«Io non vengo da nessuna parte con te», prova a staccarsi le mie mani dal braccio.
Uso tutta la mia forza per allontanarlo dal locale e da Ephram che continua ad urlargli addosso per stuzzicarlo, per farsi pestare.
Che diavolo gli è preso?
«Invece devi. Non ti permetterò di fargli male. Non sei un mostro come credono.»
Si ferma di proposito. «Invece lo sono», ringhia girandosi. Freme dalla voglia di raggiungere quell'idiota che gli sta urlando di farsi avanti, di affrontarlo, di non essere codardo nonostante le proteste di Xavier e i suoi tentativi di portarlo dentro il locale per non creare inutili vendette.
Il cuore mi balza nel petto quando Kay si scrolla dalla mia presa facendo un passo verso quei due. È così deciso da darmi una chiara previsione di ciò che intende fargli. Si ferma a metà strada, solo quando Shannon esce dal locale tirandoli dentro con la forza e urlandomi di andarcene, che ci penserà lui.
Uso la mia di forza interiore e fisica per riportare da me Kay che adesso mi sta uccidendo con i suoi maledettissimi occhi ghiacciati. Mi si conficcano dentro le ossa togliendomi il respiro, facendomi sentire ad un passo dall'inferno.
«Che cosa vuoi?», mi urla addosso. «Io non ho niente da dirti.»
«Andiamo!»
Premo il pulsante del telecomando dell'auto aprendo la portiera, spingendolo dentro. Blocco le portiere prima di entrare dal lato del conducente mettendo subito in moto l'auro tenuta a lucido esternamente, sistemando il sedile e lo specchietto retrovisore per non avere problemi nella guida. Accendo poi il riscaldamento pur aprendo leggermente il finestrino.
Ho sempre avuto questa mania. Mentre viaggio, preferisco avere un briciolo di aria pulita.
Dentro l'auto si sprigiona l'odore di un alberello al gusto di succo di frutta ace misto a quello tenue del tabacco. C'è anche odore di pelle dovuto ai sedili nuovi e di pulito. Cerco un po' di disordine ma non trovo bottiglie sui sedili, fazzoletti o residui di cibo sui tappetini, neanche sul retro. È tutto in perfetto ordine.
Presumo non salga mai nessuno qui dentro.
«Hai almeno la patente?»
Faccio marcia indietro uscendo dal parcheggio dandogliene una dimostrazione pratica. «Vuoi un documento o ti fidi sulla parola?»
Mi ha insegnato mio nonno a guidare. Mi portava sempre in una pista di atterraggio abbandonata in cui disponeva dei cilindri o dei birilli sul terreno in modo tale da insegnarmi a fare bene le manovre. Mi rimproverava quando ne urtavo uno e a furia di provare e riprovare fino a consumare la sua pazienza e le ruote dell'auto, alla fine ce l'ho fatta. Mi sono anche divertita a tirare un paio di volte il freno a mano ed è capitato che fosse lui a farlo.
Sorrido soddisfatta ringraziandolo mentalmente. Sono davvero fortunata ad avere avuto almeno lui nella mia vita sempre pronto ad aiutarmi: con i compiti, con le prime lievi cotte, con i litigi...
Cosa che non posso di certo dire di mio padre. Doveva essere lui ad insegnarmi, ad impartirmi una certa educazione, a darmi almeno le basi su come affrontare il mondo, ma non è mai stato presente.
A volte penso in maniera cattiva che avrei voluto essere abbandonata o adottata da una famiglia che mi voleva davvero. Ho passato anni a vedere gli altri felici, anche solo per un istante, con i loro genitori. Mi sono sentita piccola, totalmente sola da non avere la forza di tornare a casa.
Sono scappata molte volte per trovare pace altrove. Purtroppo mi hanno sempre stanata e riportata indietro mettendomi in punizione, credendo che non lo avrei più rifatto.
Kay, rimasto muto con la tempia appoggiata al finestrino, si volta a guardarmi. Forse ha notato il mio breve sorriso al ricordo delle prime lezioni di guida.
Sento i suoi occhi squadrarmi, mettermi a fuoco dopo lunghe ore di silenzio, di distanza forzata. Si muove sul sedile più che infastidito sistemando il gomito sul bracciolo dello sportello, massaggiandosi la tempia con due dita, assottigliando le palpebre come un animale che sta osservando da lontano la sua preda.
Pur sentendomi nervosa e sotto esame attento da un giudice attualmente silenzioso ma abbastanza critico e soprattutto incazzato, proseguo superando la piazza.
