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Ci sono giorni, attimi, minuti in cui vorresti scoppiare a piangere. Piangere davvero. Lasciare uscire tutto quanto. Abbandonare ogni lacrima amara che, come veleno annebbia ogni tuo pensiero crudele, ingiusto.
E ti viene da piangere ed urlare perché senti il bisogno di raccontare. Di parlare del tuo dolore. Quello che tieni dentro da tanto, troppo tempo e che ti rimane incastrato lì nel petto, accumulato nel cuore.
Ci sono giorni in cui vedi nitidamente ogni singola cosa che ti circonda, ogni persona. Noti il dolore, la sofferenza, la passione, l'odio, l'amore. Senti il bisogno che hanno gli altri. Percepisci e riconosci molte più cose da uno sguardo. Eppure poi ti fermi e ti rendi conto di non riconoscere più te stesso. Non sai più di cosa hai bisogno o quello che vuoi. Non sai più se credi alle menzogne che rifili a te stesso per andare avanti o se ti senti deluso dal tuo stesso comportamento. Ed inizi a detestarti, forte. Te ne accorgi quando non senti più battere il tuo cuore allo stesso modo per una canzone o quando non piangi più per un film che da sempre ami. Non ti riconosci nei gesti, nelle azioni. E allora ti odi così tanto da avere bisogno di fuggire per liberarti di qualcosa che probabilmente farà sempre parte di te. Ti detesti perché pensi di non meritare amore. Perché troppe volte hai affidato il tuo cuore nelle mani sbagliate, quelle che non hanno saputo tenerlo al sicuro. E allora ti accorgi di non sapere più chi sei. Ti volti indietro e non ti trovi davanti. Non sei più chi credevi. Vorresti solo sparire, dissolverti nell'universo. Diventare polvere di stelle.
Mi blocco sull'uscio di casa, le lacrime ad inondare i miei occhi.
Le ricaccio tutte dentro lasciandomi affogare anziché liberarmene. Perché per troppo tempo sono rimasta a galla come una naufraga in un oceano di pensieri, paure e paranoie che tentano di inabissarmi. Ho imparato allora a sapere rimanere in apnea.
Non posso mostrarmi fragile. Per tanti anni lo sono stata ma adesso le cose sono diverse. Perché se nessuno in questo mondo ti apre le braccia per tenerti al sicuro, devi rimboccarti le maniche e costruirti da sola un rifugio.
Io l'ho fatto. Ho impiegato tempo e seppellito sentimenti per tenermi al riparo da tutto. Perché ci sono ricordi, frasi, gesti che non dimenticherò mai. Faranno parte di me, di ciò che sono diventata.
Faccio un passo indietro. Prendo un lungo respiro commettendo l'errore di incrociare il suo sguardo. I suoi occhi freddi come ghiaccio sotto un cielo limpido mi confondono.
Apre la bocca pronto a dire la cosa sbagliata o forse quella giusta ma non ce la faccio. Non ci riesco. Non posso sentire la sua voce e rendermi conto di non volere fare altro che starmene ferma ad ascoltarlo, capire quello che mi sono persa in tutti questi anni passati a vivere nel buio. Lui è come luce. Potente. Accecante. E mi fa paura.
Lo supero evitando di sfiorarlo o di poter essere fermata da uno dei suoi gesti avventati uscendo dal cancello più veloce che posso, aumentando sempre più il passo per creare la giusta distanza tra me e il resto del mondo.
Raggiunta la strada guardo dapprima a destra poi a sinistra per capire da che parte andare, qual è il luogo in cui voglio dirigermi.
La vicina sta raccogliendo qualcosa sul prato mentre il cane scorrazza libero e felice correndo a tratti e poi fermandosi ad abbaiare contro qualcosa che solo lui riesce a vedere.
«E tu che cosa ci fai qui?»
Sento la voce di mio padre urlare addosso a Kay ma non me ne curo. Non gli ho chiesto io di seguirmi. Non gli ho chiesto di farsi trovare davanti la porta di casa.
Quello che gli frulla per la testa è alquanto sospetto.
Da una parte lo so e questo mi basta a tenermi a debita distanza da lui mentre c'è un'altra parte di me che se ne frega degli avvertimenti, dei segnali e rischia, non ha paura di farsi male. Tanto alla fine tutto si perde. Niente resta in questa vita piena di sconfitte.
Più che confusa mi incammino verso la piazza, uno dei pochi posti che attualmente conosco.
Il cielo da questa visuale sembra sul punto di collassare sulle montagne, sugli alberi che ci circondano. Non c'è nebbia, non c'è una nuvola a minacciare pioggia il che è un gran sollievo.
Dei passi alle mie spalle mi distraggono. Mi volto e aumento la mia andatura raggiungendo la piazza.
Supero il bar pieno di ragazzi riuniti per passare lì il sabato sera e anche la pizzeria parecchio affollata e con una piccola fila fuori dall'entrata spostandomi nel vecchio parco dove mi siedo sul muretto.
Da questo punto posso ammirare gli ultimi spiragli di luce prima del buio fitto che da queste parti diventa come una calotta oscura coperta di piccoli punti luminosi. Ma sono stelle che non realizzano nessun desiderio.
Sblocco lo schermo del telefono osservando l'icona verde decidendo di chiamare a casa dopo circa due settimane da quando sono tornata in questo posto. Non ho più sentito nessuno da allora ed è come se mi avessero rimossa dalla loro vita.
Nonostante ciò, ho bisogno di sentire la voce di mia nonna, mi farebbe piacere sentire anche quella del nonno. Ho bisogno di sapere che tutto questo me lo sono meritata per essere stata stupida e avventata.
