spaventeranno nei sogni probabilmente per sempre e alla sensazione che non riesco a sedare.
«Com'è andata a scuola?»
«Bene direi. Ephram mi ha chiesto di andare da lui qualche volta nel weekend.»
Beve un sorso di birra ma dalla sua espressione non fa uscire alcuna emozione. «E tu vuoi andarci?»
«Abita qui vicino», gli faccio notare. «Non devi venirmi a prendere.»
Massaggia il mento mettendosi comodo sul divano fissando le prime immagini della partita di football. «E di Kay, invece che mi dici?»
Strabuzzo gli occhi. Adesso che cosa c'entra?
Sto per rispondere quando qualcuno suona il campanello.
Papà va ad aprire. Non ritornando in soggiorno vado a controllare e mi si blocca il respiro.
Kay se ne sta sulla soglia, mio padre non sa che cosa fare. Le opzioni nella sua testa sono quasi sicuramente due: mandarlo via a calci o non intromettersi. Rimane in sospeso ma dopo pochi istanti sbuffa dal naso. «Vi lascio soli.»
Lo guardo male ringraziandolo mentalmente per il tradimento. Sono sbalordita. Non riconosco più mio padre oggi.
Mi avvicino alla porta. Kay, prima che io riesca a chiudergliela in faccia decide in fretta il da farsi e con uno slancio si infila in corridoio appoggiandosi al muro. «Sai che non mi arrendo?»
«Sai anche che non voglio vederti.»
Dilata le narici. «Possiamo stare due minuti, da soli?», indica il soggiorno dove si trova mio padre.
Sto già scrollando la testa. «No, non riesco neanche a guardarti. Vattene, per favore.»
Non si muove di un millimetro. Un lampo però attraversa i suoi occhi accendendoli e trasmettendomi un brivido lungo la schiena quando capisco che ha qualcosa in mente.
«Signor Wilson, posso parlare con sua figlia in privato, magari nella sua stanza?»
«Se lasciate la porta aperta a me sta bene.»
Apro la porta indicando fuori. «Vattene! Non ho niente da dirti.»
Si avvia con grinta e quasi divertimento nella mia stanza.
Alzo gli occhi al cielo e poco prima di seguirlo guardo male mio padre. «Grazie tante!»
Solleva la birra.
«Non era un ragazzo poco raccomandabile per te?», brontolo salendo le scale a rilento.
Quando apro la porta della mia stanza lui se ne sta sdraiato sul letto. Ha tolto il giubbotto sistemandolo sulla sedia.
Come sempre si sta comportando da stronzo per farmi capire che ottiene sempre ciò che vuole.
Mi appoggio alla parete per rimanere a debita distanza da lui. «Che cosa vuoi?»
Si alza con un balzo facendomi sussultare, avvicinandosi mi blocca con il suo corpo statuario.
«Hai ricevuto il mio regalo», lo indica. «Lo hai accettato ma non hai accettato di parlarmi, perché?»
Lo spingo. Il suo profumo mi confonde. «Perché se solo provo a guardarti io... rivedo tutto e... non ci riesco», sussurro distogliendo lo sguardo.
Mi afferra le mani, il suo tocco mi brucia la pelle. Mi scanso. «Non toccarmi!»
Contrae la mandibola. «Mi fai spiegare?»
«Non voglio», sussurro.
Picchia il pugno sulla parete. «Porca puttana! Mi ascolti almeno una volta? Dio, sono qui. Sono qui ogni fottuto giorno e tu continui a punirmi. Si, continui a farlo e non puoi negarlo. Oggi è successo di nuovo all'uscita da scuola. Hai sorriso a quel...», stringe i pugni sul viso. «Hai persino permesso che ti toccasse mettendosi a braccetto...»
«Erin»
Papà sbuca in camera. Scocca una breve occhiata piena di domande a Kay che se ne sta al centro della stanza sul punto di esplodere poi mi guarda corrucciato, pieno di scuse. «C'è stata un'emergenza devo...»
«Ok, vai a salvare il mondo», dico sentendomi improvvisamente esposta.
«Posso lasciarti sola?»
Apro la bocca pronta a rispondere.
«Non sarà sola. Mi assicurerò che stia bene per tutto il tempo che sarà necessario», dice cogliendo l'occasione al volo sfoggiando un ampio sorriso rivolto a mio padre.
«Che cosa? Scordalo! Non passerò il mio venerdì sera con questo stronzo!»
Papà lo guarda con un misto di rabbia, rancore e infine stupore. Gli sorride brevemente. «Nessuna uscita», minaccia infine puntandogli l'indice contro. «Se la tocchi contro la sua volontà sei morto. Ma dubito di trovarti vivo al mio ritorno, conoscendola.»
Ridono.
«Ricevuto!»
«E se la fai soffrire un'altra volta me la paghi.»
Guardo mio padre sbalordita. «Ehi, sono qui. Dovrei decidere io, non credi?»
Papà mi lancia un brevissimo sguardo d'intesa e scusandosi ancora esce in fretta dalla stanza.
Kay chiude la porta non appena sente l'auto uscire dal vialetto ed essersi assicurato guardando dalla finestra di essere soli.