Qui, stanno costruendo gli stand e alcune piattaforme di legno. Il personale assunto per il turno di notte sta chiudendo le strade per assicurarsi che nessuno se li trascini a causa dell'ubriachezza causando un gran danno.
Per fortuna mi lasciano passare nell'unica strada che conosco bene per raggiungere il mio quartiere.
«Avresti dovuto lasciarmi stare. Perché siamo in macchina e dove mi stai portando?»
Finalmente prende parola ma sentire la sua voce è come ricevere una trapanata sulle tempie. Ma è un inizio questo, mi dico stringendo la presa sul volante per aggrapparmi a qualcosa.
«Io ho bisogno di allontanarmi da qui e tu sei ubriaco e hai chiaramente bisogno di disinfettare la ferita sul sopracciglio. Non ti fa male?», rispondo senza guardarlo, con un certo fastidio addosso, facendo attenzione alla strada.
Non mi occorre guardarlo per capire che sta inarcando il sopracciglio per controllare e accertarsi che io stia dicendo la verità.
Non si è accorto di essere stato colpito da Ephram? Era così furioso è distratto?
Sentendo dolore e forse anche rabbia, stringe il pugno e i denti. «Che cazzo stai facendo?»
«Te l'ho già detto!», rispondo esasperata.
«Perché lo stai facendo?», cambia domanda biascicando in maniera più marcata rispetto a prima. Poi, apre il cassetto del cruscotto frugandoci dentro nervosamente. Impreca persino un paio di volte.
«Che cosa stai cercando il petrolio?»
Alza di scatto la testa. «L'umorismo non è il tuo forte. Mi sta venendo voglia di fumare e non voglio riprendere il vizio. Hai... hai per caso una gomma da masticare?»
Anch'io ho voglia di fumare. Ma non ho voglia di una semplice sigaretta. Ho bisogno della roba di Ryan per rimettermi in sesto. Ho voglia di perdermi. «Dentro la mia borsa dovrebbero esserci», rispondo con distaccato interesse stringendo al contempo la presa sul volante.
Kay cerca la mia borsetta e aprendola preleva il mio telefono e la confezione azzurra di gomme. Apre la scatolina cacciandone due in bocca lasciando sprigionare nell'aria l'odore della menta. Mastica nervosamente le chewing-gum porgendomi il pacchetto. Rifiuto con un breve cenno e le ripone dentro la borsetta rimanendo con il mio telefono in mano.
«Che cosa stai facendo?», chiedo mantenendo il controllo.
Fa un palloncino scoppiandolo rumorosamente e leccandosi le labbra preme il tasto rotondo centrale del mio telefono guardando lo schermo.
«Hai un paio di notifiche, due messaggi da un numero e delle chiamate da parte di tuo padre. Sei ricercata», dice con lo schermo a pochi centimetri dalla faccia come un miope senza occhiali.
Gli tolgo il telefono dalle mani infilandolo dentro la tasca del giubbotto di pelle alla mia sinistra, in modo tale da tenerlo lontano da lui.
«Non controlli? Chi era quel numero?»
«Non sono cose che ti riguardano», sbotto fermandomi sul vialetto di casa.
Scendo dall'auto pestando i piedi sulle pietre e aprendogli la portiera gli faccio cenno di uscire.
Notando che si mette comodo sul sedile, pronto a fare i capricci, sbuffo. «Andiamo!», dico aggressiva.
Mette le mani avanti in segno di resa uscendo dall'auto. Barcolla tappandosi la bocca e per un momento ho il timore che stia per vomitarmi addosso.
Per fortuna non succede. Prende una boccata d'aria guardandosi intorno. «Mi porti a casa tua adesso?», solleva le labbra ma il suo sorriso è solo una smorfia carica di malizia.
«Casa mia non è questa», rispondo d'impulso con un tono stizzito.
So che mi sta stuzzicando. Lo vedo da come si atteggia che intende rendermi le cose difficili ma so anche che sta cercando il modo per riprendere il discorso di prima, quando eravamo in quel vicolo e mi ha detto espressamente che sono io la ragione di ogni suo malumore.
Quando mi ha detto che lo faccio stare male, la cosa mi ha davvero fatto sentire uno schifo. Mi ha ferita. Più ci penso, più sento bruciare le viscere. Per un attimo vengo attraversata dal pensiero di chiederglielo, di sapere se sono davvero così distruttiva come dice.
«Dove si trova casa tua se non qui?», sputa la gomma.
Apro la porta lasciandolo passare, portandolo in soggiorno quando tenta di salire nella mia stanza.