Pigio sull'icona scorrendo tra le ultime chiamate fatte e premo il dito sul numero del ristorante dove sono sicura di potere trovare la nonna.
Attendo uno, due squilli. Trattengo il fiato sentendomi in bilico. Come se fossi una funambola tra due grattacieli altissimi.
«Ristornate "Paulson", come posso esserle utile? Vuole ordinare qualcosa o prenotare un tavolo?»
Sorrido. «Ciao nonna», sussurro mordendomi il labbro.
Inizialmente sento solo silenzio dall'altra parte della cornetta. Controllo che non sia caduta la linea ma mia nonna c'è ancora, non ha riagganciato.
«Tesoro, finalmente. Come stai?»
Corrugo la fronte. Perché rispondere così? Non ha altro da dire?
«Non hai chiamato», balbetto lasciando uscire un tono carico di rabbia. «Mi manchi e non hai chiamato.»
La sento ordinare qualcosa e la immagino furiosa con uno dei suoi poveri dipendenti, con la mano sul fianco e gli occhi attenti a quello che fanno.
«Tuo padre mi ha detto che non volevi sentire nessuno e ho rispettato il tuo volere. Ho chiamato quasi ogni giorno per sapere come stavi e cosa facevi», inizia più che insicura. Percepisco però del nervosismo nella sua voce.
Guardo un punto fisso davanti a me. «Scusa, chi hai chiamato?»
«Tuo padre. Mi ha più volte assicurato che stai bene ma che sei impegnata e non vuoi sentire nessuno.»
Sospiro massaggiandomi la fronte. Mi piacerebbe tornare indietro per litigare con lui ma devo stare calma. Attualmente non posso dare di matto.
Perché farmi una cosa del genere?
«No, ti ha mentito. Io non sto bene qui.»
Mio padre mi ha tenuto nascosto che mia nonna ha chiamato. Come ha potuto farmi una cosa del genere sapendo quanto ci tengo a lei?
Che stronzo!
Non posso fargliene una colpa, visto come ha reagito il primo giorno quando ha saputo che mia madre ha solo colto la palla al balzo per spedirmi qui da lui. Ho sentito quello che aveva detto al telefono alla nonna e sono stata così stupida a credere che lei mi avesse dimenticata o fosse così tanto impegnata da non trovare un minuto del suo tempo per chiamare la sua unica nipote. Ma ha sbagliato.
Mi sento stordita. Mi guardo intorno e non vedo che un enorme vuoto pronto a risucchiarmi.
«Che succede?»
«Sono ripiombata all'inferno letteralmente. Qui... la gente è matta da legare. Ci sono due gruppi che si contendono il potere e non ci crederai mai ma ci sono andata subito di mezzo e adesso... io non voglio stare qui. Voglio tornare a casa mia. Voglio riabbracciarvi», sospiro stanca. «Io qui mi sento diversa. Voglio tornare a casa subito, ho bisogno di rivedere Ryan. Mi mancate tanto. Mi manca persino la mia bisnonna.»
Mi sto agitando. Me ne rendo conto dallo scossone che continua a subire il mio corpo. E non sento freddo. Sento solo un enorme voragine dentro.
«Vuoi davvero andartene da lì? Ti trovi così male? Posso vedere se riesco a convincere tua madre a farti tornare e tuo padre a ritirare le minacce...»
Deglutisco a fatica irrigidendomi. In sottofondo sento oltre alle solite voci, anche quella di mia madre.
«Si, mi piacerebbe tanto tornare da voi... ma sai che non è possibile quindi non illudermi.»
Nonna sospira stanca. «Anche tu ci manchi, tesoro. Vedrò quello che posso fare. Vuoi parlare con tua madre? Non se la passa bene senza di te. Non vuole ammetterlo ma è così. Lo sai anche tu.»
Sto già negando come se potesse vedermi. Il pensiero di parlare con lei dopo quello che mi ha urlato addosso mi fa sentire a disagio.
«No, non dirle neanche che sono io al telefono. Mi ha urlato addosso che sono stata la sua rovina. Non voglio distruggerle la serata o la sua nuova vita da adolescente. Adesso lascio la linea libera. Se devi chiamarmi, fallo sul mio numero.»
«Sai che era solo arrabbiata. Non pensa davvero quello che ha detto. È dispiaciuta.»
«Avrebbe chiamato. Non lo ha ancora fatto.»
Nonna non sa come reagire. «Fa attenzione figlia mia.»
«Si, sempre», sussurro riagganciando velocemente senza ripensamenti per non farmi condizionare ulteriormente.
Inspiro ad occhi chiusi poi lascio uscire un forte urlo picchiando il pugno sulla superficie ruvida della pietra. In questo modo sfogo un po' della rabbia che continua ad accumularsi ovunque annebbiandomi la mente.
Sentendomi nel panico, scendo dal muretto tornando in piazza.
Qui valuto in quale locale entrare se in pizzeria o al bar entrando in quest'ultimo.
Non appena metto piede al suo interno, ignoro ogni sguardo che mi si posa addosso.
Mi siedo davanti al bancone su uno sgabello alto. Dietro, un ragazzo impegnato a servire due birre.
È alto quanto un giocatore di basket. I suoi capelli sono ramati e gli occhi scuri fanno attenzione a qualsiasi cosa succede dentro il locale.
Ha un aspetto naturale, nessun segno particolare sul viso liscio come quello di un ragazzino. Porta però all'orecchio un anellino sottile d'argento ma questo non sembra essere un problema per chi si trova qui dentro.
«Un momento e sono da te», mi avvisa con un tono basso.
Mi siedo sullo sgabello legandomi i capelli, tamburellando sulla superficie liscia al tatto piena di piccole schegge di vetro incastrate nel marmo. Le osservo giocandoci mentalmente.
