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Arriva per tutti il momento in cui bisogna perdersi completamente per potersi ritrovare e forse anche salvare dall'oscurità che vive in ognuno di noi.
Un delle lezioni con cui sono cresciuta è stata quella di rimanere fedele ad ogni mio desiderio, pensiero. Non ho mai permesso a nessuno di distrarmi o di trascinarmi lontano da me stessa.
Entro nel corridoio della scuola con disinvoltura, scuotendo la mia lunga chioma verde acqua oggi lasciata libera, in morbide onde.
Cammino con sicurezza indossando il mio chiodo, sotto una maglietta con la figura di uno scheletro dove dall'orbita oculare destra nascono dei fiori e jeans neri strappati sulle ginocchia.
Raggiungo il mio armadietto con gli occhi di tutti puntati addosso ma non mi importa. Sono già stata mandata nella classe degli invisibili tranne per alcune materie in cui mi ritroverò incastrata tra la gente più subdola dell'intero pianeta. Ma alla fine riuscirò a superare ogni ostacolo perché so di essere forte.
Mi ritrovo davanti al mio armadietto. In realtà non so neanche perché continuo ad aprirlo, visto che non ci tengo niente di importante a parte qualche quaderno nuovo.
Forse mi piace l'idea di mettermi in mostra per dare fastidio a tutti questi figli di papà che credono di potere decidere sulla vita degli altri credendo che i loro pensieri siano come le parole della Bibbia.
Questa seconda settimana è stata abbastanza dura. Dopo un paio di giorni passati a meditare, ho deciso di dovere essere me stessa, di non dovermi eclissare per compiacere nessuno. L'ho fatto per tutta la vita e non è bastato. Adesso farò a modo mio. Cercherò la mia libertà, la mia felicità secondo il mio pensiero, i miei desideri.
Da giorni non parlo neanche con mio padre. Lo sto punendo. Ma dubito fortemente che a lui importi veramente.
Lo ritiene solo un capriccio da parte di una ragazzina. Ma nella vita ho sperimentato tanti modi di urlare quello che non va pur facendolo in silenzio e, credo che alla fine lo capirà anche lui che sto male, che qui io non sono me stessa e che non mi sentirò mai davvero a casa e a mio agio. Forse un giorno lo sentirà nel petto il dolore che mi ha trafitto.
«Look sfacciato, mi piace!»
Chiudo l'armadietto fissando dalla testa ai piedi Harper che se ne sta in posa plastica davanti a me, in attesa di una mia reazione.
«Ti piacerà anche sapere che non mi interessa ottenere la tua benedizione, tantomeno la tua opinione sul mio "look".»
Si guarda le unghie laccate di smalto rosso nascondendo di sentirsi ferita e umiliata. «Come siamo acide. Mi spieghi che cosa ti ho fatto?»
La supero. «Non mi hai fatto niente o forse hai fatto tutto quello che non dovevi», replico piano, come se fosse una minaccia.
Harper drizza impercettibilmente le spalle. «Andiamo, sei ancora arrabbiata con me per quella storia? Ti ho spiegato che...»
Mi incammino lasciandola lì a parlare.
«Erin!», mi chiama nervosa.
Non mi volto. Raggiungo la mia aula dove oggi per fortuna non ci sarà lei e le sorrido perfidamente prima di guardarla male ed entrare.
Qui dentro nessuno mi scansa. Nessuno mi giudica. A nessuno importa chi sono, da dove vengo, che cosa faccio. Sono solo Erin Wilson, la ragazza dai capelli colorati a cui piace studiare e sognare ad occhi aperti un futuro migliore. Sono la figlia che ha distrutto la vita di sua madre. Sono quella da tenere a debita distanza per paura di essere feriti.
Mi siedo da sola guardando un momento fuori dalla finestra. Il cielo non è coperto dalle spesse nuvole oggi. Mi piace come i raggi del sole rendono tutto meno opprimente e spento.
Accanto a me prende posto un compagno, mi rivolge un breve cenno del capo ed io ricambio guardandolo dal riflesso del vetro che ha qualche alone di pioggia all'esterno.
Aggiusta gli occhiali sul naso poi mi porge la sua mano. «Sono Ephram», dice balbettando.
Gli sorrido. «Erin», mi presento dedicandogli tutta la mia attenzione.
Ephram è molto alto, esile come un giunco. I suoi occhi castani sono coperti dalla montatura e dai capelli ricci che gli ricadono sulla fronte come una nuvola. Hanno un aspetto morbido e per un attimo sono attraversata dalla voglia di toccarglieli.
Indossa una camicia bianca sotto un maglione blu scuro. Ha le mani da pianista e l'aspetto rassicurante.
«Ti abituerai a noi», dice sistemando i libri sul banco senza guardarmi negli occhi.
Annuisco anche se non ne sono convinta. Oggi con il mio colpo di testa, rischio di farmi cacciare da questo posto.
«Non sarà un problema per me.»
«Davvero?», non sembra credermi.
Riconfermo. «A meno che non sia io il problema per voi. Insomma, mi hanno mandata qui solo perché cito testuali parole: "distraggo" le persone e non perché chiacchiero ma per i miei capelli colorati e i miei piercing. Non sono stati neanche in grado di ammettere di avere solo un pregiudizio verso queste cose che non fanno di me una persona cattiva.»
Tira sul naso la spessa montatura marrone, continua a scendergli verso la punta.
Mi ascolta con attenzione, non perdendo una sola parola di quello che dico più che avvilita.
«Ci mancava un elemento come te in classe. Benvenuta tra gli "Invisibili". Ma che ci fai qui?»
Alzo le spalle. «Credo di non avere un altro posto in cui stare e attualmente me lo faccio bastare.»
«Ti dispiace stare con noi?»
Sto già scrollando la testa. «No, mi sento più a mio agio qui. Non darò fastidio.»
Picchietta la penna sul quaderno. «Ma hai delle lezioni ancora con loro?», domanda quasi dispiaciuto per me.
Mi stringo nelle spalle confermando il suo dubbio. «Sopravvivrò», rispondo mettendomi composta.
Posa il gomito sul banco voltandosi, standosene appoggiato con la guancia sul pugno chiuso. Ha un braccialetto. Uno di fili intrecciati e una cicatrice sul polso in lungo.
«Non sei nuova...» mi scruta tirando la manica.
Nel suo sguardo leggo curiosità.
«Da queste parti intendo. Hai un viso familiare...» assottiglia gli occhi.
Mi agito sul posto. «Perché vivevo qui anni fa poi sono andata via.»
Mi scruta ancora attentamente poi di colpo spalanca gli occhi come se avesse visto un fantasma.
«Erin... Wilson? Sei davvero tu?»
Mi indico. «In persona», esclamo.
«Oh mio Dio», sorride. «Non ti ricordi di me?»
Corrugo la fronte. «Ero piccola quando sono andata via. Non credo di ricordare ogni persona anche perché adesso vi trovo tutti più grandi e...»
«In estate giocavamo qualche volta insieme in giardino», dice dandomi la risposta che cerco.
Frugo in quel vagone pieno di ricordi in parte positivi. Batto le palpebre incredula. «Ephram Bale? Oh mio Dio! Sei cresciuto tantissimo», reagisco stupita.
