9. Un vecchio debito

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Marzo 1942. Fronte Occidentale, Francia. Base tedesca.


Levi stiracchiò pigramente le braccia, rifiutandosi di aprire gli occhi. C'era un profumo fresco nell'aria e della brezza leggera che gli sferzava le guance. Le lenzuola in cui era avvolto sapevano di pulito, di sapone francese, mentre il cuscino era incredibilmente morbido. Senza dubbio, sotto la federa si nascondevano un migliaio di piume d'oca. Anche il materasso era comodo: ne coglieva la lieve rigidezza oltre la schiena, ma non era una sensazione spiacevole. L'imbottitura lo cingeva con cura, cullando il sonno ormai sul finire. Vi era della luce, lo percepiva anche attraverso le palpebre chiuse.

Aveva fatto un sogno orribile: lungo, interminabile, in cui il suo Spitfire era precipitato. La prigionia, le torture, la morte ... erano parte di quell'incubo che lo aveva punzecchiato nelle ultime ore. Ad un passo dal risveglio, i ricordi si mescolavano alla fantasia. Nulla di ciò era successo: si trovava ancora in Inghilterra, probabilmente in una della più sfarzose stanze di Buckingham Palace. Re Giorgio VI lo aveva invitato alla reggia, come si conveniva ad un giovane conte del Commonwealth. La sensazione impastata della lingua era sicuramente dovuta ai festeggiamenti della sera prima: si era dedicato al vino, senza preoccuparsi dei suoi effetti successivi. L'alcool gli aveva dato talmente alla testa che neppure ricordava come avesse raggiunto la sua camera. Poco male, lo avrebbe domandato alla servitù.

Lentamente, riaprì lo sguardo, indugiando sull'aspetto della stanza: era alloggiato in un ampio letto a baldacchino, i cui tendaggi color porpora erano allacciati da fini cordoni argentati. Una trapunta verde scuro lo copriva, intonata al largo scendiletto alla sua sinistra. Le pareti erano rivestite da carta da parati, richiamante dei motivi geometrici e floreali: l'oro ed il rosso si alternavano con precisione matematica, riflettendo la luce che filtrava dalla grande porta a vetri; oltre questa, un balcone in marmo chiaro accoglieva alcuni vasi di fiori, dove i germogli facevano timidamente capolino ai raggi di un mattiniero sole. Una scrivania ed una libreria erano alloggiate nell'angolo vicino ad una finestra, mentre poco oltre un secondo ingresso ammetteva ad un bagno privato, di cui riusciva a scorgere soltanto il la vasca in ceramica chiara. Dirimpetto, un largo cassettone ed uno specchio, intento a riflettere la sua immagine stanca: il volto affilato era ancora coperto di lividi e tagli ormai asciutti, mentre i capelli arruffati sparavano in ogni direzione. Una camicia larga e candida vestiva la sua figura, mentre una coppia di bende gli cingeva i polsi, laddove i ferri li avevano malamente sfregiati. Armeggiò qualche attimo con il tessuto della veste, sollevandolo sino al fianco destro: una fasciatura pulita lo circondava strettamente.

Aggrottò la fronte, mentre la verità si dipanava lentamente: non era un conte e quello non era Buckingham Palace. Era solo una camera riccamente arredata, abbracciata da un soffitto in pietra ed un lucido parquet. Realtà e sogno si erano nuovamente invertiti: dall'essere un aristocratico in visita al sovrano, era ritornato ad essere un misero pilota della Raf in mani nemiche. Sbuffò leggermente, direzionando lo sguardo alla propria destra: poco lontano, vi era un divanetto ed una coppia di poltrone, accompagnati da un basso tavolino da the. Appena oltre, vicino al caminetto spento incastonato nella parete, un tavolo ingombro di carte ed accompagnato da alcune seggiole imbottite; su una di queste, immerso nei suoi pensieri, sedeva il maggiore Smith.

«Emh... » Levi tossicchiò, cercando di richiamarne l'attenzione.

Ottenne in breve l'effetto sperato; scorse il biondo distogliere l'attenzione da alcune mappe e posarla su di lui:
«Noto che ti sei svegliato» la voce era stanca, immancabilmente profonda ma quasi provata «Buongiorno. Spero tu abbia riposato»

Era insolito quel tono, soprattutto per un ufficiale tedesco. Non riusciva bene ad inquadrarlo: si stava comportando da amico per estorcergli altre informazioni? Non che avesse molto altro da dire: aveva già vuotato il sacco, un attimo prima che Weilman sparasse a Farlan.