Dietro il bancone, disposte ordinatamente su un ripiano, vi sono due macchinette per il caffè e altre davanti per la birra alla spina. Una pila di bicchieri di vetro ben puliti e altri di plastica insieme ad un barattolo con le cannucce colorate. Ci sono poi confezioni di te', un tabellone con i prezzi e le specialità della casa.
Il ragazzo pulisce il bancone. «Che cosa ti servo?»
«Hai qualcosa di forte da stordirmi ma non tanto per potere arrivare a casa a piedi e tutta intera?»
Guarda alle mie spalle poi inizia a mescolare qualcosa facendo delle acrobazie. «Te lo offre quel tizio lì. Bevi piano se vuoi arrivare intera a casa», mi strizza l'occhio.
Mi volto per ringraziare e in fondo alla sala noto Shannon. Alza il calice pieno di birra nella mia direzione mentre gli amici continuano a parlare tra loro animatamente.
Sollevo il bicchiere di plastica con il liquido color melograno. Annuso un momento prima di assaggiare.
Inizialmente non sento che un gusto dolciastro in bocca poco dopo però mi arriva quello amaro e forte dell'alcol che scivola lungo la mia gola riscaldandola.
Tossicchio e per non essere d'intralcio, notando la fila di persone che arrivando si fermano per prendere da bere, vado a sedermi in uno degli sgabelli posti sulla parete color caramello dove vi sono delle mensole che vengono usate come tavolo. Poco più sopra uno specchio pende su tutto il muro riflettendo il locale.
Evito di guardarmi sorseggiando la mia bevanda del sabato sera.
So che non dovrei ma potrebbe aiutarmi a non pensare a tutto quello che sto scoprendo in queste ultime ore davvero avvilenti. Potrebbe anche attutire ogni sensazione che provo e che rischia di farmi scoppiare.
Il locale non è poi così piccolo come sembra dall'esterno.
L'aria è intrisa dell'odore dell'alcol, del caffè e della pasta frolla. C'è un bancone pieno di dolci, torte e dolcetti di ogni tipo di fianco alla cassa, uno stand con i sacchetti di patatine di ogni tipo.
In alto è posizionato un televisore a schermo piatto con delle casse collegate in più parti in alto, quasi attaccate al tetto. Da queste rimbomba la musica mentre dall'altro lato i ragazzi stanno guardando la partita standosene comodamente seduti sul divano spazioso a forma di ferro di cavallo con al centro un tavolo basso pieno di bottiglie, sacchetti aperti di patatine e bucce di noccioline.
Sento una presenza vicino. Shannon posa un sacchetto di patatine ancora chiuso e la sua birra sulla mensola.
«Ciao», mi saluta abbassando leggermente il viso.
Visto da vicino non è poi così spaventoso e minaccioso.
«Ciao», rispondo tranquilla guardandomi ancora intorno.
Apre il sacchetto. «Non sono qui per disturbarti ma ho visto quello che hai preso e dovresti mangiare qualcosa se non vuoi ubriacarti.»
Accetto le patatine. «Grazie», dico brevemente. «Avevo solo bisogno di qualcosa per stordirmi ma non troppo.»
Osservandolo mi accorgo del tatuaggio sotto la palpebra. Una spada.
Non avevo ancora avuto modo di vederlo così da vicino. Attualmente mi sento come un chimico davanti un campione da esaminare.
«Va tutto bene? Mi sembri tesa e agitata.»
Bevo un lungo sorso. «Non va niente bene ultimamente», ammetto.
Parlare con un estraneo è così naturale.
Shannon soppesa il mio sguardo. Mi guarda come se fossi sua sorella.
«Spiegami», beve la sua birra ordinandone un'altra mettendosi comodo sullo sgabello.
«Vivo in un posto che mi rievoca strani brutti ricordi, con un padre che ama più il suo lavoro e inventa a mia nonna che non voglio parlare con loro. Scusami, non voglio annoiarti.»
Sta già negando. «Per esperienza, fare qualche cazzata ti aiuterà in fretta a sbollire la rabbia che tieni dentro e che potrebbe farti male», risponde pacatamente salutando alcuni ragazzi.
Mordo il labbro. «Credo di avere fatto il pieno di cazzate. Non so... sono stanca e allo stesso tempo ho solo voglia di andarmene da qui. Ma so che non posso...»
«Perché?»
«Non ho più un posto in cui andare.»
Shannon riflette un momento. «Ti sbagli», risponde con un sorriso accennato mentre uno dei suoi amici richiama la sua attenzione. È appena iniziato il secondo tempo.
«Volevo ringraziarti per quello che hai fatto alla riunione», aggiunge alzandosi.
Arrossisco leggermente. «Figurati. Non credo di avere fatto chissà che cosa.»
Mi sorride mostrando un dente d'argento.
Non lo avevo ancora notato.
Certo che gli Scorpions ci tengono proprio ad apparire.
«Gli Scorpions non dimenticano. Se hai bisogno o qualcuno ti importuna lancia un urlo o un fischio», strizzandomi l'occhio torna dai suoi amici che adesso sembrano prenderlo in giro. Uno di loro mi chiama persino per unirmi a loro, ma rifiuto gentilmente con un cenno della mano e un breve sorriso.
Bevo a piccoli sorsi il mio coraggio liquido. Mi sono abituata al gusto ormai. Il bruciore lo sento appena.
«Ti stai divertendo?»
Per poco non mi va di traverso l'alcolico e non lo sputo in faccia alla persona che si sta sedendo davanti a me togliendomi il bicchiere dalle mani.
Adesso mi guarda con rimprovero. Come se avessi fatto chissà che cosa di sbagliato o scorretto.