Arrossisce lievemente e le lentiggini sul naso si evidenziano nettamente. Passa la mano tra i capelli scompigliandoli.
«Già, eravamo vicini di casa. Non so se ti ricordi. Poi un giorno sono passato a trovarti ma non c'eri più.»
Mi faccio attenta e in parte mi irrigidisco. Per fortuna non se ne accorge. Non amo parlare di quell'anno così buio per la mia vita.
«Che cosa è successo?»
Inarca un sopracciglio. «Non lo sai? Tuo padre non te lo ha mai detto?»
Gratto la tempia cadendo dalle nuvole. «No, che cosa?»
Inspira raccogliendo le parole e forse anche i ricordi da bambino. «Un giorno ho bussato alla tua porta, tuo padre è uscito quasi di corsa, aveva gli occhi rossi e quando gli ho chiesto di te mi ha risposto che non c'eri più. Allora gli ho dato il regalo che avevo preparato per te e lui mi aveva promesso che te lo avrebbe fatto avere. Poi non mi hanno più permesso di venirti a trovare ma a quanto pare era perché non saresti più tornata.»
Schiarisco la gola sentendomi a disagio. Ci sono cose che mi sono persa. Cose che non so perché non mi sono mai state raccontate.
«Che cosa era quel regalo?»
«Sai che non ricordo con esattezza», riflette un po'. «Probabilmente un coniglio fatto all'uncinetto da mia nonna», sorride in modo dolce. «Ne volevi tanto uno vero...»
Sorrido ma celando dentro la marea che si innalza sommergendomi.
Come fa a ricordare queste cose?
«Chiederò a mio padre e ti farò sapere se ha conservato quel regalo.»
Aggiusta gli occhiali. «E che cosa ne farai?»
Ci rifletto su un momento. «Lo metterò sulla mensola. Non ho mai avuto poi così tanti regali e non ho molte cose della mia infanzia.»
Ascolta attentamente mettendo una mano sul petto. «Mi farebbe stare meglio. Per tutti questi anni, non sapere...»
Lo spingo e ride. «Ok, stavo scherzando.»
«Fai teatro?»
Annuisce.
Il professore entra in aula e smettiamo di parlare ascoltando attentamente la sua spiegazione.
Terminata l'ora, mi alzo per cambiare aula. Ephram mi segue tranquillo tenendo in spalla il suo zaino, superandomi di una spanna. Mi sento davvero piccola accanto a lui.
«Trigonometria?»
Non ho ancora memorizzato bene l'orario quindi controllo pescando il foglio. «Esatto.»
Mi fa cenno di andare.
Camminiamo l'una di fianco all'altro in silenzio.
Non mi sento a disagio ma non voglio che abbia poi così tante aspettative su di me.
Non voglio illuderlo, deluderlo, abbandonarlo un'altra volta. Non voglio macchiarlo con la mia presenza. A volte mi capita di sentirmi come una ferita. Prima o poi passo, ma lascio dentro un segno profondo.
A sbarrarci la strada, quando svoltiamo per cambiare corridoio: è proprio Harper. «Sloggia!» ringhia addosso ad Ephram come se fosse uno scarafaggio. Quest'ultimo guardandomi velocemente batte in ritirata.
Mi scuso con lui che aumenta il passo quando nota Damon appoggiato allo stipite della porta della loro aula.
«Dovevi per forza comportarti in quel modo con lui?»
«Saluterai in un altro momento il tuo vecchio amico di giochi. Ti piaceva proprio stare insieme ai ragazzini a giocare in mezzo alla strada o in giardino», arriccia il naso ricordando qualcosa di spiacevole. «Un po' meno giocare con me con le bambole.»
Ricorda ogni cosa. Terrò a mente questo dettaglio. Potrebbe usare tutto contro di me in qualsiasi momento.
Sbuffo. «Ho lezione. Che cosa vuoi?»
«Per farmi perdonare questo pomeriggio andiamo a prendere un gelato», dice quasi balbettando. «Che ne dici?»
Non è abituata a chiedere scusa. Si crede sempre perfetta ma sa bene di sbagliare usando questo atteggiamento.
«Ho altri impegni, ma apprezzo il tuo tentativo», dico camminando in direzione della mia classe.
Harper mi ferma afferrandomi per un polso. Stringe leggermente la presa credendo di potermi spaventare o convincere usando la forza.
«Ho bisogno di parlarti», dice indurendo i lineamenti.
Mi sembra sincera ma non mi lascio intimidire da lei. «Chiedilo gentilmente, forse troverò cinque minuti per te», rispondo lasciandola impalata e come una stupida al centro del corridoio.
Saluto con un cenno Damon che sta ghignando sotto i baffi e poi entro in classe sedendomi accanto ad Ephram.
Appare irrigidito. La gamba gli balla nervosamente e continua a fissare davanti a sé pensando a chissà che cosa. Si volta e nei suoi occhi leggo nitidamente il riflesso di ogni sua paura.
«Ti ho messo nei guai?», balbetta.
Lo fa quando si agita.
Che cosa ha fatto Harper in questi anni? È davvero così cattiva?
Poso una mano sulla sua spalla. «Cosa? No, no. Harper voleva solo invitarmi ma ho declinato gentilmente perché non mi va di passare il venerdì pomeriggio insieme a lei. Ha sempre queste strane manie di protagonismo...»
Spalanca gli occhi incredulo. «Tu... tu hai declinato l'invito di Harper?»
Sorrido. «Sembra così impossibile?»
Riflette un attimo. «Direi di sì», sta sorridendo con soddisfazione. «Nessuno le dice di no.»
«Tranne io?»
Conferma.
Dopo scuola decido di tornare a casa per potere pranzare senza correre il rischio di incontrare qualcuno o essere distratta da qualcosa.
Continuo a sentirmi seguita, per questa ragione mi toccherà fare molta attenzione questo weekend, mi dico entrando.
Sul vialetto trovo l'auto di papà. Chiudo il cancello avanzando verso la porta che si apre poco prima che io abbia raggiunto il portico.
Papà mi rivolge un sorriso speranzoso mettendosi da parte per lasciarmi entrare in casa.
Mi stava aspettando?
«Com'è andata oggi?»
«Ricordi Ephram Bale?», vado dritta al dunque lasciando lo zaino e il cappotto sulle scale legando i capelli per non averli sul viso.
Papà assottiglia una palpebra pensandoci sopra. «Si, il figlio del giornalista. Ha fatto qualcosa?»
Lo seguo in cucina dove trovo il ripiano apparecchiato e una pentola sopra il gas dentro la quale si sta mantecando il riso.
«No, è un mio compagno. Oggi abbiamo parlato e mi ha raccontato di essere passato dopo la mia partenza.»
Si irrigidisce. Lo fa sempre quando si parla di quel giorno. Il passato in fondo non è che un presente alterato dal dolore.
«Ah si», dice assaggiando il riso con un cucchiaio pulito. Lecca le labbra annuendo, forse risponde ad una domanda che si è appena posto mentalmente da solo.
«Mi aveva portato un regalo...»
Ci pensa con impegno poi mi fa cenno di aspettare un attimo e corre in garage lasciandomi sola in cucina.