Quel ricordo lo colpì con la violenza di uno schiaffo: Farlan non c'era più. Doveva abituarsi a quell'assenza, al vuoto che sentiva crescere dentro di sé, alla sensazione di abbandono. L'artigliere lo aveva lasciato per sempre ed ora non aveva più nessuno a cui aggrapparsi: nessuno con cui condividere paure, preoccupazioni, ricordi e gioie. Nessuno. Era solo. Doveva cavarsela con quei pochi mezzi che aveva. Cercò di scacciare una sensazione pungente agli occhi, quando le immagini del giorno prima tornarono ad insidiargli la mente: il corpo steso a terra, lo sguardo vacuo privo di accuse o di rimorsi, quel leggero perdono che ancora poteva leggere sulle labbra incrinate ed il sangue mescolato alle ultime lacrime. Non voleva, né doveva pensarci! Poteva solo cercare di rimanere concentrato sul momento, per impedire che Smith facesse leva su quei sentimenti per ottenere altro. Non avrebbe aperto bocca: non avrebbe tradito l'Alleanza; ormai, non aveva più niente da perdere. Farlan se n'era andato e con lui ogni speranza di un ritorno alla normalità. Niente sarebbe più stato come prima: Isabel lo avrebbe disprezzato, avrebbe perso la fiducia, lo avrebbe allontanato e rinnegato. La loro pace era distrutta per sempre e la colpa, naturalmente, era anche sua. Non doveva pensarci, però! Non avrebbe permesso a quei ricordi troppo freschi di ferirlo nuovamente, non davanti al tedesco. Non voleva farsi vedere nuovamente ferito, debole nel profondo. Prese un profondo respiro, cercando di schiarirsi la mente e di accantonare l'allungarsi delle ombre sulla sua coscienza.

«Ti ho chiesto se ti senti meglio» il tono del Maggiore tornò a farsi sentire, strappandolo da quelle preoccupazioni.

Annuì brevemente, stringendo lentamente le coperte sotto le dita affusolate:
«Per modo di dire...» sussurrò, tornando a spiare la stanza «Cosa ci faccio qui?»

«Non mi sembrava prudente lasciarti in cella da solo. Ho preferito tenerti sott'occhio»

«Temevi che fuggissi?»

«Che ti ammazzassero, più che altro...Weilman non è un uomo incline al perdono, te ne sarai accorto. Non potevo permetterlo»

«Perché ? In fondo, sono soltanto un Inglese. Chissà quanti ne avrai assassinati, prima d'ora» alzò le spalle, come se la cosa non gli interessasse più, ormai. Tornò a studiare la figura dell'ufficiale: Erwin sembrava davvero provato, come se non riuscisse a sopportare il peso degli ultimi avvenimenti; le mani robuste stringevano un calice di vino rosso «Che ore sono?»

«Le dieci e trenta, all'incirca»

«Non credi sia un po' presto, per bere?»

«Non è mai troppo presto» il biondo gli tese un secondo bicchiere, pieno fino all'orlo «Potresti averne bisogno»

Scalciò via le coperte, rimettendosi in piedi. La caviglia slogata protestò a quel trattamento, ma il bendaggio la tenne salda e le impedì di cedere. Accomodò la camicia, celando al meglio le gambe nude, per poi marciare verso il tavolo. Afferrò il vino, prendendone un sorso veloce: il sapore corposo bagnò le fauci secche, donandogli un immediato sollievo.

«Che fine hanno fatto i miei vestiti?» chiese, allargando piano le braccia. Accidenti, quell'indumento era decisamente troppo largo. Gli cadeva lungo le spalle, sui polsi, arrivando a sfiorargli la pelle delle cosce. Probabilmente, era di qualche tedesco... anzi... sicuramente. Del Maggiore? Facile, a giudicare dalla taglia abbondante.

«Hanji li ha cestinati. Ieri sera, quando ti abbiamo portato qui, ha insistito per darti una ripulita e cambiarti le medicazioni» una pausa, un piccolo moto ironico «Non fare quella faccia! È un medico, dopo tutto»

Faccia?

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