«Mi stupisce che ti abbiano dato da bere visto che sei ancora minorenne. La vera domanda è: vuoi davvero questo? Ti serve?», assaggia facendo una smorfia.
Riprendo il bicchiere ricambiando con un'espressione diffidente. «Si, decisamente», replico sgranocchiando le patatine rumorosamente.
Kay guarda Shannon che lo ha già avvistato poi ordina qualcosa dirigendosi al bancone dopo avergli scoccato una delle sue straordinarie occhiate che parlano al posto della sua bocca.
Torna in fretta con una bottiglia di birra in mano. «Allora se non ti dispiace ti faccio compagnia», risponde alla mia domanda inespressa.
Bevo d'un fiato gli ultimi gocci del liquido provocando di proposito il rumore del risucchio della cannuccia a contatto con la parte ormai vuota del bicchiere.
Dentro il bar entrano i King con la loro grazia e bellezza imbambolando tutti quelli che si trovano già all'interno del locale e che vorrebbero fare parte del loro gruppo.
Dana mi si avvicina non appena mi vede mentre Harper e Mason si allontanano in fretta dal bancone andandosi a sedere in fondo, ignorando le battute nei loro confronti. Nessuno sembra però volerli minacciare o cacciare.
«Ehi», mi saluta Dana ignorando Kay, mettendo le mani dentro le tasche dei jeans. «Posso parlarti un momento?», indica fuori.
«Per farmi male pugnalandomi alle spalle o per convincermi che siete i migliori?», domando con la mia solita spavalderia e forse anche biascicando leggermente.
Arrossisce mordendosi il labbro. «Per chiederti scusa», ammette davanti a tutti guardando ovunque.
Nonostante sia sincera, vederla così guardinga mi fa dubitare della sua buona fede. Soprattutto quando indirizzando lo sguardo verso il tavolo in fondo, noto come la sta trucidando Harper.
Faccio una smorfia. «È tardi per le scuse. Non apparteniamo allo stesso gruppo e dubito che tu voglia perdere il tuo. Harper non apprezza che tu sia qui con me. Come puoi vedere ti osserva come una traditrice e tu non vuoi perdere la reputazione per una come me. Adesso se non ti dispiace...», indico il corridoio.
Dana annuisce più che mortificata andandosi a sedere accanto a Davis che vedendola turbata e in parte sconsolata le sistema un braccio sulle spalle baciandole la fronte.
Il gesto mi provoca un certo fastidio dentro. Io non ho mai avuto niente del genere. Nessuno che capisse i miei silenzi, anche quando avevo tanto da dire. Nessuno ad abbracciarmi. Nessuno a tenermi stretta e a non lasciarmi andare.
«Puoi avere anche tu tutto questo», mi si para davanti la faccia di Kay.
Mi fa paura il modo in cui riesce a capirmi. Succedeva anni fa e sembra non essere cambiato questo suo stranissimo potere.
Lo sposto con la mano. «Sei ancora qua?»
Mi alzo provando ad uscire dal locale. A fermarmi uno dei King un po' alticcio appena entrato. Mi sorride con gli occhi arrossati e il sorriso da stronzo. «Ehi, dove vai così di fretta? Non sei Erin?»
Kay si posiziona davanti a me. «Ti conviene sparire», lo minaccia.
Alcuni dei King si avvicinano mentre gli Scorpions si alzano rimanendo a distanza a guardare.
«Stavo parlando con lei e non con te», biascica spingendolo.
Kay stringe il pugno in vita girando lievemente la testa forse riflettendo su quello che deve fare.
Decido io per prima. Poso la mano sul suo pugno poi guardo il ragazzo. «Io non voglio parlare con te tantomeno con i tuoi amici. Adesso lasciami passare o mi metto ad urlare e domani sapranno tutti che sei un maniaco», minaccio toccando un punto debole.
Mason si avvicina. «Amico, lasciala passare», mi guarda in modo dolce ma lo ignoro superandolo. «Non sperare che ti ringrazi. Tieni a bada i tuoi cuccioli.»
Barcollo leggermente uscendo dal locale e mi viene da ridere. Non immaginavo che quell'alcolico fosse davvero così forte e che avrei affrontato Mason mettendolo ulteriormente in ridicolo.
Kay mi segue. «Sei arrabbiata e lo capisco. Hai bisogno di sfogare quello che tieni dentro sulle persone che odi e lo capisco. Ma hai trattato male anche Dana. Lei non è come Harper. Voleva solo scusarsi. Era sincera.»
Lo lascio concludere.
«L'hai trattata come i King trattano gli invisibili.»
«Ascolta, lei ha sentito quello che vogliono farmi e non è intervenuta perché ha paura di essere trattata come suo fratello quindi è proprio come loro. Adesso non me ne faccio proprio niente delle sue scuse. Non servono a niente dopo che hai ucciso una persona. Non me ne faccio niente neanche del tuo aiuto o dell'improvvisa gentilezza di quello stronzo nei miei confronti perché era palese che stava mentendo», rispondo spostandomi in pizzeria.
Non appena entro mi viene voglia di alzare le mani. Sento come pistole i loro sguardi. Sono puntati addosso e mi stanno giudicando senza neanche conoscermi.
«Voglio solo una pizza come tutti voi», sbraito. «Mangio anch'io. Stupidi idioti», sussurro.
«Non fare caso a loro. Dimmi pure come vuoi la tua pizza... Erin, giusto?»
A parlare una donna con una bandana bianca e due cerchi argentati alle orecchie. Truccata impeccabilmente, una frangia sbarazzina rossa a nasconderle la fronte spaziosa. Non è molto alta ed è incinta. Appare accaldata. Infatti passa il dorso della mano sul viso asciugando il sudore che lo imperla rendendolo roseo sulle guance.