Dopo un minuto lo vedo entrare in casa con una piccola scatola ancora coperta dalla carta regalo ormai sbiadita.
Sorrido portando il regalo sulle scale insieme alle mie cose.
Intendo aprirlo da sola, in camera.
Tornata in cucina mi siedo sullo sgabello. Papà serve il pranzo.
Il riso ha un odore buonissimo. Assaggio subito apprezzando immediatamente il gusto.
Compiaciuto papà mangia in silenzio. «Che cosa c'è dentro quel pacchetto?»
Alzo le spalle. «Ephram non ricordava con esattezza, ma sperava che non fosse andato perduto.»
Beve un sorso d'acqua. «Ho anche i miei regali in garage ma dubito che tu li voglia ancora aprire. Che cosa ha di diverso il suo?»
Papà ha l'animo ferito. Lo vedo. Ma non è stata colpa mia se mamma lo ha tradito.
Poso la forchetta sul piatto a scodella con dei disegni intricati di colore azzurro sulla ceramica bianca, ancora mezzo pieno di riso. «Perché non li hai mai spediti o portati? Li avrei di sicuro scartati in tempo.»
Passa una mano sulla barba. «Perché non volevo vedere tua madre. Non dopo quello che ci ha fatto. Perché non ci riuscivo. Io... quando venivo a trovarti ti trovavo sempre più distante e non... non riuscivo ad accettarlo. Non riuscivo a sopportarlo.»
«Che cosa?»
«Di averti perso. Di non poterti trovare al mio arrivo addormentata seduta davanti quella dannata finestra e metterti a letto, sentirti bisbigliare il mio nome oppure vederti sorridere davanti alle mie braccia spalancate quando venivo a prenderti a scuola o ancora renderti felice quando leggevamo insieme Harry Potter ed io mi addormentavo sul più bello. Quando venivo a trovarti tu... non mi guardavi più come un tempo. Non ero più il tuo eroe. Non ero più tuo padre. Ero... ero come un estraneo che eri costretta a vedere perché un giudice te lo aveva ordinato.»
Lo guardo fisso negli occhi sentendo sciogliersi dentro qualcosa. Gocciola ovunque allagandomi.
È un dolore inaspettato, improvviso nella calma. Come quando ti tagli un dito con la carta e menti a te stesso dicendo "non è niente".
E ti bruciano gli occhi ma anneghi dentro facendo finta di niente, perché hai imparato a cadere a pezzi senza fare il minimo rumore.
«Credi davvero che io ti consideravo un estraneo? Mi comportavo in quel modo perché non mi cercavi più e perché mi mancavi così tanto che quando ti vedevo passavo tutto il tempo a pensare che a breve te ne saresti andato e che quel vuoto si sarebbe ingigantito. Mi faceva stare male. Io adoravo stare insieme a te quelle poche ore. Mi sentivo di nuovo a casa ma... non ci riuscivo più perché sapevo che mi avresti buttata via un'altra volta.»
Abbassa la testa passando la mano tra i capelli. «Faceva stare male anche a me raggiungerti per un'ora e poi partire e lasciarti da sola con lei. Non immagini quante volte avrei voluto portarti con me. E sono felice adesso che tu sia qui. Ma dovresti volerlo...»
Mi alzo rischiando di fare cadere lo sgabello. «Ma non lo hai mai fatto. Non sei più venuto a trovarmi. Ed io non ti ho mai chiesto di scegliere. Eppure mi sembra ovvio quello che hai scelto alla fine, quando non ti sei più fatto vedere e chiamavi solo una volta all'anno fingendo di volermi bene. Se adesso non voglio stare qui, non puoi biasimarmi.»
Mi avvio verso le scale. «Non sai come mi sono sentita e non immagini quello che ho dovuto sopportare.»
Papà picchia il palmo contro il ripiano. «Cazzo!»
Non dovrebbe visto che essendo un medico gli servono integre le mani.
Lo sento imprecare ma non me ne curo. Ho smesso di giustificare chiunque. Il fatto è che mi sono sentita abbandonata dall'uomo della mia vita e da allora non ho più creduto in niente e nessuno. Mi sono spenta per paura di essere ferita ancora. Ho creato un muro davanti e indossato una corazza per non lasciarmi scalfire, per poter essere di nuovo felice.
In camera mi siedo sul bordo del letto. Scarto il regalo di Ephram e sorrido trovando un coniglietto grigio fatto all'uncinetto. È davvero carino. Peccato che sia ormai grande per giocarci.
Lo metto sulla mensola accanto ai miei libri poi scatto una foto.
«Hashtag: regali in ritardo di anni ma apprezzati. Grazie amico di giochi.»
Sento l'auto di papà uscire dal vialetto e capisco che è andato al lavoro o da qualche parte a sfogare la frustrazione.
Faccio una doccia, mi cambio ed esco anch'io, decisa a svagarmi per un paio di minuti senza correre il rischio di impazzire ripensando al passato, ai momenti di solitudine e tristezza vissuti senza una delle presenze più importanti.
Ma non ho mai avuto bisogno di presente che in realtà poi si rivelano assenti nella mia vita. Ho bisogno di presenze reali in grado di farmi sentire nel posto giusto anche quando il momento è quello sbagliato.
Cammino per le stradine piene di piccole ville, negozi che sembrano tanto quelli di antiquariato fino a raggiungere la piazza rettangolare.
La paninoteca, è piena di persone e la gelateria accanto, questa volta è aperta e dentro sembra esserci un bel flusso di gente.
Mi volto curiosando intorno. C'è una gioielleria ben fornita, un negozio di mobili dalla quale stanno uscendo una scrivania e una libreria in legno di noce caricandola sul furgone. Di fianco vi è un negozio di ferramenta e a pochi passi, dopo una stradina: una pizzeria con le sue squisitezze esposte in vetrina.
Cammino in direzione del piccolo parco per vedere che cosa è cambiato dall'ultima volta che ci sono andata insieme a mio padre.
Il rettangolo con la casa in legno al centro e lo scivolo. Una giostra a forma di fiore. Due altalene, i cubi, altri scivoli poi ancora panchine oltre il sentiero pieno di arbusti, qualche fontanella.
Il parco a quest'ora è pieno di genitori e bambini. La vista mi fa rattristare così tanto che ho bisogno di girare sui tacchi e ripercorrere i miei passi per allontanarmi dalla vista di famiglie felici, unite.
C'è un altro parco ma molto più piccolo e quando ci arrivo sembra deserto e lasciato in mano ai vandali.
Sospiro ritornando in piazza. Adesso alcuni ragazzi sono fuori dai locali. Chiacchierano, scherzano. Nessuno mi guarda male.
«Erin!»
Dana mi saluta tirando Davis per mano e poi staccandosi da lui mi si avvicina con un ampio sorriso. «Ehi, non ti ho vista in questi giorni. Che fine hai fatto?»
Ficco i pugni dentro le tasche. Le ho evitate come la peste perché so che stanno ancora cercando la ragazza che è andata con uno degli Scorpions.
«Avevo bisogno di stare sola.»
Annuisce come se fosse ovvio, guardandomi poi attentamente. «Stai bene? Sembri scossa.»