Recupero dallo studio di mio padre il kit di primo soccorso e quando torno in soggiorno lo trovo comodamente stravaccato sul divano. La testa all'indietro, le braccia aperte, le gambe stese.
Poso la scatola sul tavolino da caffè dopo avere preso e messo sulla superficie quello che mi serve per disinfettargli la ferita.
Abbasso il suo viso pulendo per bene il taglio sul sopracciglio, quasi sulla palpebra. Un altro centimetro e gli avrebbe fatto male, rifletto sul gesto di Ephram.
«Perché lo fai?», stringe il pugno in vita girando il viso quando la sostanza brucia la sua pelle.
Non demordo continuando a disinfettargli il taglio che, non sembra profondo ma che va ad intaccare la sua pelle pallida. «È stato davvero lui?»
Blocca il mio polso guardandomi male. Il contatto brucia entrambi. Pelle fredda contro pelle calda. «Adesso che cazzo te ne importa?»
Capisco che è arrabbiato ma non può credere che in questo modo riuscirà a farmi gettare la spugna. Forse vuole proprio questo, che io lotti un po' per lui. Si sta godendo il momento.
«Perché lo ha fatto? Che cosa gli hai detto quando è venuto da te?»
Sbuffa provando ad alzarsi. «Non dovrei essere qui.»
Lo fermo costringendolo a stare seduto disinfettandogli la ferita all'angolo del labbro. Non era ancora guarito ed ecco una nuova cicatrice da portare. «Smettila di agitarti. Ti stai comportando come un bambino.»
«Disse quella rimasta ai tempi dell'asilo», replica velocemente e con veleno.
Nonostante sia ubriaco ha la lingua sciolta e tagliente, come sempre del resto. Questo non dovrebbe neanche sorprendermi più di tanto. Ormai non sono più la sua preda. Adesso sono solo il nemico.
«Almeno io ho un buon motivo», apro un cerotto azzurro carta da zucchero e mi blocca il polso. «Davvero? Quale?»
Premo il cerotto sul suo sopracciglio facendolo urlare. «Adesso hai proprio la faccia da duro», lo prendo in giro smorzando un po' la tensione.
Alzandomi apro il frigo prendendo due bottigliette di acqua e una confezione di surgelati.
Mi siedo di nuovo accanto appoggiandogli quest'ultima sul labbro.
Mi sta guardando con astio e quando posa la mano sulla mia, come se mi avesse folgorato la pelle che continua a formicolare, apro la bottiglietta bevendo avidamente l'acqua.
«Sono incazzato con te. Parecchio.»
«Sai dire qualcosa che già non so?»
Tolgo la giacca di pelle mettendomi comoda sul divano, i piedi sotto il sedere quando tolgo anche le scarpe.
Non smette di osservarmi, di seguirmi ad ogni gesto. Apre e richiude la bocca.
«Sto aspettando una spiegazione. Mi dici che cosa ha fatto?»
«Ti ha messo le mani addosso e ti gira troppo intorno con quell'aria da saputello», fa una smorfia come se avesse bevuto latte acido.
«Che assurdità stai dicendo? No, non l'ha fatto. Lui...»
«Invece si, cazzo! L'ha fatto eccome! Ti ha toccata. Ha toccato la tua pelle e... no, lui non può.»
Batto le palpebre incredula. Stringo le labbra poi scoppio a ridere. «Stai dicendo sul serio? Per questo volevi farlo a fettine? Perché credi che lui...»
Mi fredda con lo sguardo. «Si. Si, cazzo! Dico sul serio!», urla alzandosi troppo in fretta con la faccia livida.
Barcolla visibilmente e mi sollevo a mia volta per aiutarlo ma vado a sbattergli addosso e mi stringe per i fianchi senza allontanarmi da lui.
È il primo vero contatto che stiamo avendo dopo ore di rabbia e frustrazione.
Deglutisco a fatica ritrovandomi avvolta dal suo profumo, dal suo calore mentre abbassa il viso soffiandomi velocemente sulla pelle a causa dell'affanno.
«La sua mano ti ha toccato la pelle e io...», mostra i denti come un lupo. «Io... non potevo accettarlo che tu...», fatica sempre di più a parlare.
Prendo un lungo respiro. «Ok, adesso calmati e ne parliamo», passo le mani sulle sue braccia usando un tono rassicurante ma non ha l'effetto sperato. È come se gli avessi appena dato un pugno allo stomaco.
Mi spinge. «Calmarmi? Ti rendi minimamente conto di quello che mi fai provare? Tu rischi di farmi uccidere qualcuno. Tu rischi di farmi fuori. Si, mi ammazzi e non te ne accorgi perché sei troppo impegnata a valutare i pro e i contro.»