«È possibile avere una margherita con le patatine fritte a parte?», la guardo speranzosa.
I suoi occhi si posano subito alle mie spalle ma questa volta non mi volto a controllare. Ormai so che mi segue come un'ombra. Sento il suo odore e il suo calore ancora prima che qualcuno lo avvisti. È praticamente ovunque. Inizia anche ad essere inquietante.
«Anche per me ma senza patatine, grazie.»
Si sposta subito alla cassa.
Poso velocemente una banconota sul ripiano. «Non accetti nessun pagamento da quel tizio», avverto la donna che sorridendomi e ascoltandomi fa come dico prendendo i soldi.
Dopo un paio di quelli che a me sembrano pochi minuti, mi passa i due cartoni di pizza e in un sacchetto le patatine dentro la confezione con la stagnola. C'è anche qualcosa che non ho ordinato.
«Ho aggiunto le bibite. Le offre la casa. Fagli vedere chi comanda a quel vandalo», lo provoca guardandolo continuando a sorridere.
«Comando io», risponde lui accennando un sorriso.
Ringrazio la donna uscendo dalla pizzeria con il mio bottino che, ad un certo punto pesa e rischio di farlo cadere a causa della mia lieve ubriachezza.
Dimentico sempre di non reggere l'alcol.
Kay prova ad aiutarmi ma mi allontano da lui.
«Vuoi mangiarla al parco?»
Gli passo il suo cartone. «Chi dice che io voglia mangiare insieme a te?»
Sbuffa. «Andiamo, ho l'auto posteggiata qui vicino. So che hai bisogno di un posto tranquillo e questo non lo è», si incammina senza aggiungere altro, più che sicuro di sé.
È strano quello che sento. È contraddittorio. Sfida persino il mio cuore che continua a battere in modo diverso.
Mi confonde, abbastanza da mettermi in allerta.
Non ho sbollito tutta la rabbia che sento incendiarmi il petto. Neanche la delusione dopo avere saputo determinate cose che mi hanno fatto stare male.
Non trovo il modo per confortare me stessa, per alleviare il bruciore della ferita che sento aprirsi quando ripenso alle volte in cui ho sperato di potere avere una vita normale, una relazione con le persone stabile e di potere essere almeno un po' felice, spensierata, piena di vita.
Invece mi ritrovo a fingere di stare bene e vado avanti portando sulle spalle un peso che non posso reggere ancora e che non voglio più portare.
Sto sbagliando tutto. Me ne rendo conto. Sto sbagliando a comportarmi così. Sto sbagliando a parlare in un certo modo, a reagire.
Non posso addossare ogni colpa a chi mi sta intorno. Non dopo avere saputo in parte la ragione del comportamento che Kay ha avuto in quegli anni che adesso sembrano lontani ma che hanno lasciato una profonda ferita non rimarginata.
Perché quando ti rompi dentro, non provochi il minimo rumore e nel silenzio accompagni la tua vita alla deriva senza neanche accorgerti del male che stai facendo a te stesso.
E mi sento confusa, così tanto da lasciare tutti i dubbi da parte per vivermi un momento come una normale adolescente, senza drammi. Rinviando a domani ogni problema.
Pertanto seguo Kay fino all'auto. Salgo sentendomi agitata ma lo nascondo bene quando partiamo e lui non dice niente, semplicemente sorride sotto i baffi più che sodisfatto.
«Non illuderti», rompo il silenzio. «Non accetterò lo stesso la tua proposta.»
Si volta cambiando marcia. «Allora perché mi stai seguendo?»
«Perché ho la tua pizza e perché non mi va di mangiarla all'aperto, in mezzo agli insetti», guardo fuori dal finestrino sentendo la sua breve risata attutita da un finto colpo di tosse.
«Hai la mia pizza. Bella scusa.»
«Si, quindi se non vuoi che inizi a mangiarla smettila di provocarmi o di gongolarti.»
Gesticola un secondo con le mani tornando poi concentrato alla guida.
Ci ritroviamo immersi nel bosco, sulla strada che conduce nella casetta di legno.
Quando arriviamo infatti, attorno è così buio da non riuscire a scorgere niente. Kay scende dall'auto sparendo.
Pochi istanti più tardi noto la casa illuminarsi e lui fuori dalla porta farmi cenno di raggiungerlo.
Indugio un momento prendendo dei piccoli respiri lenti poi esco dall'auto raggiungendo la porta spalancata che lui chiude quando ho già messo piede in casa.
Muovendosi in fretta, mi toglie tutto dalle mani organizzando il tavolo creato con il ceppo della quercia.
Mi siedo sul divano e ceno accanto a lui in totale silenzio sentendomi stranamente a mio agio e non sul chi vive.
Kay posa la bibita dopo averne bevuta un lungo sorso. Alza gli occhi valutando attentamente una mia possibile reazione. Dopo un momento apre e richiude la bocca ripensandoci. Si agita un momento poi sistemandosi meglio sul divano, con un braccio sulla parte superiore si decide finalmente a parlare.
«Mi spieghi perché sei così tanto arrabbiata con me?»
Sentire la sua voce mi offre un certo sollievo.
Pulisco le mani. «Tu e molti altri avete rovinato la mia infanzia. Ancora oggi continuo ad avere gli incubi... poi associo questo posto a quello che ha fatto mia madre e... me ne vergogno. Non sono solo arrabbiata, io sono delusa e penso che sia peggio.»
Inumidisce le labbra. Quello inferiore è leggermente più carnoso.
Sembra affascinato dalle mie parole. Mentre parlo lasciando uscire tutto come un fiume in piena, mi rendo conto che il suo viso mi distrae abbastanza da non volerlo fissare più di quanto i miei occhi vorrebbero.