Vorrei tanto annuire ma sto già negando. Ormai è un meccanismo naturale che si innesca dentro la mia mente quando decide di difendersi da sola.
«Si, stavo solo facendo un giro per vedere che cosa mi sono persa», rispondo guardandomi intorno più che sfuggente.
Dana inumidisce le labbra. «Vuoi un po' di compagnia? Posso dire a Davis di lasciarci sole...»
Indietreggio alla vista di Harper che sta già puntando i suoi occhi su di noi non appena ci nota insieme.
«No, passa il tuo tempo con lui. Sto per tornare a casa. Ho delle cose da sbrigare», dico sentendomi a disagio quando noto come si muove nella nostra direzione.
Dana segue il mio sguardo e atterrisce. Dentro di lei sta già tremando, lo vedo. Riesce a trasmettermi la sua paura di essere allontanata dai King solo per avermi rivolto la parola senza il permesso di Harper che, si ferma a poca distanza.
«Erin, non pensavo di trovarti qui.»
Sta sorridendo in modo finto mettendosi a braccetto con Dana che adesso regge il suo gioco.
Cambiano così in fretta le persone. A me quelle che hanno un atteggiamento diverso in base a chi si trovano davanti non è mai piaciuto, conoscendo però la motivazione di Dana, lo capisco. Non posso di certo giudicarla se non se la sente di essere etichettata o allontanata. Non la capisco però quando fa tutto quello che le si dice rimanendo in silenzio, non lasciando uscire il suo vero carattere, non facendosi rispettare.
«Stavo andando via», ripeto forse per auto-convincere me stessa. «Ho altri impegni.»
Mi sta osservando come un animale pronto all'attacco. «Perché non prendi con noi un gelato? L'invito di oggi è sempre valido. Ti avevo detto che volevo parlarti.»
Guardo la gelateria piena di gente poi fisso la pavimentazione della piazza in cui mi trovo sentendomi così piccola e indifesa.
«Avevi delle scuse, spero siano buone quanto il gelato altrimenti sarò costretta ad umiliarti pubblicamente», alla mia minaccia celata sotto lo strato di puro sarcasmo lei ci crede. Dal canto mio spero invece di togliermela di torno, e anche in fretta.
Mi fa cenno di seguirla mentre Dana viene trascinata via da Davis dopo un suo cenno.
Corrugo la fronte ma intuisco che deve essere stata un'idea di Harper venire qui e aspettarsi che prima o poi sarei arrivata anch'io.
Adesso sono la sua bambola nuova, quella preferita e dovrò ascoltare quello che ha da dire prima di mandarla di nuovo al diavolo.
In qualche modo è sempre stata morbosa. Da piccola si attaccava a chiunque quando notava di non essere lei al centro dell'universo e faceva l'impossibile per distruggere ogni amicizia. In questo modo tu rimanevi sola e lei aveva la possibilità di consolarti e usarti a suo piacimento.
Ma con me non ci è mai riuscita. Ecco perché bisticciavamo pur volendoci bene. Perché io le ho sempre detto le cose in faccia. Le ho sempre urlato quello che penso.
Siamo sempre state diverse, allo stesso tempo entrambe viziate e pronte ad ottenere qualcosa.
Con il tempo però ha capito che non le avrei mai offerto lo scettro, tantomeno la corona. Per questa ragione ha serbato rancore nei miei confronti pur provando rispetto e forse, quando sono scomparsa da un giorno all'altro, ha capito di potere essere davvero una regina e ha approfittato del momento per raggiungere ogni suo obiettivo.
Non aveva più nessuna rivale mentre adesso... adesso si sente di nuovo in competizione. Ma io non voglio quello che è suo. Non mi serve.
Ci sediamo ad un tavolo, quello in fondo al locale, su due comodi divani l'una di fronte all'altra.
Le pareti della gelateria sono color avorio con un pannello basso liscio di legno scuro. I tavoli sono sospesi come l'asse da stiro. La vetrina con i gelati è davvero colorata e invitante. Il pavimento a scacchi confonde un po' la vista, così come la mancanza di spazio quando devi raggiungere il bancone che è tempestato di sgabelli e in questo momento da persone. Ma questo è il bello dell'Ice cream shop.
Harper ordina subito la sua coppetta maxi alla fragola mentre io opto per una coppetta piccola al cioccolato fondente e pistacchio. Non ho poi così tanta voglia di mangiare tantomeno di parlare con lei.
Ho imparato a parlare a poche persone. Non tutti capiscono le tue parole o quello che vuoi dire perché c'è disinteresse.
Ho imparato a parlare a poche persone, a quelle che non fanno finta di ascoltarti limitandosi a risponderti con dei cenni o fissando un punto lontano, annoiati.
Ho imparato a parlare a poche persone. A quelle rare. A quelle che sanno leggere il mio cuore. A quelle che non hanno paura di vedere sanguinare tutte le ferite che lo compongono. A quelle che sanno come ascoltare la mia anima.
Tamburello con le dita sulla superficie. Vi sono tante incisioni fatte dai coltelli o dalle chiavi, tanti messaggi d'amore, d'amicizia.  Tanti nomi e persone passate in questo locale. Ne leggo distratta qualcuno prima di alzare lo sguardo su di lei.
Si agita quando la fisso per troppo tempo. Ha paura di me, lo sento. «Devo parlarti ed è importante che ascolti ogni cosa che sto per dire», prende un lungo respiro gonfiando il petto.
«So che ti piace Mason», parla in fretta.
Ricevo come una fitta sulla nuca. Una scarica fredda mi attraversa come un lampo e batto le palpebre fingendomi sorpresa. «Che cosa?»
Sembra convinta. «L'ho capito, sai? Ma non te l'ho rubato. Io e lui... insomma era da tempo che ci stuzzicavamo e alla fine è successo. Ti ricordi quando da piccoli lui voleva sempre giocare con te e mi prendeva in giro? Io li non lo odiavo veramente. Mentivo quando lo dicevo. Ma sapevo che prima o poi le cose sarebbero cambiate tra noi due e adesso... siamo insieme.»
Arrossisce schiarendosi la voce davanti alla mia espressione di pietra. Aggiusta i capelli. «Quindi nessun rancore?»
Caccio in bocca una cucchiaiata di gelato dopo avere ringraziato il cameriere.
«Se siamo qui per questo potevi anche evitare questa sceneggiata da adolescente. A me non piace in quel senso Mason», esclamo gesticolando. Dentro di me la vocina animata dal senso di gelosia invece urla: "bugiarda".
Abbassa le spalle. «Bene perché non ho intenzione di lasciarlo.»
Piego la testa di lato guardandola male. «Allora?»
«Non mi sono comportata da amica e mi dispiace», dice quasi annoiata tenendo il cucchiaio di plastica rosa in bocca.
Prendo la coppetta alzandomi. «Sai che cosa non va proprio in te? Questo», la indico. «Sai perché tutti ti temono? Perché non sanno ancora che sei solo una patetica ragazzina viziata che crede di potere avere tutto semplicemente battendo le palpebre», sbotto.
Prova a fermarmi. «Dove vai?»