Adesso appare meno teso ma pronto a combattere.
«Ho sbagliato, ok? Sono dispiaciuto. Me la farai pagare per tutto il tempo che vuoi ma non allontanarmi...»
«Facile a dirsi», borbotto interrompendolo.
Si avvicina. «Cosa vuoi che faccia?»
«Porta indietro il tempo», dico scivolando via dalla sua presa che mi sfiora la pelle infuocandola.
Mi siedo sul letto abbracciando il cuscino e lui mi raggiunge. «Non posso portare indietro il tempo. Ti faccio così schifo?»
Gli scocco un'occhiataccia suggerendogli la risposta.
«Non riesco a capire perché ti chiudi. Non capisco perché crei i tuoi muri. Mi piacerebbe essere forte abbastanza da farli crollare, avere la capacità di buttare giù ogni singola pietra che, continui ad incastrare per innalzarli sempre di più. E credimi quando ti dico che mi piacerebbe farmi spazio tra quelle crepe che hai nel cuore fino a raggiungere il centro, arrivare a te, abbracciare forte la tua anima e farti capire che con me non hai bisogno di fingere. Non è mia intenzione farti male, Erin. Io voglio solo che sul tuo viso torni il sole.»
Affonda la mano sulla mia guancia avvicinandomi ma lo respingo.
Mi piacerebbe che le parole non ingarbugliassero i miei pensieri. Mi piacerebbe davvero essere forte, farmi scivolare addosso questo freddo inverno che sento congelarmi il cuore. Smettere di soppesare le parole che non riesco ad urlare. Ma rimane tutto un pensiero fisso che puntualmente mi distrugge l'anima. Ed io che non riesco ad andare avanti, a mettere un punto a tutto questo frastuono che mi lacera dentro.
«No, non puoi fare così. Ti prego, vattene!»
Sospira. «Davvero non capisci?», sbraita.
«Capire che cosa? Mi hai umiliata. Mi hai fatto sentire come una ragazzina desiderosa di attenzioni e poi mi hai gettata via anzi, mi hai sostituita. Come se fosse un gioco te ne sei andato a ficcare la tua lingua nella bocca di un'altra. Sei un cazzo di psicopatico. Fa un po' pace con il cervello.»
«Non hai capito che l'ho fatto per...»
«Per farmi capire che sei un bastardo? Lo sapevo già. Non avevo bisogno di quel gesto per avere la conferma.»
Nega scrollando ripetutamente la testa.
«Lasciami spiegare!»
«Non c'è niente da spiegare. L'hai fatto perché volevi e adesso non sai come uscirne perché hai capito di avere sbagliato. Ma ok. Va pure avanti. Qualunque cosa dirai, non cambierà niente di ciò che penso», dico incoraggiandolo a continuare mentre ogni sua parola è come un dardo nel petto.
«Devo dirti delle cose e devi ascoltarmi attentamente», dice provando a toccarmi.
Mi scanso facendolo sentire un verme. «Ti ascolto ma non sperare che io riesca a crederci.»
«Io... non sono lucido quando sto insieme a te o quando si tratta di te. Mi perdo. Perdo le parole, i pensieri, la voce, i battiti. Non sono stato sincero e ho sbagliato, ho commesso una cazzata e me ne pentirò probabilmente per il resto della mia vita. Ma tu non puoi incolpare solo me. Se non dico certe cose, se non mi comporto bene, se sbaglio è perché voglio solo proteggerti. Voglio tenerti lontana da me perché non meriti di soffrire ancora. Io sono un rischio, Erin. Ma tu sei come un uragano e adesso capisco perché prendono il nome delle persone. Forse la mia più grande paura è proprio quella di guardarti negli occhi e capire che per te non è la stessa cosa. Già, mi fa paura quando mi guardi e mi confondi. Quando mi leggi dentro senza problemi e continui a scavare trovando da sola le risposte. È questo mi manda in bestia», urla furente. «Se mi sono comportato come un bastardo è perché mi hai piantato un coltello nel petto con i tuoi rifiuti, con le tue risposte, con i tuoi sguardi distanti, spenti, diffidenti. Volevo... volevo solo farti capire come ci si sente quando a mancarti sono solo delle labbra che non puoi avere.»
Rimango spiazzata da questa confessione. Kay non è mai stato così diretto, non ha mai rivelato davvero i suoi sentimenti.
«So di averti ferito. Lo so. Ma non ci riesco. Non... tu hai spezzato dentro di me qualcosa. Mi hai dimostrato che le persone a cui ti affezioni, le cose a cui tieni, sono sempre quelle che ti distruggono.»
«No, no... tu continui a non capire.»
Alzandosi cammina avanti e indietro nervosamente.
«Capire che cosa?»
«Che mi piaci!», urla.🖤
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Come crepe sull'asfalto
Romance(2 libri in 1) Eterna sognatrice, leale, coraggiosa, un po' viziata e a tratti ribelle a causa della scarsa mancanza d'affetto e attenzioni, Erin Wilson non si lascia comandare tanto facilmente. Questo, fino a quando durante una cena scopre, come t...