«Kay, io non ti capisco. Mi confondi. Quello che hai fatto oggi è stato... davvero troppo. Ma sono ancora qua. Io...»
Passa la mano tra i capelli tirandoli alle radici. «Lo so. L'ho fatto perché volevo farti capire come mi sento ogni volta che mi tieni lontano da te. Quando mi fai capire che per te non sono altro che uno dei tanti ragazzi che ti girano intorno. E mi sento un coglione perché continuo ad aspettare una tua piccola attenzione, un gesto in grado di alleviare questo inferno, questo fuoco che sento bruciarmi dentro quando te ne stai a così poca distanza da me con quell'espressione carica di disagio e insicurezza. Quando mi guardi come se fossi un mostro da trasformare in un principe io... mi sento uno schifo!»
Le sue parole sono così sincere da trascinarmi in alto mare facendomi sentire ubriaca. Così tanto che vado a sbattere inevitabilmente contro gli scogli di ogni mia incertezza.
«Le tue parole entrano in contrasto con quello che fai», dico. «Mi hai detto che ti sarò utile dopo di che te ne sei andato. Hai usato scusa per non rendendomi partecipe dei tuoi pensieri o dei tuoi bisogni. Non ti sei fidato di me. Mi hai allontanata e poi mi hai usata...»
«E mi rimproveri per questo? Sai perché l'ho detto...»
Nego. «No, non ne avevi il diritto. Ti sei comportato da pazzo isterico solo perché non ti ho lasciato con un bacio e un sorriso o una parola di comprensione. Ti sei comportato da stronzo solo perché non ho accettato la tua bugia.»
Spalanca gli occhi. «Io mi sono comportato da isterico?»
Glielo confermo. «Si, ti sei comportato da folle entrando infuriato nell'ufficio di mio padre afferrandomi in quel modo come se ti avessi tradito, parlandomi come se ti avessi mancato di rispetto e poi trattandomi come la tua bambola come se ne avessi il diritto davanti al tuo amico. Io non lo sono. Non sono la tua bambola!», alzo il tono.
«Ti ho lasciata due minuti, due fottuti minuti perché avevo bisogno di raccogliere le idee, di stare un po' da solo, di prendere aria e coraggio per affrontare mio nonno», sbotta gesticolando.
«Ma non me ne hai parlato. Mi hai mentito dicendomi di avere un impegno improvviso. Come avrei dovuto saperlo che mi sarei ritrovata tuo nonno lì davanti? Ho fatto la figura della stupita. Mi sono sentita come sempre la nuova arrivata ma non puoi dire che non ho fatto del mio meglio per reggere il tuo stupito gioco a cui non crederà mai nessuno proprio perché non andremo mai d'accordo io e te, neanche quando ci sosterremo a vicenda.»
Scrolla la testa ripetutamente come se non volesse sentire le mie parole urlate. «No... tu mi hai mandato a quel paese con quello sguardo carico di astio. Mi hai voltato le spalle quando avevo più bisogno di te», ringhia.
«Ma non lo sapevo! Non leggo nel pensiero, Kay.»
Non sembra ascoltare ragioni. «E che dire di quando ti ho trovata con il mio migliore amico a fargli gli occhi dolci su quel divano?»
«Che cosa? Adesso è colpa di Shannon? Stai delirando!»
«Perché a lui lo tratti sempre con dolcezza e con me ti comporti come se avessi davanti il demonio? Spiegami perché?»
Sono incredula. «Non è assolutamente vero. Lo sai benissimo.»
Mi fissa come per dire: "Ne sei così sicura?". Ed io, sono certa di non avere fatto gli occhi dolci a Shannon ieri. Ho solo parlato con lui come una comune mortale. Ho parlato con una persona che sa come ascoltarti e non mi è dispiaciuto questo velo di complicità che si sta creando tra me e lui.
Perché con Kay deve essere messo tutto in discussione?
Ogni traccia di certezza inizia a vacillare. «Sono entrata e ho chiesto di mio padre alla segretaria che mi ha consigliato di aspettarlo nel suo ufficio e così ho fatto. Quando sono entrata, ho trovato per caso Shannon. Se ne stava seduto sul divano e stava cercando di calmarsi e anch'io lo stavo facendo dopo che tu mi hai lasciata davanti quel portone con una scusa. Non hai avuto le palle di dirmi come stavano davvero le cose e sai che avrei capito e ti avrei appoggiato se me ne avessi parlato, ma non lo hai fatto perché sei un codardo! La verità è che non ti sei fidato di me abbastanza e poi hai travisato tutto quanto reagendo come un pazzo, scagliandomi addosso ogni tua insicurezza.»