«È una bella giornata per passarla in compagnia di una vipera come te e poi, preferisco l'aria aperta a questo incontro in cui hai chiarito bene che non devo avvicinarmi al tuo ragazzo perché sei così insicura da avere paura che lui possa lasciarti per un'altra o peggio: per me. Dio, non siamo cani e non dobbiamo lasciare la pipì a terra per marcare il territorio. Io non lo voglio il tuo ragazzo, tantomeno il tuo stupido trono fatto di bugie. Per quel che vale puoi tenerti tutto quello che hai a me non servono le briciole», lascio una banconota sul posacenere accanto alla cassa facendo un cenno al ragazzo.
«Il gelato glielo offro io alla reginetta del paese», dico ad alta voce. «Ma non accetto le sue scuse dette solo per fare scena.»
Una volta fuori cammino tranquilla cercando una panchina libera e quando la trovo mi siedo comoda godendomi il resto del gelato che ormai ha un gusto amaro.
Non è come quello di nonna ma allevia questo senso di amarezza e mancanza che continua a picchiare forte sul petto chiedendo di essere ascoltato.
Da questo angolo vedo quasi tutta la piazza. I ragazzi divisi in gruppi a scherzare e poi Harper che mi cerca più che infuriata.
Poso la coppetta di lato alzandomi, pronta ad affrontarla un'altra volta.
«Ti rendi minimamente conto di esserti comportata da stronza lì dentro?» mi urla addosso con voce stridula.
Lecco le labbra pulendo gli angoli. «Fammi capire: tu mi abbandoni in un bosco da sola ed io sono la stronza? Tu mi inviti a mangiare un gelato con la scusa di dovermi parlare per poi ringhiarmi espressamente addosso di non dovere guardare il tuo ragazzo ed io sono la stronza? Harper, te lo dico perché penso che tu in fondo sai essere matura abbastanza da capirlo: datti una regolata perché sei proprio fuori di testa.»
Incrocia le braccia gonfiando il petto di proposito. «Ti ho detto che non è stata colpa mia se sono le regole dei King. Senti...»
«No, stammi a sentire tu...»
Sentiamo delle voci. Si levano alte dal centro della piazza. Ci voltiamo entrambe rendendoci conto che a poca distanza si è formato un cerchio di persone.
Smettiamo di discutere avvicinandoci per capire che cosa sta succedendo e facendoci largo ritroviamo al centro del cerchio Shannon davanti a Mason.
Quando sono arrivati? Che cosa sta succedendo?
«Che ci fai qui?»
«Ci vivo anch'io qui e non ho bisogno dell'autorizzazione per prendere un gelato o per starmene seduto al bar», replica Shannon con nonchalance.
Tra le persone ci sono parecchi Scorpions ma nessuno sembra notarli perché sono tutti concentrati a guardare Mason e Shannon.
«Sai che non potete stare in piazza conciati in questo modo. Fate spaventare i bambini e gli anziani...»
Shannon passa due dita sulle labbra. Freme. «Mi commuove la tua convinzione e mi disgusta allo stesso tempo. Sei irritante. Sappiamo benissimo perché lo fai e dopo l'altra volta hai perso credibilità. Non so se lo sai ma tutti si chiedono ancora perché sei scappato come il re dei polli anziché affrontare i controlli che uno dei tuoi ha chiamato per metterci tutti in pericolo. In fondo, non avevi l'autorizzazione?», lo sfida.
Qualcuno ride ancora facendo innervosire Mason che adesso si sente in imbarazzo.
Harper stringe la mia mano ma mi scanso da lei.
Non mi farò coinvolgere di nuovo.
Indietreggio fino ad uscire dal cerchio sempre più compatto. Mi allontano di qualche passo e quando mi volto verso la paninoteca, mi accorgo che all'interno i ragazzi stanno portando avanti una rissa. Questa, si sposta fuori con un enorme boato quando Damon, irritato dalle parole di un ragazzo, lo attacca spingendolo fuori dalla vetrina che nell'impatto va in frantumi creando il panico.
I due si rialzano ma non sembrano volere smettere e allora lottano come animali pronti a sbranarsi.
Gli Scorpions attaccati, si difendono e, quando i King mostrano le loro armi: dei coltellini a scatto affilati, non scappano di certo.
Damon urla qualcosa addosso al ragazzo continuando a colpirlo e quando uno dei suoi amici gli lancia l'arma prova a ferirlo ma il ragazzo, lo disarma con agilità mettendolo in breve e in poche mosse al tappeto lasciandolo privo di sensi.
Mason, arrabbiandosi ordina ai suoi di reagire con ferocia. Allora attaccano in massa creando il caos in piazza.
Vedendosi però sconfitti, senza una ragione, frantumano una ad una le vetrine dei negozi urlando aiuto come dei ragazzini.
Quando lanciano una pietra contro la vetrina della gioielleria, da questa non appena il vetro cade giù come zucchero di canna, scatta l'allarme e gli Scorpions scappano via minacciandoli.
I King, urlano vittoriosi spostandosi verso il parco abbandonato per medicarsi e leccarsi le ferite, mentre in piazza forse richiamati dalle urla o da qualche adulto, arriva una vettura della polizia con il signor Bolton.
Seguo i King ritrovandomi tra di loro che continuano a ridere, a raccontare tutto come se non lo avessero vissuto in prima persona.
Mi avvicino a Mason che, accorgendosi di me mi sorride sollevando l'angolo delle labbra con soddisfazione.
Ha solo un brutto ematoma sullo zigomo. Shannon avrebbe potuto metterlo al tappeto in qualsiasi momento ma non lo ha fatto, mi dico insospettendomi.
«Ti sei goduta lo spettacolo, sirenetta?»
Odio quel nomignolo. Mi ricorda lo scherzo che mi hanno fatto il giorno del mio compleanno rovinando il vestito da sirenetta che avevo. Tutto questo solo perché Harper aveva ordinato loro di tirarmi addosso un gavettone e di vedere se mi trasformavo per davvero. Purtroppo il gavettone era pieno di tempera colorata che è schizzata praticamente ovunque in giardino rovinando ogni cosa.
Ma ho riso con contegno mentre i miei si preoccupavano che potessi scoppiare a piangere da un momento all'altro. E lo avrei fatto, al contrario mi sono data forza comportandomi come una persona matura.
Idioti!
«Perché l'hai fatto?» urlo contro Mason odiandolo per avermi fatto ricordare uno dei momenti più orribili.
Mi guarda e accorgendosi di me forse davvero per la prima volta si concentra sui miei occhi. Allora continuo. «Erano disarmati e si stavano solo difendendo. Perché lo hai fatto?»
Mi riferisco alle vetrine.
Ansima leggermente stringendo la presa sul manico del coltellino che fa scattare davanti a me credendo di mettermi paura.
«Perché dobbiamo liberarci dalla feccia una volta e per tutte», mi urla addosso avvicinandosi.
Sussulto indietreggiando di un passo. Sentirlo parlare in questo modo, mi destabilizza.
Se sono disposti a mandare via gli Scorpions in questo modo, che cosa escogiteranno ancora?
«Ma è sbagliato! Vivono qui come tutti noi. Quel ragazzo voleva solo comprare un gelato o sedersi al bar come ognuno di noi, non voleva di certo iniziare una rissa. Ma ancora non capisco: perché hai fracassato quelle vetrine?»