«Perché mi odi? Non sono più quel bambino. Sono cresciuto direi in ogni senso.»
Lo guardo intensamente e lui si agita. «Ok, forse un po' lo sono ancora ma non faccio più scherzi di quel tipo e non sono poi così terribile come pensi. Devi solo conoscermi un po' meglio per cambiare idea, non credi?»
Perché ci tiene così tanto?
Gioco con una pallina di stagnola. «Non sei terribile?»
Mi tira a sé per una gamba facendomi scivolare sotto il suo peso. Posizionandosi su di me affonda la mano aperta sulla mia nuca tenendomi la testa ferma.
Non respiro. Non oso farlo. Quello che sento è il frastuono del mio cuore imbizzarrito nel petto. Le guance prendono lentamente fuoco e poi di colpo bruciano rivelandogli quello che sento.
«No, non lo sono», sussurra strofinando la punta del naso sul mio. «Perché resisti? Così facendo è solo peggio.»
Tiro la pallina sulla sua fronte. «Perché proprio io? Potevi scegliere chiunque da usare per coprirti le spalle.»
«Perché ti ho aiutata abbastanza e adesso devi farlo tu con me.»
Mi sollevo sulle braccia. «Quindi ho avuto un debito da anni senza saperlo e tu ne stai approfittando adesso che sono tornata?»
Finge di pensarci su. «Direi di sì. Ma non userei il termine "approfittare". Non è appropriato.»
Mi alzo togliendo i cartoni vuoti per lasciare libera la superficie della quercia. Il tavolo è davvero bello da vedere. Ha delle piccole figure scolpite in basso.
«E quale useresti?»
«Ricambiare.»
Mi fermo un istante poi torno a sedersi accanto a lui che appoggia subito la testa sulle mie gambe.
«Provaci»
«Non la smetterai, vero?»
Nega guardandomi timido. «Facciamo così: non te lo chiederò più se mi prometti che ci proverai, in qualsiasi modo lo riterrai opportuno.»
Le mie dita incapaci di stare ferme si posano sul suo viso. L'indice a sfiorargli il naso dritto e la pelle che sento liscia al tatto. Chiude gli occhi godendosi il mio tocco come se nessuno lo avesse mai sfiorato così. È strano anche per me.
«Mio padre ha detto a mia nonna che non volevo sentire nessuno e lei ha continuato a chiamarlo per sapere come sto...»
Si solleva guardandomi più che attento. «E parlando con lei che cosa hai pensato di fare? Vuoi davvero andartene così? Vuoi lasciare di nuovo questo posto?»
Massaggio la fronte passando la mano tra i capelli legati morbidamente. «Non lo so. Non so più che cosa fare», ammetto parecchio confusa.
Dapprima non si muove poi circonda le mie spalle con un braccio avvicinandomi a sé. «Che ne hai fatto di Erin Wilson nella versione giustiziera?»
Sorrido. «Sono stanca di punire chi mi sta intorno. Tanto nessuno capisce davvero il male che mi ha fatto.»
«Su questo ti sbagli», dice alzandosi in parte offeso. «Con il tuo silenzio, le tue risposte, trasmetti molto di più. Fidati. Quello che non dici fa male come una lama piantata nel petto.»
Stiracchiandosi guarda fuori dalla finestra. «Se non vuoi tornare a casa, puoi restare qui.»
Guardo il divano. «Ok», sussurro.
Accende il camino facendo riscaldare l'ambiente. Spegne le luci e tirandomi in piedi al centro della stanza inizia a ballare oscillando da una parte all'altra tenendomi stretta a sé.
Mi lascio guidare dai suoi gesti, dai suoi strani tentativi di aiutarmi, di risollevarmi il morale. Ryan mi metteva davanti due opzioni, lui invece agisce non dandomi scampo.
«Ti preferisco così», ammette a bassa voce. «Mi piace la tua forza, non fraintendermi ma sei diversa quando non resisti, quando ti lasci un po' andare e non hai paura di me», facendomi fare una giravolta mi avvicina.
Le sue mani scivolano lungo la schiena. Tanto di fermarle ma sono veloci e forti.
Ci guardiamo negli occhi spostandoci in un posto che non abbiamo mai esplorato.
Chiudo le palpebre, mi stringe una mano premendo la guancia sulla mia.
Balliamo così, ancora per un po', avvolti dal silenzio della notte, dalle fiamme che crepitano nel camino, dai nostri respiri che si spezzano.
Le sue mani scivolano lentamente verso le mie natiche, premendo queste mi avvicina al suo corpo.
Mi alzo sulle punte dei piedi schiudendo le labbra, lasciando uscire un breve verso che si perde nel silenzio della stanza.
Me le sfiora con le sue. «Hai paura?»
Ne ho così tanta da tremare. «No.»
«Avvicinati allora», sussurra.
Deglutisco. «Come?», balbetto imbambolata dai suoi gesti.
Freme dilatando le narici.
Stringo le dita sulle sue spalle quando preme i palmi sulle mie natiche avvicinandomi maggiormente a sé, facendomi scontrare contro il cavallo dei suoi pantaloni.
Ansimo e gioca con le mie labbra più che divertito. «Avvicinati.»
Nego provando a staccarmi. Mi sento come sottoposta ad un test da parte del diavolo.
Kay non è solo un ragazzo vistoso, spietato e deciso. È anche malizioso, diretto, coinvolgente... travolgente. Mi destabilizza con quanta facilità riesce a prendere quello che vuole da me, a farmi rammollire come una stupida sciocca.
«Se mi avvicino poi che cosa fai?»
Sorride e non in modo sghembo. Sorride come un diavolo che sa come andranno le cose.
Mi turba questa sua consapevolezza. Così tanto da generarmi dentro un tumulto che non riesco a fermare. È un accumulo di battiti, di respiri, di sensazioni che vanno a mescolarsi creando un sentimento spietato, mai provato.
«Provaci e vedrai...», sibila.
Mordo il labbro inferiore tenendolo tra i denti. Lui se ne accorge continuando a sorridere, a giocare con me. Le sue pupille in netto contrasto con quel gelo polare, si dilatano. «Se non provi non lo puoi sapere», mi provoca ancora.
Decido di allontanarmi da lui. Non posso cadere nella sua trappola apparendo come una stupida ragazzina in cerca di attenzioni.
Non me lo permette. La sua presa è salda come una catena. Si piega, certo, ma non può spezzarsi.
La mia mano è sul suo petto, percepisco sotto pelle i battiti del suo cuore. Dapprima costanti poi in aumento come se stesse correndo senza mai perdere il ritmo. La sposto sulla sua spalla poi sul collo sfiorando le linee di quel tatuaggio strano che nasconde sotto gli indumenti.
Kay piega la testa chiudendo gli occhi. Noto che stringe la mascella perché gli si forma una linea marcata sulla guancia.
Allontano la mano e si rilassa riprendendo il controllo.
Che cosa succede?
Ci guardiamo negli occhi senza muoverci. Tutto intorno a noi si ferma. Persino il tempo non sembra più scorrere anche se non lo si può fermare.
Allora decido di metterlo alla prova sfiorandogli ancora una volta il collo. Lo faccio per capire la ragione della sua reazione. Questa volta però preme il palmo sul mio fondoschiena.
Poso anche l'altra mano tra l'orecchio e il collo e adesso sta respirando in modo diverso. Sembra affannato e nel panico.
Rimango sulle punte dei piedi, in equilibrio instabile a cercare una risposta che non esce neanche dai suoi occhi improvvisamente freddi, distanti, in grado di farmi male.
«Che c'è?»
«Non... toccarmi quella parte del collo», soffia via le parole a fatica.
Stacco le mani rimanendo con i palmi aperti a mezz'aria, in bella vista. «Perché?»
«Non lì», balbetta rabbioso rovinando il momento tranquillo che stavamo vivendo dopo anni di rancore e odio allontanandosi da me, voltandosi dall'altra parte.
Deglutisco a fatica. «Kay, spiegami», poso una mano sulla sua spalla e si volta come se fosse pronto a colpire.
«Mettiti a letto», ordina spostandosi verso il divano dove recuperando delle coperte inizia a sistemarlo.
Mi abbraccio. «Puoi dormire con me?»
Appare sorpreso.
Mi affretto a spiegare. «Non mi adatto facilmente come sembra. Se non è un problema che io dorma qui... lo farò senza pantaloni perché mi danno fastidio e... con te», arrossisco.
Intuendo il mio disagio si avvicina. «Ok, ma quello che vedrai dovrai tenerlo per te, perché anch'io dormo mezzo nudo. Promettimelo!»
Batto le palpebre freneticamente non capendo. «Va bene.»
Mi chiede una conferma.
«Promesso.»
Fruga in un cassettone lanciandomi una maglietta nera abbastanza lunga e larga a maniche corte.
«Questa va bene?»
«Si. Girati!»
«Non sei la prima ragazza che vedo mezza n...» alza subito le mani. «Ok, ok», replica girandosi. «Certo che sei strana a volte. Facevamo il bagno in piscina insieme, non ricordi?»
Mi spoglio in fretta indossando la maglietta che ha il suo odore. «Fatto», mi volto e lui si sta spogliando senza il minimo pudore. Quando sfila la maglietta però: rimango spiazzata. Non so come reagire, che cosa dire o se dire qualcosa.
Penso solo alla promessa che ho fatto rimanendo impalata come un cubetto di ghiaccio.
«Non è un tatuaggio come gli altri», spiega in parte notandomi a disagio.
Conoscendomi sa che dico quello che penso e mi sto trattenendo abbastanza per non lasciare uscire la cosa sbagliata.
Dandomi uno scossone mordo forte le guance infilandomi subito sotto la coperta che odora tanto di ammorbidente e guardando il muro faccio finta di niente.
Kay si stende dopo una manciata di secondi che a me sembrano eterni. All'inizio non si muove poi mi circonda la vita con entrambe le braccia appoggiando il mento alla mia spalla. «Sei la prima persona che non dice niente di niente», mormora in parte incuriosito dalla mia strana reazione e forse anche ansioso di sapere cosa ne penso.
Che cosa potrei mai dire?
Mi volto e il suo viso è vicinissimo. Il suo fiato caldo si posa sulla mia pelle come una carezza delicata. La accetto sentendomi meno tesa di prima.
Quello che credevo fosse un tatuaggio, in realtà è un segno che si dirama dalle spalle verso il petto in tante piccole vene di colore diverso dal viola al rosso al nero.
La mia mano si avvicina senza toccarlo e lui freme stringendomi il polso, forse per paura di essere toccato.
«Parla», cantilena quasi.
La mia testa oscilla e le dita sfiorano una delle diramazioni senza il suo permesso. «Se la tocco che cosa succede?»
Stringe la presa sul polso. «Non lo farai», ringhia.
«Adesso conosco il tuo segreto. Non hai paura di me?» sussurro fissando senza pudore l'enorme segno lasciato da un fulmine.
«Dovrei?»
Tocco la sua pelle con tutto il palmo e lui si irrigidisce respirando a fatica, come un animale che sta soffrendo ma non si scansa.
Risalgo sul collo sentendo il suo fremito seguito da un gemito che non lascia uscire del tutto mordendosi la lingua.
«Forse», rispondo alzando gli occhi, lasciandomi intrappolare dai suoi così trasparenti alla luce della luna da sembrare ghiaccio sciolto.
Si avvicina e non tiro la testa indietro. Il mio corpo inizia a percepire la vibrazione, l'onda che mi scarica sulla pelle quando le sue braccia mi stringono maggiormente e poi le mani scivolando in basso premono abbastanza forte da farmi ansimare sulla sua bocca sempre più vicina.
«Non ho mai smesso di pensare a te», mormora. «Eravamo piccoli, che ne potevamo sapere allora dell'affetto? Dicevo di odiarti e tu ricambiavi con la stessa intensità ma solo perché volevi difenderti da me. Quando sei sparita senza salutare e poi negli anni la gente ha iniziato a parlare, mi sono reso conto di sentire... come un vuoto qui», porta la mia mano sul suo petto. «Io mi ricordavo di te e ho continuato a farlo senza mai permettere ai pettegolezzi di deformare quello che c'era stato. Ammetto che speravo di vederti un giorno e non nego di averti anche cercata sui social network un po' di tempo fa. Volevo vedere come eri diventata, come te la stavi passando.»
Prende fiato accarezzandomi il viso. «Quando ho visto che eri sempre sorridente, sempre in viaggio io...» storce le labbra e staccandosi si solleva a metà busto dandomi le spalle.
Mi alzo anch'io portando le ginocchia al petto. «Tu che cosa? Continua...»
Gira il viso. «Ero incazzato con te», risponde fissando adesso un punto lontano.
Il mio cuore rallenta per poi tornare a battere come un pazzo nel petto.
«Perché?», provo ad avvicinarmi cautamente.
I suoi muscoli si contraggono sentendo la mia mano sulla sua schiena e poi il mio mento posarsi sulla sua spalla.
«Perché pensavo...» soffia dal naso fermandosi. Passa la mano tra i capelli scompigliandoli.
Attendo e lui mi guarda da sotto le ciglia. «Pensavo che ti fossi lasciata tutto alle spalle.»
«Non sempre quello che si vede è quello che si prova», dico aggiustandogli il ciuffo ricaduto sulla sua fronte.
Annuisce. «Già, adesso lo so ma in quel momento...»
«Credevi che avevo rimosso tutto quanto, ogni singolo ricordo, persone comprese», concludo al posto suo.
Mi fa scivolare sul materasso abbassandosi su di me. «Ti divertivi senza di me, avevi cambiato vita ed eri costantemente in viaggio. Ti vedevo felice e spensierata e non lo sopportavo.»
Accarezzo il suo viso. «Perché?»
«Perché non ti ho mai dimenticata.»
Sorrido. Non riesco a nasconderlo. «Ma io non ero felice e scattavo quelle foto o partecipavo a tutte quelle attività per tenermi lontana da casa o dagli alberghi in cui si trovava mia madre con il compagno. Mi distraevo e nel frattempo aggiornavo chi mi seguiva cercando sempre di non farmi vedere per come in realtà ero veramente: arrabbiata, distrutta dentro, infelice.»
Ascolta con attenzione. «Davvero non hai mai pensato di tornare?»
«No», rispondo senza neanche rifletterci. «Quello che ho passato qui e poi dopo la separazione dei miei mi ha destabilizzata. Non è stato bello ritrovarmi in una stanza con uno psicologo per anni.»
Ed ecco che compaiono i primi sensi di colpa. Kay si solleva di nuovo scrollando la testa. «Ti ho già spiegato perché mi sono comportato in quel modo con te.»
Rimango sdraiata. «Si e quando mi hai chiesto di seguirti non ho declinato l'invito.»
«Perché?»
Adesso è lui quello incuriosito.
«Perché credo di essere più arrabbiata con me stessa che con tutti voi. Eravamo dei mocciosi. Avrei potuto e forse anche dovuto farmi difendere da un adulto ma non l'ho fatto. Ho subito in silenzio per paura di dovere pagare il doppio delle conseguenze. Quindi è anche colpa mia. Avrei dovuto reagire e non farmi carico di tutto quel disprezzo nei miei confronti.»
Mi sollevo e notandolo pensieroso mi avvicino di nuovo a lui. Appoggio il mento sulla spalla rimanendo in attesa.
Per provocarlo bacio una delle diramazioni.
Si sposta. «Non farlo più», mi ringhia contro.
«Spiegami perché», rispondo con nonchalance.
Adesso mi guarda male. Inizialmente non mi muovo poi sorrido ed infine scendendo dal letto rido quando prova a prendermi.
Giro intorno ai divani.
«Sai che sarà peggio per te quando ti prenderò?»
«Lo so, ma così è più divertente», guardo la porta e lui va ad appoggiarsi proprio lì.
Mi fermo mettendo le mani sui fianchi. «Mi stai trattenendo qui dentro, sul serio? Sai che sono minorenne e...» strillo quando avanza sollevandomi sulla spalla mollandomi una pacca sul sedere abbastanza forte e sonora da farmi dimenare.
Non demordo di certo e tra le risate, notando che mi tiene sulla spalla non intaccata dalla folgorazione, decido di rischiare premendo il palmo proprio su quella.
Mi lascia subito andare e scivolo lungo il suo corpo lentamente.
Il suo sguardo è così freddo da farmi tremare ma in qualche modo riesco a rompere quel velo, quella superficie ricambiando senza paura.
Ancora una volta ci troviamo premuti l'una all'altro. Le sue braccia intorno alla mia schiena e le mie mani sul suo petto scosso dall'affanno.
Non so chi dei due scatta per primo ma so che la terra trema e tutto intorno si allontana perdendo significato quando le sue labbra invadono le mie.

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Come crepe sull'asfaltoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora