66 - Emil

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Warren: Te l'ho detto, puoi tornare a casa quando vuoi, principessa.

Sorrisi del cuore a fine messaggio, non troppo da lui, e digitai la risposta.

Tu: Sono passati solo due giorni, forse dovrei essere più paziente...

Era la vigilia di Natale e, nei due giorni precedenti, le cose non erano andate molto bene coi miei genitori. Non avevamo litigato, ma la tensione era alle stelle. Avevo capito di dover calibrare le parole, di non potermi esporre troppo e, a dire il vero, era quasi impossibile dialogare. Ci limitavamo a frasi di circostanza, poche domande sulla mia nuova vita e nulla di più.

Non che avessi creduto che sarebbe stato rose e fiori, che mia madre mi avrebbe dato consigli di moda o che mio padre mi avrebbe portato a pescare, ma non era neppure lontanamente somigliante a quella visione idilliaca.

Non eravamo una famiglia, non più, mi tenevano distante, benché fossero stati proprio loro a dirmi di volersi riavvicinare. Io ci avevo provato, il primo giorno, eppure non avevo visto lo stesso sforzo da parte loro. L'unica nota positiva era Oliver, con il quale mi stavo rappacificando, poco alla volta, con qualche scambio di messaggi un po' timorosi ma sinceri.

Warren: Se i tuoi si azzardano a farti soffrire, giuro che prendo la macchina e ti rapisco.

Mi sorse spontanea una risata e scossi il capo. Per fortuna avevo Warren al mio fianco anche in quella situazione.

«Rory... Sei davvero tu?»

Scattai col volto alla mia sinistra e spalancai gli occhi, il cuore mancò un battito, poi si fermò dritto in gola.

«Emil...»

Un nome che non avevo più pronunciato per troppo tempo, uno che avevo cancellato da ogni anfratto della mia vecchia vita per cominciarne una nuova. Era ancora un dolce suono, ancora mi incantava, così come quelle iridi di un verde trasparente nelle quali potevo specchiarmi.

«Rory, sei davvero Rory.» Portò una mano davanti alla bocca e respirò con affanno. «Non ci credo.»

La parte più bella e più dolorosa del mio passato era lì davanti a me, neppure io potevo crederci. Forse stavo sognando, forse avevo le allucinazioni.

«Come stai?» mi chiese in un sussurro lieve. «No, è una domanda stupida...»

Risi. «Diciamo che è meglio che tu abbia una domanda di riserva.»

Ci guardammo per qualche attimo in assoluto silenzio. C'erano troppe cose che andavano spiegate, tante che avevamo lasciato in penombra e che non ero sicuro sarebbero state riportate alla luce.

«Quando sei tornato?»

«L'altro ieri» risposi e infilai le mani congelate nel giubbotto. «Dopo ben cinque anni e mezzo.»

«Cinque anni e mezzo...» ripeté più a se stesso che a me.

Lessi nei suoi occhi infinite domande: "Perché non sei tornato prima? Perché non sei tornato da me? Perché non siamo andati via insieme?". Sapevo a cosa stavo rinunciando, scappando di casa, avevo deciso per entrambi ma consapevole di fare la scelta migliore per il nostro futuro. Non sarei sopravvissuto nel terrore che i miei potessero fargli del male, che rovinassero la vita anche alla persona che amavo.

Emil era stato il mio primo amore, il mio primo fidanzato, il mio primo di molte altre cose. Colui che mi aveva guardato senza giudicare, che mi aveva rispettato, che mi aveva insegnato a essere chi volevo senza preoccuparmi degli altri.

Non era quantificabile il dolore che avevo provato nell'allontanarmi da lui senza poter essere trovato, sebbene, nel profondo, avessi sperato per molti mesi che ci riunissimo, per poi desistere, ancora una volta per il suo bene. Non mi ero mai pentito della mia scelta, seppure il cuore si fosse spezzato in infiniti frammenti.

Come Guardare il SoleDove le storie prendono vita. Scoprilo ora