«E tu che ne sai? Sei forse una di loro?»
Lo guardo male. «Sei davvero così ottuso o annebbiato dalla sete di vendetta da non accorgerti di avere distrutto forse anni di lavoro delle persone? Per te non saranno niente quelle vetrine ma per chi lavora hanno un significato. Sei proprio uno stronzo!»
«E tu sei così ingenua da non vedere. Qui è così che vanno le cose ormai, Erin. Se non ti piace quello che vedi, tornatene da dove sei venuta. Vattene da tua madre. Fa ancora la puttana?»
Ridono.
Me l'aspettavo. Davvero. Ma fa fottutamente male.
Quando sei ancora una ragazzina, non sai un cazzo della vita. Non sai niente dell'amore. Conosci solo tutte le sensazioni che provi e non riesci a dargli un nome perché portano verso una sola direzione: il dolore.
Un giorno ti svegli e capisci che ci sono persone che non puoi davvero amare perché non meritano quello che provi per loro.
«Si, batte sul marciapiede insieme alla tua», rispondo stringendo il pugno in vita. «Come credi di essere stato concepito? Non hai di certo l'intelligenza di tuo padre.»
«Uhhh questa era pesante!», lo prendono in giro.
Mi si avvicina rabbioso.
«Andiamo, sei stato tu ad offendere sua madre. È una ragazza, Mas.»
Damon prova a fermarlo ma lui lo spinge via puntandogli l'indice sulla faccia. «Stanne fuori!», gli ringhia addosso minaccioso.
Damon contrae la mandibola. Dopo un momento si mette da parte lasciandolo passare.
Mason dilata le narici mettendosi ad un centimetro di distanza da me. Quando preme la fronte sulla mia resisto all'impulso di mollargli una testata.
«Non intrometterti più se non vuoi scegliere da che parte stare. E attualmente, dal modo in cui stai reagendo, a me sembra ovvio.»
Adesso che mi guarda con disprezzo, lo vedo per quello che è. Soffio dal naso sorridendo, facendolo innervosire quando lo spingo con una certa forza.
«Sai, non sei cambiato affatto. Anzi, sei peggiorato. Sei piccolo e insignificante. Come quando ti facevi male e piangevi come uno stupido correndo dalla mamma anziché rialzarti e crescere.»
Prova ad avvicinarsi ma questa volta Damon lo spinge via. «È solo arrabbiata. Sai com'è fatta quando la offendono.»
Apprezzo il suo tentativo ma Mason continua a guardarmi male. «Ti ho avvisata, Erin.»
«E io ti ho detto che sei uno sciocco a credere di fare paura alle persone. Presto o tardi tutti si accorgeranno che sei solo un patetico ragazzo che gioca a fare l'adulto. La corona ti cadrà dalla testa e allora nessuno ti coprirà più le spalle. Nessuno ti guarderà con riverenza. Hanno solo paura di dirtelo in faccia, ma lo pensano in molti.»
Alzando il mento più che soddisfatta di avere sfidato il re dei polli, dandogli le spalle mi sposto di nuovo in piazza dove i proprietari stanno raccogliendo i cocci, valutando i danni, più che turbati e dispiaciuti.
Nessuno però sembra arrabbiato con i King. Al contrario sento qualcuno a distanza parlare degli Scorpions alimentando le fantasie di tutti, dipingendoli come dei mostri.
Mi affretto ad offrire il mio aiuto, proprio come altri ragazzi stanno già facendo non schierandosi da nessuna parte. Noto infatti alcuni dei miei compagni "invisibili".
Getto dentro il secchio i frammenti di vetro fissandone un pezzo abbastanza appuntito.
«Sta attenta ai cocci affilati», mi dice Dana raggiungendomi, distogliendomi dai pensieri.
Senza dirle niente, girandomi di spalle, continuo a dare il mio contributo a chi ci è andato di mezzo: i proprietari dei negozi.
«Grazie», mi dice il ragazzo della gelateria quando gli passo lo strofinaccio dopo avere pulito i tavoli all'esterno pieni di piccoli pezzi di vetro e spazzato per terra.
Dana non si dà per vinta e, ancora una volta avvicinandosi prova a fare conversazione. «Sei arrabbiata e lo capisco...»
«Hai sentito quello che ha detto?»
Annuisce. «Mi dispiace.»
Sospiro scrollando ripetutamente la testa. Rifiutandomi di ammettere di essermi sbagliata su di lui. Ma intanto ho avuto come la dimostrazione del fatto che Mason non è mai stato davvero un principe azzurro ma uno stronzo che crede di potere vincere usando mezzi ignobili per farsi rispettare.
«Ed io che lo credevo diverso», esclamo colpita al cuore. «Prima o poi se ne accorgeranno tutti», lo spero.
A volte non te ne accorgi ma le persone sono esattamente quello che temevi. Non c'è bontà, non c'è dolcezza, non c'è niente. Solo rabbia, gelosia e sete di vendetta dentro di loro. C'è solo buio e non la luce che avevi visto illudendoti.
Dana mi fa cenno di sedermi un momento. Passa il dorso sulla fronte guardando in modo triste la piazza.
«Prima non era così. I King e gli Scorpions vivevano nel rispetto. Quando si ritrovavano qui o in qualsiasi altro posto non si schernivano e non si disprezzavano. Tutto funzionava come doveva.»
Il ragazzo del bar ci offre da bere. Accetto il bicchiere di te' più che grata.
«Che cosa è successo?»
Alza le spalle. «Da un giorno all'altro le cose sono cambiate. Adesso succedono queste cose e nessuno riesce a fermarli perché... come hai visto, se ti intrometti diventi in automatico un traditore.»
Bevo un sorso di te' grattando il cartoncino che avvolge il bicchiere color panna con il coperchio marrone scuro. «Quindi adesso io sono il male?» mi alzo. «Sai che cosa mi ripugna? Questa assurda idea di trovare un capo espiatorio per tutto. Dovrebbero ammettere ognuno le proprie colpe e non addossarle solo a chi tenta di farli ragionare. A me non importa un accidenti di loro e sinceramente, dopo quello che ho visto, non voglio neanche averci a che fare. Preferisco essere invisibile o chiamata "traditrice" piuttosto che sentirmi a disagio tra persone che si credono superiori solo perché vengono protette da altre che non hanno neanche il coraggio di ribellarsi e dire basta», esplodo più che nervosa.
Dana non riesce a parlare.
Soffio dal naso. «Divertiti a farti manipolare da loro e sta alla larga da me se non vuoi essere allontanata.»
La lascio lì seduta tornando ad offrire il mio aiuto a chi non mi giudica.
Dopo un paio di minuti, sentiamo i passi di qualcuno. Davis compare dal vicolo, cerca  intorno alla piazza poi correndo verso Dana la afferra per un polso sussurrandole qualcosa. Lei sgrana gli occhi, mi guarda. Vorrebbe dirmi qualcosa ma si lascia trascinare dal suo ragazzo.
Decido allora di seguirli. Cammino attenta a non farmi notare e quando raggiungo l'angolo, mi fermo vedendoli tutti a confabulare.