Dilata le narici fremendo. «Io ho visto bene quello che ho trovato in quella stanza. Mi sono allontanato due minuti, due Erin e tu eri già con un altro. Come puoi pretendere che mi fidi di te se...»
Lo fermo immediatamente sentendomi offesa. Adesso sono io?
«Mi parli di fiducia proprio tu che continui a nascondermi tutto? Vogliamo parlare di tuo nonno? Ti guardava come se dovesse prenderti con la forza e portarti via da qui. E perché non parliamo delle parole che ha detto alla fine quando mi ha salutata in quel modo chiedendoti di tornare a casa perché è lì il posto in cui devi stare, facendomi intendere di essere solo un qualcosa di passeggero, un passatempo o una stupida cotta da dimenticare.»
Contrae la mascella riflettendo solamente adesso su questo. «Non metterci mio nonno di mezzo. Lui non c'entra niente. Siamo solo io e te in questa discussione quindi affrontami come si deve.»
Stringo il pugno in vita serrando abbastanza forte la presa da conficcare le unghie nella carne. «Io ti affronto, lo sto facendo e ci sto provando a farti capire come ho visto le cose ma a volte è come se non riuscissi a comunicare con te perché sei completamente offuscato dalla furia che continua ad accecarti. Ti lasci annebbiare troppo da quello che pensi di avere visto ma sai che stai sbagliando.»
«Io so bene quello che ho visto. A Shannon tu piaci e pure tanto», urla voltandosi. «O vuoi negarlo?»
Mordo il labbro massaggiandomi la fronte, mettendo le mani unite prima di scrollarle. «Shannon mi stava solo rassicurando. Gli stavo parlando di te, proprio come ho sempre fatto sin dall'inizio. Gli ho chiesto solo se avevo immaginato tutto o se eri davvero in crisi per qualcosa. Mi ha spiegato che c'era qualcuno dentro quella stanza. È stato lui a dirmi la verità e non tu. Ma a quanto pare a te non importa perché vedi solo quello che vuoi vedere», dico infilandomi il giubbotto rabbiosamente stanca.
In questo momento è come affrontare un lungo discorso con un animale che ha solo voglia di sbranarti.
Si agita. «Dove vai?»
«Ti porto a casa tua. Qui abbiamo finito», replico monocorde. «Non c'è verso di farti cambiare idea o di farti capire quello che penso o quello che è davvero accaduto.»
Lascio uscire un sospiro carico di amarezza. Per un attimo rimane impalato, insicuro sul da farsi mentre io mi dirigo all'entrata. «Muoviti!», alzo il tono e mi raggiunge seguendomi sottomesso fino all'auto.
Allaccio la cintura prendendo la stradina che conduce alla radura.
Con l'indice sfiora il labbro mettendosi comodo, guardando davanti. «Perché ti sei fatta toccare da Ephram?»
Sospiro. Come faccio a spiegargli che non ho desiderato altro che il suo tocco e non quello di Ephram?
«Ti piace?»
Passo la mano sul viso stropicciandomi un occhio. «No, è solo una vecchia conoscenza, proprio come te. Ma è anche una piacevole compagnia», replico stanca, in tono sommesso.
Ogni traccia di alcol sembra svanita dal mio corpo e inizio a sentire freddo. Un freddo che non ha niente a che vedere con le temperature in picchiata.
L'erba fitta cresce alta ai margini del bosco che superiamo e i fari dell'auto illuminano ferendo le iridi di qualche animale facendolo scappare più che spaventato. Gli alberi sembrano non finire mai percorrendo la strada centrale tra i due boschi che non ho ancora imparato a riconoscere. Ognuno di essi infatti conduce da qualche parte.
«Ti fa ridere...», guarda fuori dal finestrino con una smorfia carica di disprezzo riferendosi ad Ephram. Stringe sulle gambe i pugni serrandoli parecchio.
«Questo non è un motivo per fargli male.»
Incassa il colpo rimanendo in silenzio.
«Ti mette a tuo agio», riprende il discorso.
Annuisco. «E mi rispetta per quello che sono. Non mi stuzzica di continuo, non mi mette alla prova e non mi porta al limite.»
Si volta e sento i suoi occhi trapassarmi. «Ti piace uno così noioso?»
Mi viene da ridere per il modo in cui l'ha detto ma non lo faccio. Non voglio condurre questa bizzarra conversazione di nuovo allo stremo.
Qualcosa nel mio cuore mi dice che mi pentirò di tutto questo: delle parole non dette, delle offese trattenute, degli sguardi mancati e dei sentimenti nascosti. Mi pentirò di tutto. È una sensazione terribile quella che sto provando. È come se mi stessi rovesciando un secchio di acqua ghiacciata sulla testa da sola.
Mi fermo posteggiando l'auto a poca distanza dalla campagna e lui scende sbattendo nervosamente la portiera. Mi aspetto che se ne vada furioso, invece viene ad aprire tirandomi fuori con una certa forza.
«Non hai risposto alla mia domanda. Ti piace uno così?»
Gli passo la chiave dell'auto tenendola sospesa. «Passa una buona serata uomo delle caverne», esclamo provando ad allontanarmi da lui quando strappa il portachiavi.
Il mio piano è quello di tornare a casa a piedi. Una bella passeggiata è proprio quello che mi ci vuole per calmare questo senso di schifo misto a rabbia che mi si attacca sotto pelle rendendomi ridicolmente fragile.
Kay mi ferma. «Dove stai andando al buio?»
«Sono solo venuta a lasciarti prima che commettessi un grosso errore. Adesso me ne ritorno da dove sono venuta.»
Sta già cercando un modo per impedirmelo. «Resta», dice tirandomi verso l'entrata.
Mi oppongo. «Non posso.»
«Perché? Sono anch'io dolce e so come farti sentire a tuo agio più di quel perdente. Ti strappo anch'io dei sorrisi.»
Tra tutte le cose che vorrei dire mi esce una frase abbastanza scontata ma vera. «È la convinzione che fotte la gente», rispondo.
Soffia, ovviamente, con disappunto. «Erin, resta.»
Apre la porta e senza che me ne renda conto sono già dentro la casetta di legno dopo che mi ci ha tirato a forza chiudendo la porta con uno scatto.
Prende posto sul divano picchiando il palmo. «Vieni qui.»
Lo dice in modo dolce ma allo stesso tempo con quel cipiglio in grado di farmi star male. Mi siedo a debita distanza.
Se ne accorge inarcando un sopracciglio. «Hai appena usato la distanza di sicurezza da me? Hai paura?»
Mordo il labbro per impedire a me stessa di esplodere nel peggiore dei modi. «Che cosa vuoi ancora?»
Sospira. «Ho reagito così male?», tira un filo invisibile dai pantaloni.
«Si», rispondo a bruciapelo.
Mette la testa tra le mani dopo essersi piegato sulle ginocchia. «Divento geloso oltre il limite quando si tratta di te», ammette. «Non riesco a controllarmi.»
Provo una certa soddisfazione nell'udire le sue parole sincere.
«Il fatto è che ci sono cose che tu di me non sai e che io non riesco a raccontare, a parlarne», continua.
«Prova a spiegarmi», lo incito.
Prende fiato. «Non è facile. Non so da dove partire», appoggia la testa sul bordo del divano. Adesso sembra stanco, provato, privo di forza. «La ragione non è perché non mi fido ma perché non ci riesco.»
«Dall'inizio ecco da dove devi partire. Io non so niente di te. Dopo quello che hai fatto mi sembri un estraneo.»
Si concentra muovendo nervosamente la gamba. «Vuoi che ti racconti la storia della mia vita o vuoi che sia breve e coinciso?»
Ci rifletto su un attimo. «Preferisco che sia una spiegazione veloce, devo tornare a casa e non voglio fare tardi.»
Serra i pugni mostrando perfettamente la ferita che gli ho appena inflitto con questo mio atteggiamento distaccato.
«Quando te ne sei andata siamo rimasti qui per altri quattro anni. I miei nonni si erano già trasferiti in Inghilterra e così ce ne siamo andati per poi tornare qualche anno dopo per un paio di mesi o solo per l'estate. Siamo sempre ripartiti. Circa tre anni fa ho detto basta, ho lasciato la mia famiglia, mi sono iscritto all'università e non sono più tornato indietro. Le telefonate o le visite fatte alla mia famiglia sono sporadiche e veloci, niente giri di parole, niente affetto. Non voglio averci a che fare. Ecco perché ho lavorato dappertutto per pagarmi gli studi e continuo a farlo anche se in questo periodo mi sono preso una breve pausa godendo di qualche bonus. Non ho mai usato i loro fottuti soldi per non avere debiti con loro.»
«Per quale ragione te ne sei andato?»
Guarda le nocche violacee aprendosi il colletto della camicia chiaramente accaldato. Stiamo arrivando al punto.
«Durante una cena ho appreso che i miei d'accordo al volere dei miei nonni, volevano presentarmi ad una famiglia...»
Non capisco e accorgendosene dalla piccola V che mi si forma tra le sopracciglia continua sempre più nervoso e agitato evitando di toccarmi.
«Gente altolocata con la puzza sotto il naso...»
Sta prendendo tempo. «Che cosa volevano da te?»
Non voglio pensare lontanamente a quello che la mia mente sta già disegnando.
«Mi stavano combinando un fidanzamento con una ragazza», dice d'un fiato. «Era una questione di affari e io non volevo. Così, il giorno prima della cena, ho fatto le valigie e me ne sono tornato qui con il chiaro intento di lasciarmi alle spalle tutto quanto. Sono sparito senza lasciare un messaggio o altro.»
Ho la gola improvvisamente secca. Apro e richiudo la bocca ma da questa non ne esce alcun suono. Mi sto sentendo male.
È assurdo tutto questo!
«Quando sei arrivata, le voci sono circolate in fretta e quando ti ho dato quel passaggio, per me è stato come un segno del destino.»
«Un segno? Per me è stata una condanna. Avrei dovuto farmi portare in centrale.»
Evita di dire qualcosa davanti alla mia risposta lasciata uscire per esasperazione. «I miei non hanno ancora accettato la mia decisione. Hanno iniziato facendomi pressione per andare al matrimonio combinato di mio fratello e io... ho continuato a rifiutare perché so che andarci da solo è una trappola. Lì mi faranno incontrare con quella ragazza e io non voglio stare con lei», sussurra infine guardandomi le labbra. «Io non le appartengo. Io non... voglio lei.»
Mi alzo di scatto sentendo la pelle formicolare. «Devo... andare», balbetto.
Balza in piedi guardandomi come un cucciolo smarrito. «Sei delusa ma è così. Ti ho chiesto di venire come me, di accompagnarmi a quel matrimonio fingendo di essere la mia ragazza e hai accettato. Se non vorrai più vedermi, io... ti lascerò in pace. Ma non farmi andare da solo perché non è là che io devo stare. Non voglio fidanzarmi con una persona che non conosco e che poi odierò perché mi renderà infelice.»
Mi incammino verso la porta con i piedi fatti di piombo. «Riprenditi», è l'unica cosa cosa che mi viene in mente da dire mentre percepisco il rumore assordante del mio cuore mentre si distrugge.
Quei baci non erano niente, mi dico aumentando il passo non appena sono sul viale. Quei gesti, quelle parole... era tutto falso. Mi sono lasciata abbindolare come una stupida. Mi sono fatta usare per un capriccio.
Ad un certo punto senti di averne abbastanza. Senti proprio il bisogno di metterti a urlare di avere chiuso con tutto e tutti, che non ti frega niente, ma la verità è che ti frega eccome. Perché nonostante tu abbia il cuore rotto in mille pezzi, ogni scheggia di esso troverà il modo di farti sanguinare in modo diverso. Perché c'è sempre qualcosa che arriva e ti travolge.
Non siamo immuni. Non ci sono protezioni utili alle delusioni che spezzano l'equilibrio, quel filo sottile che ci lega a qualcosa o qualcuno. Perché la vita ti regalerà sempre scossoni e crolli improvvisi lasciandoti tramortito e privo di forze. Quindi dire "non ce la faccio" non basta. Non basta ad un cuore che ha già sofferto e che non ha ancora imparato a battere per davvero, senza più paura.
Scuoto la testa abbracciandomi. Sollevo poi il viso inspirando ed espirando.
«Erin, Aspetta!»
La polvere dello spiazzale sembra sospesa nell'aria, a pochi centimetri da terra. Ad ogni sferzata lieve di vento si sposta accumulandosi altrove come i rimasugli di caffè dentro una tazzina.
Kay mi corre dietro sfiorandomi un braccio. Mi ritraggo da lui. «Sei un bastardo!», sputo fuori rabbiosa.
Indietreggia colpito dalle mie parole e dalla mia voce che si è appena spezzata per la prima volta in tutta la mia vita.
«Hai frainteso tut...»
Nego. «No, io ho capito tutto. Ho capito che lo hai fatto solo per te stesso. Ho capito che sei egoista e che mi hai usata e abbindolata per tutto questo tempo solo per farti aiutare. Lo farò, non preoccuparti, non ti volterò le spalle dopo avere dato la mia parola, ma non aspettarti che adesso ti creda o che ti consoli. Non abbiamo più niente da dirci quindi mandami solo quando e dove e lasciami in pace.»
Continuo a camminare inspirando ed espirando. Sento i suoi passi dietro. «Non ho finto.»
Sollevo il labbro all'angolo soffiando dal naso. «Io invece si. Sono stata stupida a credere che potevi essere diverso rispetto a prima. Invece sei lo stesso!», sibilo.
Mi ferma. «Con te io...»
Scuoto la testa. «No, non provare ad abbindolarmi ancora. Non ci casco più. Sei un bugiardo!»
Mi avvicina a sé con impeto. «Non sono un bugiardo. Sei tu che non mi credi quando ti dico che mi piaci», sibila a poca distanza dalle mie labbra. «Io non riesco più a trovare un modo per fartelo entrare in questa zucca.»
Lo spingo per non cedere all'illusione. «Smettila con questa pagliacciata!»
Mi tiene più stretta. «Dopo che ho avuto l'incidente e stavo per morire... pensavo di non tornare più da queste parti. Quando i miei tornavano io rimanevo lontano, preferivo viaggiare. Poi, tre anni fa ho fatto uno stupido incubo, era da tanto che non mi succedeva e c'eri tu. Così, ho cercato il tuo nome, ho visto le tue foto e quando ho saputo che avrei dovuto sottostare al volere della mia famiglia senza dire niente, precludendomi la possibilità di essere davvero in pace con me stesso io... sono tornato qui. Non sapevo che ti avrei rivista ma mi faceva sentire meglio saperti più vicina. Ho sempre pensato che tra di noi ci fosse una connessione», confessa. «Dico sul serio. Tu sei parte del mio passato ma anche del mio presente, Erin.»
Mi impaurisce questa cosa che mi si attacca al cuore. Perché era destino che ci incontrassimo, ci perdessimo e poi ritrovassimo. Come se prima il destino si fosse divertito a farci fare ad ognuno la propria vita, a farci vivere le proprie gioie, le sofferenze, i propri errori. Adesso è come se tutto si stesse intrecciando fino ad unirci. Fino a distruggerci.
«Sei chiaramente uno squilibrato. Fatti curare, Kay», alzo il tono.
Stringe i denti. «Puoi smetterla per un secondo di trattarmi così? Sto cercando di dirti...»
«Che adesso devi andartene a casa a dormire e possibilmente anche a fanculo. Sei una delusione.»
Scrollandomi la sua presa di dosso mi allontano più che posso creando tutta la distanza di cui ho bisogno per pensare, per calmarmi e soprattutto per non scoppiare a piangere dopo anni.
Mi sto sentendo così stupida in questo momento da non potere respirare ma lotto contro quella parte di me così fragile raggiungendo il mio quartiere in meno di quindici minuti.
Le luci delle case dei vicini sono quasi tutte accese, fatta eccezione per quella della signora Louis. Mi chiedo dove sia finita. Senza di lei e i suoi cani rompipalle è davvero strano.
Chiudo la porta a chiave, spengo le luci del soggiorno rimaste accese e salgo in camera. Anche qui mi ritrovo a chiudere bene la finestra, a tirare le tende e a lanciarmi più che stanca sul letto dove abbraccio forte il cuscino aggrappandomi al tessuto più che posso nel tentativo di non crollare.
Non riuscendo a prendere sonno mi sposto in bagno togliendomi il trucco dalla faccia e spogliandomi riempio la vasca rannicchiandomi nel tepore della condensa che riscalda le mie membra fredde.
«Sono reale.»
Me lo ripeto come un mantra quando inizio ad avere la sensazione di non esistere e ho sempre quell'ansia addosso che qualcosa come una folata improvvisa di vento possa spazzarmi via, facendomi scomparire per sempre, senza lasciare traccia di quello che sono. Neanche una piccola impronta, un alone di me.
E poi inizio a percepire anche quella voglia di sentirmi viva e quel bisogno di graffiarmi e farmi male.
«Non posso. Sono reale.»
Prendo la spugna inizio a strofinarmi la pelle come se dovessi cambiarla. Mi piacerebbe davvero tanto mutare come i serpenti.
Arrossata e sfinita, indosso un pigiama estivo infilandomi sotto le lenzuola pulite. Non c'è più il suo odore. Non c'è più niente. Solo bugie e questo cuore che non sento più. La verità è che ti rompe sempre il cuore a chi permetti di aggiustarlo.🖤
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Come crepe sull'asfalto
Romance(2 libri in 1) Eterna sognatrice, leale, coraggiosa, un po' viziata e a tratti ribelle a causa della scarsa mancanza d'affetto e attenzioni, Erin Wilson non si lascia comandare tanto facilmente. Questo, fino a quando durante una cena scopre, come t...