«Hanno indetto una riunione di emergenza. Sapete già quello che dovete dire?»
Mason capitana il gruppo. Ognuno di loro sta già annuendo.
«E di Erin che mi dici?»
Mi appiattisco contro la parete di pietra prima di sbirciare per vedere la sua espressione.
Mason lecca le labbra. «Non sarà un problema. Suo padre è il sindaco. Non sarà mai contraria al suo pensiero o alle sue decisioni.»
Stringo i pugni in vita.
Stupido illuso, penso guardandolo con disprezzo.
«E se dovesse parlare?»
Ad intervenire Harper. Non è spaventata anzi, sembra alquanto eccitata al pensiero. Come tutti, prima ha assistito al litigio senza muovere un dito.
«Nessuno crederà mai ad una ragazza che è arrivata da quanto? Due settimane? Lei non sa niente del nostro mondo e sarà facile tapparle la bocca. In fondo, basterà offrirle un posto tra di noi.»
Inarco un sopracciglio. Sono proprio convinti. Si sbagliano di grosso se pensano questo di me. Io non farò mai parte di un gruppo di stupidi ragazzini che giocano a farsi i dispetti.
«E credi che accetterà?», Harper non sembra convinta. Lei mi conosce.
Mason la guarda intensamente. «Credi di essere l'unica a conoscerla solo perché eravate inseparabili?» solleva gli angoli della bocca. «Erin non è poi così forte come si pensa. La vedi così, ma ha un lato debole anche lei.»
Gli occhi di Harper le si illuminano mentre Dana sembra improvvisamente a disagio. Tenta infatti di allontanarsi da Davis, forse perché vuole avvisarmi.
«Bene, la metteremo a tacere allora se dovesse parlare.»
Tutti si ritengono d'accordo.
Insieme a loro, vi sono persone che non ricordo di avere mai visto. Ragazzi dell'età di Mason che non erano presenti alla festa nel bosco.
Stringo maggiormente il pugno in vita avanzando di un passo pronta a difendermi ma vengo afferrata e tirata indietro. La mia bocca tappata abbastanza forte da una mano coperta dal guanto di pelle.
Un istinto quasi animale vorrebbe uscire dopo avere provato sotto pelle una stranissima e feroce sensazione. Sento persino scarso l'equilibrio e la mancanza improvvisa di ossigeno mi dà alla testa facendomi barcollare.
«Calma, non è il momento di avere colpi di testa, scheggia!»
Mi agito per non dargliela vinta ma è così forte da non permettermi di divincolarmi.
«Guarda guarda chi abbiamo qua», esclama una voce.
I King si voltano ritrovandosi in trappola.
Sbircio riuscendo a fare un passo avanti mentre la mano, il petto del ragazzo che mi sta tenendo forte a sé mi impedisce di raggiungerli.
Un altro gruppo degli Scorpions li sta circondando. Sono assetati di vendetta. Lo noto dal modo in cui li fissano.
Numericamente sono di più rispetto ai King, adesso agitati e colti alla sprovvista.
Shannon arriva facendosi largo tra i suoi ragazzi raggiungendo Mason che si è già alzato dopo avere sputato a terra.
«Davvero credevate di poterla fare franca prima della riunione?», ridacchia in tono basso emettendo un suono simile ad un colpo di tosse.
«Non abbiamo paura di voi», replica in risposta Mason.
In breve i ragazzi si fanno avanti tenendo al sicuro tutte le ragazze del gruppo apparentemente spaventate.
Adesso non parlano più?
In fondo sono soddisfatta di poterli vedere così allarmati e impreparati.
Mi scrollo la mano dalla bocca mordendola.
Il ragazzo alle mie spalle ringhia circondandomi il collo con un braccio. Mi schiaccia maggiormente al suo petto. Il suo profumo è così intenso da stordirmi. «Sta ferma, goditi lo spettacolo», sorride contro la mia guancia.
Schiudo le labbra. «Perché sei qui e non con i tuoi amici?»
«Stavo passando da queste parti per partecipare quando ti ho vista e non ho resistito. Che cosa pensavi di fare?»
Mi tira indietro quando qualcuno dei King guarda verso il vicolo.
«Stavano parlando male di me. Volevo dare un'altra bella lezione a mister mi sento perfetto.»
Ride. «E credi che ci saresti riuscita? Sei coraggiosa, lo ammetto. Ma devi stare calma e ragionare.»
I miei occhi tornano per un momento verso  il parco. In questo vicolo che odora di biscotti appena sfornati. Guardo una finestra aperta accorgendomi della teglia messa a raffreddarsi.
«Tipico dei King atteggiarsi», sta rispondendo Shannon. I suoi ragazzi si sono avvicinati tanto agli altri che adesso sono raggruppati come bestie al macello.
«Ragionare? Con voi non è possibile farlo. Agite come animali. Siete davvero convinti che uno dei due gruppi sia il migliore?»
Soffia dal naso e la mia pelle si rizza. «Ancora non hai fatto i compiti a casa, vero? Hanno iniziato loro. Non farti convincere dalle storie che raccontano per vantarsi. Scava a fondo, scheggia.»
«Perché siete qui?»
«Perché Mason deve pagare per quello che ha fatto. Tanto ci addosseremo ogni colpa, come sempre.»
Guardo Shannon sempre più vicino a Mason.
«Che cosa succede adesso?»
Non ho neanche il tempo di chiederlo perché Shannon attacca al viso Mason sfregiandolo con una lama mentre gli altri suoi compagni tengono fermi ognuno di loro senza dargli la possibilità di difenderlo.
Harper strilla spaventata. Dana fa lo stesso agitandosi.
Mason urla di dolore tenendosi la guancia, imbrattandosi la mano di sangue poi cade a terra quando Shannon gli molla un calcio dietro l'altro sull'addome.
«Ricordati di questo giorno, Mason. Ricorda che hai un debito con noi quando ci addosseremo ogni colpa questa sera alla riunione d'emergenza in cui farete le vittime. E ricordati che conosciamo il vostro piano, abbiamo le registrazioni...» gli molla un altro calcio.
«E se torcerete anche un solo capello a quella ragazza o a chiunque non voglia avere niente a che fare con voi, vi verremo a cercare uno ad uno: di notte, di giorno, non ha importanza... tu sarai il primo ad essere fatto fuori insieme alla tua ragazza.»
Con un cenno della testa i suoi compagni attaccano gli altri ferendoli.
Emetto un verso strozzato, un sussulto e mi volto tappandomi gli occhi.
Sento il ragazzo irrigidirsi, lasciarmi andare e quando lo guardo ha già infilato il casco negandomi la possibilità di vederlo in faccia.
Non so perché ho avuto una simile reazione. Non mi aspettavo forse di vedere una così grande furia concentrata su un unico corpo ai danni di un altro.
Sono terrorizzata al momento e non lo nego. Non posso farlo.
«Ricordatevi di questo giorno, King», sputano uno ad uno a terra allontanandosi.
Mason si rialza ringhiando. «Non saremo clementi!», urla dando l'ordine ai suoi di attaccarli alle spalle.
Il ragazzo mi tira per un polso iniziando a correre notando qualcuno nella nostra direzione.
Lo seguo lasciandomi trascinare dentro un paio di stradine silenziose dove il rumore dei nostri passi si confonde insieme all'affanno.
Ci fermiamo sul ciglio della strada dove sono disposte tante moto.
Il ragazzo sale velocemente sulla sua Kawasaki nera facendomi cenno di salire in sella.
Mi guardo indietro sentendo delle urla poi prendo coraggio ritornando in me dopo lo shock iniziale e accetto di nuovo il passaggio che, con ogni probabilità mi costerà molto più di un semplice favore.
Non mi aggrappo neanche ma le sue mani mentre la moto si spinge sulla strada a gran velocità mi costringono a farlo.
«Dove stiamo andando?» Chiedo guardando alle nostre spalle.
Non mi risponde e quando rallentiamo staccandomi faccio di proposito la mossa di scendere dalla moto.
Per poco non ci schiantiamo quando frena scivolando di lato sull'asfalto. Voltandosi probabilmente mi trucida con lo sguardo.
«Lontano», risponde urlando. «Attualmente non devono trovarti. Sei la prima persona che cercheranno perché credono che tu ci abbia riferito tutto.»
Sospiro togliendo i capelli dal viso. «Sul serio?», rido come una pazza isterica.
«Ma io non posso andarmene», esclamo.
«Tornerai a casa e poi sarai alla riunione ma adesso sta zitta e non protestare.»
Lo guardo male incrociando le braccia. «Mi dirai almeno dove mi stai portando?»
«Te lo dirò quando ci arriveremo», rimette in moto staccando le mie braccia per sistemarle sul suo petto.
«Sei la prima che rifiuta di toccarmi», dice con divertimento.
Alzo gli occhi al cielo. «In questo fottuto paese siete così convinti di piacere a tutti?»
Aumenta la velocità senza più rispondere e alla fine svolta a sinistra guidando lungo un sentiero tortuoso pieno di pietre e foglie secche prima della breve salita ed infine si ferma davanti una piccola casa interamente di legno invecchiato.
Scende dalla moto facendomi cenno di seguirlo dentro.
Turbata e guardinga lo seguo fino al portico. «Li dentro non ci entro con te», dico appoggiandomi alla colonna piena di schegge.
Sbuffa. «Proprio a me doveva capitarmi una sciagura simile?»
Batto le palpebre. «Io... sarei una sciagura? Pronto, sei stato tu a darmi un passaggio e sei stato tu a portarmi qui.»
Neanche mi ascolta e se ne va girando intorno alla casa per chissà quale motivo.
Osservo con attenzione il posto in cui ci troviamo. È davvero caratteristico. Parecchi gli alberi alti spogli. Immense distese di foglie secche a creare sfumature che variano dal giallo al rosso.
L'aria qui è più fresca e frizzante. Il cielo ormai sul punto di tramontare offre invece uno spettacolo quando gli ultimi raggi filtrando tra gli alberi creano spiragli di luce in cui è possibile notare i granelli di polvere nell'aria.
Il ragazzo torna da me. Apre la porta della casetta. Questa cigola in modo macabro. Mettendosi di lato mi fa cenno di entrare.
«Dove sei andato?» Chiedo entrando in punta di piedi.
Mi ritrovo in una piccola casetta più che accogliente. Un letto all'angolo davanti alla finestra, un camino al centro a coprire la parete che ho davanti, un tappeto e due divani con un tavolo basso creato con un ceppo giovane di quercia lucidato al centro. Di fianco una piccola cucina.
Il ragazzo si siede sulla poltrona. Non toglie il casco.
«Sono andato in bagno. Se te lo stai chiedendo si trova sul retro. Lo hanno aggiunto dopo e non hanno mai fatto una porta per accedervi direttamente da qui.»
Guardo fuori dalla finestra. «Perché non mi mostri chi sei? Attualmente ti paragono ad un Power Rangers», tiro la tendina.
C'è odore di legno, di limoni e pulito.
Picchia il palmo sul divano. «Siediti.»
«Non se ne parla. Già è inquietante questa storia così. Adesso sono pure... in un posto simile...»
Si alza avanzando verso di me.
Mi schiaccio contro la porta e non perché ho paura ma perché in caso di emergenza posso sempre uscire il più velocemente possibile dopo avergli mollato un calcio in mezzo alle gambe.
«Ok, scheggia», inizia stanco. «Sei qui perché te lo dico io. Adesso smettila di rompere le palle con le domande e rilassati. Non ti mangerò e non ti ucciderò. Sto solo aspettando un paio di minuti prima di portarti a casa.»
Faccio una smorfia. «Che cosa stiamo aspettando esattamente?»
Dapprima mi si stringe addosso togliendomi il fiato poi stacca una mano dietro l'altra voltandosi. La passa sul collo. Noto ancora quello strano tatuaggio, come i rami di un albero.
«Un messaggio. Alcuni si stanno assicurando che tu non riceva sorprese tornando a casa.»
«Mi sento come in uno di quei film...» esclamo aprendo la porta, uscendo velocemente fuori. Il ragazzo prova ad afferrarmi e scappo via ridendo.
Stringe i pugni provocando un orribile rumore di pelle che sfrega e avanza come un falco verso di me. Non ho neanche il tempo di raggiungere il sentiero. In breve sono sulla sua spalla, come un sacco di patate.
Scoppio a ridere maggiormente. «Che cosa stai facendo?»
«Ti impedisco di scappare e correre inutili rischi. Non lo sai ma in tutto il perimetro, ben nascoste ci sono delle trappole e potresti farti molto male perché non sai dove si trovano.»
Sbuffo. «Ok, Ricevuto. Rimettimi giù!»
Cammina verso casa e mi agito. «Possiamo rimanere qui fuori?»
Si ferma, un piede sul primo gradino del portico. «Perché? Hai paura?»
«No, non ho paura. Voglio solo sedermi qui fuori, aspettare un segnale di fumo e poi tornarmene a casa di mio padre.»
Mi rimette giù facendo bene attenzione ad ogni mio movimento ma sono già seduta sul gradino. Abbraccio le mie gambe senza guardarlo.
«Perché l'hai definita la casa di tuo padre e non la tua?»
Alzo le spalle. «Non ho una casa e non sento quel posto mio.»
Controlla il telefono. «Ok, torniamo indietro adesso.»
Mi sollevo come una molla avanzando lungo il sentiero, superando la moto ma vengo afferrata di nuovo per le ginocchia, sollevata e poi sistemata sulla sella. «La prossima volta, se ce ne sarà un'altra, ti legherò.»
«Uhh che paura!»
Scuote la testa mettendo in moto. «Dove hai imparato ad essere così?»
Mi irrigidisco.
Non rispondo e a pochi metri da casa, quando mi lascia per non dare troppo nell'occhio, scendo dalla moto fissando la casa con astio.
Mi sfiora una guancia distraendomi. «Mi piacciono i tuoi capelli. Ci vediamo alla riunione, se sarai in grado di riconoscermi!», sento il suo divertimento.
Sto per replicare ma si allontana senza darmi la possibilità di parlare.
Sospiro camminando verso casa senza più certezze e con enormi dubbi dentro.

🖤

Come crepe sull'asfaltoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora